Luigi Fabbri
Carlo Pisacane

CARLO PISACANE

III.

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III.

Ritornato Carlo Pisacane nel 1856 dal romitaggio di Albaro in Genova, dagli studi scientifici e sociali all'azione rivoluzionaria politica, molti stenti dovette durare per campare la vita. Insegnava privatamente matematiche, e non erano molto numerose le lezioni trovate, tanto che dovette, si può dire, soffrire letteralmente la fame, insieme alla sua compagna ed alla figliuola.

Mantenutosi sempre in relazione coi comitati rivoluzionari di Torino e di Napoli, queste relazioni fece più vive; e sui primi di maggio del 1857 si recò di persona in Torino a trovare Giovanni Nicotera, per proporgli senz'altro una spedizione insurrezionale nel Napoletano. A viva voce e per lettera, sentito anche il parere dei lontani, fu presto tutto combinato. Sorta una idea, Pisacane non tergiversava affatto prima di porla in azione, e correva dritto alla mèta. Fu stabilito che Carlo Pisacane, per essere del paese e sopratutto per le sue cognizioni tecniche e militari, avesse il comando supremo della spedizione. Egli infatti si mise subito all'opera, recandosi clandestinamente a Napoli, dove si abboccò con gli amici più fervorosi del Comitato nazionale, fra i quali ricordiamo Giuseppe Fanelli, il futuro internazionalista amico di Bakounine; e tutti gli assicurarono che uno sbarco sul suolo di Napoli di emigrati politici sarebbe stato seguito da una insurrezione generale. Vedremo poi come questa assicurazione fosse avventata e fallace.

Tornato a Genova, Pisacane fissò la partenza della spedizione per i lidi partenopei per il giorno 13 giugno 1857. Come si vede, non aveva perduto tempo. Ma un contrattempo fece rimandare di qualche giorno la partenza dei volontari; Rosolino Pilo, l'eroe della rivoluzione siciliana che doveva morire vicino a Palermo nel 1860 a capo dei picciotti insorti in aiuto di Garibaldi, incaricato di portare in alto mare una barca di armi, fu sorpreso da una tempesta, e costretto a gettare il prezioso carico in acqua a poche miglia da Genova. Dopo questo fatto Enrico Cosenz si rifiutò di prender parte all'impresa, come aveva promesso; e allora Pisacane col passaporto di quegli ritornò daccapo in Napoli per concertarsi meglio, e non far avvenire un moto fuori tempo. Ne ritornò, dopo aver prese tutte le precauzioni e aver tutto provveduto, celeremente, e stabilì insieme agli altri di partire da Genova di con i volontarî della spedizione, il 25 giugno, dieci giorni dopo aver lasciato Napoli.

Alla vigilia della partenza, il 24, Carlo Pisacane scrisse il suo testamento politico, in cui dichiarava di credere «che il socialismo, nella formula libertà e associazione, sia il solo avvenire non lontano dell'Italia e forse dell'EuropaAffermava in esso di non aver alcuna fiducia per il risorgimento d'Italia nei regimi costituzionali, neppure in quello del Piemonte, che anzi credeva più dannoso all'Italia di quello borbonico. Vantava altresì la superiorità dei fatti sulle idee: «Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero.» E da questo concetto deriva la superiorità della propaganda coi fatti, cui abbiamo accennato più sopra, e la necessità della iniziativa rivoluzionaria individuale con queste parole: «Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese; ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero il paese senza far nulla, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione dee farla il paese di cui io sono una particella infinitesimale, epperò ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante»4. Diceva essere sua opinione che la spedizione sarebbe riuscita, ma che in caso contrario disprezzava coloro che avrebbero detto folle il suo tentativo, poichè nessuno farebbe nulla di ardito se prima aspettasse l'approvazione delle maggioranze; e concludeva di trovar premio solo dalla propria coscienza, e dal cuore dei suoi amici e cooperatori; e che del resto, se nessun bene fosse venuto all'Italia dal suo sacrificio, sarebbe stata sempre una gloria per lei aver trovata gente volenterosa d'immolarsi al suo avvenire.

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Finalmente, il 25 giugno 1857, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Battistino Falcone ed altri ventidue s'imbarcarono in Genova sul piroscafo Cagliari, diretto in Tunisia, toccando la Sardegna: e si imbarcarono alla chetichella, come passeggeri che non si conoscessero l'un l'altro. Però, appena lontani dal lido, a un segno convenuto si lanciarono tutti sui marinai e sul capitano, li fecero prigionieri con la forza e li rinchiusero sotto coperta. Si unì a loro, benchè non fosse della partita, anche qualche passeggero, e perfino un cameriere del piroscafo. Nominato capitano uno dei loro, a 20 miglia dalla spiaggia si aspettava Rosolino Pilo che doveva anche questa volta con una barca portare un carico di armi ai volontari. Ma sventuratamente una folta nebbia impedì a Pilo di vedere il piroscafo, finchè s'imbattè nella sua barca un piroscafo del governo sardo, l'Ichnusa, che la catturò. I congiurati in alto mare, capito che non v'era più da sperare su quell'aiuto, vollero proseguire lo stesso: «Impareranno i moderatidisse Pisacane – come poche anime generose sappiano iniziare grandi fatti, armati d'un pugnale soltanto

Fortuna volle però che, navigando verso Ponza, si scoprisse che nel naviglio c'era già una cassa di 150 schioppi da caccia diretti a un armaiuolo di Tunisi. Figuratevi l'allegrezza dei volontari! Per tutto il viaggio, da allora, non fecero che fabbricar cartucce e fonder palle adatte a quei fucili, che, naturalmente, credettero bene di appropriarsi come diritto di guerra.

Il giorno 27 giunsero a Ponza, isola dell'arcipelago napoletano, in cui il governo borbonico teneva relegati molti condannati politici. Oggi in un muro dell'unica strada dell'isola si possono leggere in una lapide alcuni nomi di quei relegati. Il governo italiano non ha voluto in questo esser da meno del governo borbonico, ed anche lui ha mandato a più riprese a Ponza ed in altre isole del meridionale, relegati col nome di coatti, i socialisti e gli anarchici che con la loro azione politica lo disturbavano. Ma torniamo a Pisacane ed ai suoi amici.

Questi, giunti nella rada di Ponza, con un'astuzia attirarono a bordo ed imprigionarono il capitano di porto e qualche altra autorità del luogo più ingenua. Quindi in quattordici scesero a terra, assaltarono e disarmarono il porto doganale e la guardia dei veterani. I 300 soldati di fanteria che erano nell'isola di guardia, non sapendo di tanta inferiorità di numero, si arresero quasi senza colpo ferire. Pisacane impose loro la consegna delle chiavi delle prigioni, e quindi corse a liberare tutti i prigionieri politici, un migliaio circa. Uno di questi, per ricompensa si fece traditore dei suoi liberatori. Si chiamava De Leo. Istigò gli altri suoi condetenuti a non seguire Pisacane, che li aveva già tutti ingaggiati, e riuscì a distoglierne da lui quasi seicento. E mentre Pisacane e i suoi compagni stavano per partire con gli altri quattrocento rimasti fedeli, il De Leo sur una barca si recò a Gaeta ad avvertire le autorità borboniche.

Intanto, nella notte, il piroscafo Cagliari con i rivoluzionari faceva strada verso il continente, e vi giunse innanzi che il giorno sorgesse. Carlo Pisacane ed i suoi sbarcarono precisamente dove s'era convenuto col comitato di Napoli, vicino al villaggio di Sapri. Qui però nessuno li aspettava; i soccorsi promessi non vennero, e nessuno rispose al loro appello di libertà. Venuto il giorno, gli abitanti in cui si imbattevano fuggivano spaventati, e dopo aver aspettato tutta la giornata del 28 pernottarono a Sapri, donde partirono l'indomani internandosi. A mezzodì del giorno 24 i volontarî, che ormai possiamo chiamare i volontarî della morte, giungevano a Torraca. Niun volto amico neppur qui: attorno a loro silenzio, paura, abbandono, fuga. Perfino il barone Gallotti, che si sapeva liberale, corse dalle autorità a scagionarsi d'ogni solidarietà coi rivoluzionari sbarcati a Sapri. Giunti a Padula, un altro paesetto, il 30 giugno, la cosa si ripetè: la gente fuggì atterrita o si nascose, come fossero arrivati i briganti, tanta era l'ignoranza di quella popolazione ed il loro feticcio attaccamento ai Borboni.

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Intanto il governo, avvertito, spediva battaglioni su battaglioni sui passi degli insorti, cercando di attorniarli. Contemporaneamente la guardia urbana di Sapri, di Torraca e di altri paesi dei dintorni si armò contro gli sbarcati dal Cagliari. Il Cagliari presto veniva raggiunto dalle navi borboniche e catturato, e presine prigioni tutti i marinai e le persone rimastevi.

Abbiamo detto della guardia urbana; ma non si creda che questa fosse qualche cosa come la guardia civica o nazionale, che si istituiva durante le rivoluzioni del '48 nelle varie città d'Italia. Era essa una guardia civica a rovescio, composta di tutti gli oziosi e le canaglie de' varî luoghi, assoldati dalla polizia in servizio della reazione. Era gente brutale, manesca, analfabeta, ignorante, quasi sempre rea di delitti comuni, attaccata ai Borboni come l'ostrica allo scoglio. Circa 800 di queste guardie urbane, insieme a 200 gendarmi, s'imbatterono il luglio con i rivoluzionarî, e attaccarono battaglia con essi. I rivoluzionarî ebbero la vittoria, sbandando, dopo uno scontro accanito, le guardie e i gendarmi borbonici. Malgrado la vittoria però, gli insorti erano in tristi condizioni; stanchi e trafelati dopo tre giorni di cammino, e dopo un combattimento, non potevano trovar modo di riposarsi e tanto meno di rifocillarsi. Mancava loro pane ed acqua; e niuno voleva darne. Tutte le porte venivano ad essi chiuse in faccia; e forse è deplorevole che i rivoluzionarî non si prendessero con la forza ciò che loro veniva negato, chiesto con le buone e col denaro alla mano. La sete sopratutto che soffrirono fu terribile.

Mentre dopo la vittoria essi riposavano alla meglio sotto gli alberi, giunsero altre truppe nemiche. Questa volta erano otto compagnie regolari di Cacciatori borbonici, comandati dal tenente colonnello Ghio, il medesimo che nel '60 doveva ignominiosamente fuggire davanti a Garibaldi.

Per giudicare dell'entità delle forze giunte all'improvviso sugli insorti, basterà dire che ciascuna compagnia Napoletana si componeva di 150 o 160 uomini. Mille e duecento soldati regolari e bene armati, contro appena trecento volontari (che tanti eran rimasti) con munizioni scarsissime e con poveri facili da caccia! Era il principio della fine....

La battaglia durò più di due ore, ma alla fine mancarono le cartucce ai volontari, e si dovette pensare ad una risoluzione disperata. O internarsi ancora nei monti, o morire battendosi alla meglio fino all'ultimo. Carlo Pisacane era del secondo parere, ma Nicotera lo dissuase, persuadendolo invece a battere in ritirata e ripiegare con gli altri verso il Cilento. Così cominciò la dolorosa ritirata – il Calvario! Nell'attraversare Padula il volgo si scagliò contro di loro, assalendoli di fianco, a tergo, gettando sul loro capo pietre e masserizie dalle finestre, uccidendone alcuni, altri facendone prigionieri, e assassinando anche cinque di questi. Il manipolo di generosi, assottigliato già nei precedenti scontri, si assottigliò così anche di più; erano rimasti in 96 da 400, attorno a Pisacane, Nicotera e Falcone.

Percorsero insieme, internandosi ancora, la pianura, e giunsero alle falde delle montagne di Buonabitacolo. Ahi! che non fu abitacolo buono per quei generosi! Stanchi, digiuni, assetati, tutti negavano loro asilo, acqua, pane. Smarriti, non sapevano ove andare; e solo un pastore si offerse loro a guidarli verso il villaggio di Sanza. Credete voi che vi andassero per ottenerne ristoro materiale? No! Ancora la speranza di far insorgere quelle terre non era spenta in loro, e di nuovo baldanzosi, benchè pochi e disarmati, entrarono il 2 luglio nel villaggio di Sanza a bandiere spiegate, Carlo Pisacane alla testa, gridando a gran voce: Viva l'Italia! Viva la liberta! Ma miglior sorte neppur qui doveva loro toccare.

Il popolaccio del luogo, mentre gli altri si nascondevano, tutt'altro che seguirli, si scagliò pur esso furibondo contro gli sventurati. Si armarono in un batter d'occhio di scuri, di forche, di falci e di bastoni, e li rincorsero fuori del villaggio, guidati dai preti e dai frati; e più furenti di tutti eran le donne!

L'ultima carneficina così cominciò. Alcuni degli ex relegati di Ponza si dispersero, cercando di sfuggire all'eccidio correndo via per la campagna e per i monti. Non rimasero che in dodici attorno Pisacane, Nicotera e Falcone. La strage continuò su loro. Falcone presto cadde in un lago di sangue, e Carlo Pisacane, circondato da ogni parte, già ferito, fu mortalmente colpito da un fendente di scure, e tutti gli altri villani gli si lanciarono sopra finendolo a colpi di forche e di falci.

Così l'eroe finì la sua vita gloriosa e laboriosa, spesa tutta nel pensiero e nell'azione per la libertà, a soli 39 anni, il 2 luglio 1857.

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Che cosa avvenne poi? Giovanni Nicotera stava per raccogliere e trascinar via il cadavere di Carlo Pisacane, quando una palla lo ferì alla destra ed altri colpi di scure lo stramazzarono a terra. Egli fu preso prigione, insieme agli altri, e trascinato via ignudo, fra gli insulti, le beffe, gli sfregi della plebaglia. Si fece contro loro e i complici e pretesi tali un gran processo a Salerno. Poche furono le assoluzioni, e molte le condanne più feroci. Giovanni Nicotera si portò valentemente in quel processo; con l'astuzia salvò dalla condanna i pochi che infatti furono assolti, ed al Procuratore fiscale che lo tacciò di mentitore, ricacciò in gola l'insulto scaraventandogli contro in piena udienza il calamaio di ferro del cancelliere.

Notiamo con rammarico questo contegno fiero del Nicotera; poichè pensiamo che molti anni più tardi, liberato dalla prigionia perpetua nel fosso di Favignana, cui l'aveva condannato il Borbone, e giunto al potere a capo dell'Italia una, cambiò siffattamente di pensiero e di sentimento da minacciare a una commissione operaia di lanciare la cavalleria sulle donne ed i fanciulli dei lavoratori, durante la manifestazione del Primo Maggio. Indegno davvero quel giorno si rese d'aver adottata ed ospitata in sua casa la figlia del socialista e rivoluzionario mortogli a fianco a Sanza! A tanto può giungere l'influenza pervertitrice e corruttrice del potere!

La compagna di Carlo Pisacane morì qualche tempo dopo del suo amico. Il primo che andò, è bene ricordarlo, ad annunziarle che il padre della figlia sua era stato ucciso, fu un giudice del governo sardo, recatosi a perquisirne la casa insieme al vice console del governo borbonico al quale, con atto di poliziesca deferenza, fu fatta prender visione di tutte le carte rimaste in casa del Pisacane. E verità storica vuol che si dica che chi quel giorno trattò più gentilmente e umanamente la vedova desolata, e la confortò di buone parole, fu il funzionario borbonico; per sola intercessione del quale, anzi, il villano giudice sardo non sfrattò in nome del governo piemontese dalla casa dell'eroe la sua compagna e la figlia.

Or l'iniquità dei tempi ha voluto che il desiderio di Carlo Pisacane non si sia avverato, che il risorgimento d'Italia non sia avvenuto com'ei voleva. Pensi la generazione che sorge a realizzare dell'eroe di Sapri l'altro ideale, quello che preconizzava non lontano, per gli uomini affratellati di tutte le patrie, un avvenire di vero benessere e di integrale libertà.

Luigi Fabbri.

 





4 Questo Testamento Politico di C. Pisacane ha avuto una infinità di edizioni in Italia ed è conosciutissimo. Perciò mi sembra inutile ripubblicarlo intero. Esso è stato inserito in fondo al Saggio sulla Rivoluzione (edizione citata) a pag. 266, ed è stato pubblicato, per ciò che ricordo io, nella vita di Carlo Pisacane dall'on. Felice Visconti Venosta, senatore del Regno, e poi a cura del Lucifero in Ancona, e dell'Uguaglianza sociale in Marsala.



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