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Peccati e peccatori sessuali nell'Inferno Dantesco.
Dante ha toccato più volte quelli che oggi si denominano i «Problemi della vita sessuale»: nel famoso Canto V e nel XVIII dell'Inferno, nel XXV e nel XXVI del Purgatorio. Sebbene il suo amore per Beatrice, perdurato quale fiamma ideale nei lunghi anni del suo matrimonio con Gemma Donati, abbia lasciato supporre che l'Alighieri fosse un appassionato, risulta invece che egli ha più volte tradita la fede coniugale.
Si può rilevare infatti una palese indulgenza di lui verso i peccati di sessualità. Questo noi già vediamo avvenire fin dal Canto V per il modo simpatico con cui dipinge gli amanti adulteri, Paolo e Francesca; ma ancora più nel Purgatorio, il cui girone VII è destinato a purgare le anime dei lussuriosi, sebbene questo peccato figuri teologicamente fra i sette mortali. La infedeltà coniugale ed il cedere alla carne sembra che lo muovano più a pietà che a severità di giudizio: bisogna però che il peccato non sia accompagnato da inferiorità preumana dell'istinto, cioè da bestialità, nè artificio a danno dell'altrui buona fede, cioè da frode.
È curioso e significativo notare che nel Purgatorio, quando nel Canto XXVI Dante fa l'elogio della castità, egli prenda ad esempio, e le associ in maniera un po' eterodossa, Maria Vergine e la Dea Diana, quella per ottemperare alla sua fede Cristiana, questa perchè, cacciando il curioso Elice che l'andava spiando nuda nel bagno, gli porgeva il destro di fare omaggio al paganesimo. Pur degno di nota è che nel girone VII i penitenti vanno intorno vantando le laudi della continenza, ma il canto è interrotto dai caldi baci che si dànno tra loro le schiere dei giranti in tondo, ciò che significherebbe una indulgenza tipica verso questa espressione dell'istinto d'amore. Nè basta ancora: per mostrarci come il Poeta avesse una completa conoscenza del problema sessuale, eccolo dividere i lussuriosi del Purgatorio in due categorie, quelli secondo natura e quelli contro natura; di questi ultimi però già l'Inferno possedeva in Brunetto Latini il rappresentante più punito, sebbene dubbio. La scala dei valori etico-sessuali di Dante era costruita con criterii abbastanza elastici!
Dell'Inferno Dantesco è il Canto XVIII quello che sovra gli altri presenta un particolare interesse, in quanto raccoglie alcuni speciali reati e rei sessuali e riguarda un lato importantissimo della vita collettiva, voglio dire la condotta degli uomini in relazione all'istinto ed all'esercizio della sessualità. Ed è appunto su questo che intendo compiere un commento di carattere sociologico.
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Il luogo. – Fa d'uopo, anzitutto, orizzontarci sul luogo dell'Inferno, dove con Dante e Virgilio discendiamo sul dorso del mostro Gerione, dall'alto e aspro orlo del cerchio settimo tutto occupato dai peccatori per violenza. Ricordiamo intanto le linee architettoniche principali della costruzione dantesca, che, come ognuno sa, è un immenso imbuto, a grandi balze concentriche e degradanti, nella più bassa delle quali sta Lucifero al centro della Terra.
Nel larghissimo vestibolo dell'Inferno stanno gli ignavi che non fecero nè bene nè male, perchè non seppero nella loro apatia scegliere tra l'uno e l'altro: «a Dio spiacenti ed ai nimici sui». Nel primo cerchio, pure assai vasto, che è il «Limbo» del mito Cristiano, stanno tutti coloro che non per colpa propria ma per predestinazione, non ebbero battesimo nè conobbero Cristo: pargoli, Patriarchi, Eroi e uomini illustri della antichità classica pre-cristiana. Dal secondo al quarto cerchio, via via restringentisi, i peccatori per quattro peccati mortali: lussuria, gola, avarizia (cui Dante associa il suo opposto, la prodigalità) ed iracondia. Accanto ai dannati per ira, gli eretici nel sesto cerchio, quasi a scontare sotto i colpi dell'ira Divina il loro peccato spirituale di ribellione al dogma. Nel settimo cerchio, assai largo e diviso in quattro gironi, tutti i peccatori per violenza, e quindi gli omicidi, i suicidi, gli sperperatori, i rivoltosi coscienti contro Dio e gli intaccati del vizio contro natura. Nell'ottavo cerchio, ancora larghissimo, tutti i peccatori per frode, distinti in dieci valli chiamate le Malebolge. Infine, nel nono cerchio, che è più stretto degli altri ed è l'ultimo verso il centro della terra, i traditori, distinti pure in quattro balze: la Caina per i traditori dei congiunti, la Antenòra per i traditori della Patria, la Tolomea per i traditori degli ospiti, e la Giudecca per i traditori della Maestà Divina e Imperiale, maciullati dalle tre spaventose bocche di Lucifero.
Orbene, noi ci fermiamo all'ottavo cerchio, che corrisponde, secondo i commentatori, al «medio Inferno», là dove incominciano le punizioni dei peccati (delitti) più gravi secondo la scala etica Dantesca, che li attribuisce a deviazione colpevole dell'intelletto e perciò li colloca sotto quelli ascrivibili a puro istinto e a passione. Questa è una geniale intuizione psicologica, perchè collima con il concetto sociologico odierno della criminalità.
Le dieci valli del cerchio ottavo contengono, rispettivamente, la prima i ruffiani e i seduttori, la seconda gli adulatori e le lusingatrici, la terza i simoniaci, la quarta gli indovini ciarlatani, la quinta i barattieri, la sesta gli ipocriti, la settima i ladri (oggi dovrebbe essere immensa!), l'ottava i malvagi consiglieri, la nona i seminatori di discordie, e la decima i falsari di ogni genere. E tutti questi rei trovano il loro posto nella disposizione strutturale abbastanza semplice del vasto ambiente infernale: anzi sono ben pochi i Canti del poema, dove la località sia descritta con maggiore evidenza, così che par di averla sotto gli occhi:
Luogo è in
Inferno, detto Malebolge,
Tutto di pietra e di color ferrigno,
Come la cerchia che d'intorno il volge.
Nel dritto
mezzo del campo maligno
Vaneggia un pozzo assai largo e profondo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quel cinghio
che rimane, adunque, è tondo
Tra il pozzo e 'l pie' dell'alta ripa dura,
Ed ha distinto in dieci valli il fondo.
. . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Cosi da imo della roccia scogli
Movìen, che ricidean gli argini e i fossi.
Seguiamo adunque i due viaggiatori su per gli argini che separano le valli o bolgie, e su quei ponti o archi di roccia che servono a sorpassarli fino a raggiungere, al di là della decima zona o bolgia, l'orlo del cerchio ottavo, là dove l'Inferno si inabissa al di sopra del ghiacciaio, in cui sta per metà sepolto «L'Imperador del doloroso regno». Da prima, i Poeti volgono a sinistra, così che, guardando in basso dall'argine, hanno alla loro destra la prima bolgia; e là veggono camminare o correre in senso opposto due file di dannati fraudolenti sotto la sferza dei demoni:
Alla man
destra vidi nuova pièta,
Nuovi tormenti e nuovi frustatori,
Di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo
erano ignudi i peccatori;
Dal mezzo in qua ci venìan verso il volto,
Di là con noi, ma con passi maggiori.
Poscia i due piegano verso destra sulla ripa rocciosa, e si trovano su di un arco formato dalla roccia stessa per lasciare passaggio alle file dei peccatori:
Là 've uno scoglio dalla ripa uscìa.
Assai leggermente
quel salimmo,
E volti a destra su per la sua scheggia,
Da quelle cerchie esterne ci partimmo.
Quindi noi
fummo là, dov'ei vaneggia
Di sotto, per dar passo agli sferzati...
Credo che in questo passo abbiano ragione i commentatori che leggono esterne e non eterne, poichè Dante e Virgilio camminano ora in senso centripeto, dalla periferia del cerchio verso il pozzo centrale costeggiato dalle bolgie più interne. Tutte le bolgie sono attraversate da ponti di roccia, che tra un argine e l'altro formano arco:
Già eravam
dove lo stretto calle
Con l'argine secondo si incrocicchia,
E fa di quello ad un altr'arco spalle.
Ne segue che i Poeti sono sempre in alto rispetto alle valli del cerchio, e per ciò debbono guardare in basso onde vedere ciò che succede nel fondo dell'altra bolgia: questa, pei vapori pestilenziali che la ingombrano,
..... è cupa
sì, che non ci basta
Loco a veder senza montare al dosso
Dell'arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Adunque, mentre la prima bolgia, racchiudente i ruffiani e i seduttori, ha il fondo più o men livellato o scabro di «sasso tetro» e di «color ferrigno», sul quale corrono a piè nudi i dolenti peccatori; la seconda è costituita da un fosso verosimilmente incavato nel fondo pietroso, e così trasformato in una enorme cloaca, dove adulatori ed adulatrici (o, meglio, prostitute) stanno immersi nello sterco, degno soggiorno per quella «lordura».
Ma in questa, come nella precedente bolgia, Virgilio e Dante si fermano poco, quasi che i peccati che vi son puniti, sveglino in essi una specie di nausea: in fretta raggiungono la terza bolgia, quella dei simoniaci, dove noi non li seguiamo.
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I Peccati. – Le dieci Malebolge contengono i peccatori per fraudolenza, i «maligni», che ingannano, e in queste due prime i fraudolenti, sopratutto sessuali.
Si può subito osservare che la scala dei peccati puniti nell'Inferno Dantesco non corrisponde a quella del dogma cristiano, nella quale si sa che vengono considerati come gravissimi per la sorte eterna dei credenti i cosidetti sette peccati mortali. Dante non dispose il suo Inferno in sette soli gironi, e dei peccati puniti dalla collera Divina secondo i teologi colpì soltanto la lussuria, la gola, l'avarizia e l'ira, omise la superbia e l'invidia, e forse pareggiò l'accidia colla ignavia del suo vestibolo infernale, sebbene il senso teologico di questo ultimo peccato non corrisponda in tutto a quello Dantesco. Più strettamente attaccato alla dottrina Cristiana il Poeta si mostra nel Purgatorio: là sono considerati proprio, l'uno dopo l'altro, i sette vizi capitali; egli è che nell'Inferno il suo animo di Ghibellino cede all'odio politico più che non resti ligio al sentimento religioso, e per ciò i cerchi infernali offrono ai commentatori aspetti più sociologici che non tutti gli altri sessantasei canti del Poema.
In Dante noi vediamo intanto una geniale preveggenza del concetto psicologico che domina nella Criminologia positiva, la quale, discendendo alla analisi delle ragioni profonde del delitto, considera sempre più gravi la colpevolezza e la temibilità del delinquente intellettuale che non di quello istintivo. Nelle Malebolge Dante punisce per l'appunto i peccati ragionati, quelli che noi diremmo i più intenzionali. Aristotile aveva già distinto con acutezza singolare il delinquere per istinto da quello per riflessione; e aveva proposto due forme principali di criminalità, la violenza e la fraudolenza.
Questa è però una distinzione riguardante la esteriorità dell'atto colpevole nei rapporti con gli altri conviventi, sui quali il reo agisce o con violenza o con inganno. Ma per l'analisi dell'interiorità psicologica dell'atto, la distinzione Aristotelica e Dantesca ha tre categorie. L'uomo può peccare o delinquere per tre diverse ragioni: per incontinenza, quando ubbidisce agli istinti fondamentali biologici e si lascia unicamente guidare nelle sue azioni dalla desiderabilità dell'oggetto verso il quale l'istinto lo porta, o quando non è in grado di contenere con la volontà le espressioni e le reazioni degli appetiti e bisogni; per malizia, quando egli fa cattivo uso della sua ragione, medita e premedita l'azione colpevole e peccaminosa, ed intenzionalmente mette in opera gli artifici, specialmente subdoli, che lo portano al conseguimento del fine criminoso; per bestialità, quando nelle sue azioni perverte le leggi naturali e commette delitti o peccati di crudeltà contro la legge di simpatia e di pietà, omicidi contro quella del rispetto alla vita, suicidio contro la legge della conservazione propria, sodomia ed altre libidini congeneri contro la legge della riproduzione della specie.
Se nei primi sei gironi sono puniti gli incontinenti che non seppero resistere a tutti gli appetiti della gola e della voluttà, o che cedettero ad accessi collerici, o che ammassarono o sperperarono inutilmente la ricchezza, per compiacere ai più atavici loro istinti, o per esagerare ed eludere l'istinto appropriativo così radicato nell'uomo; se nei successivi gironi dell'alto Inferno stanno tutti i violenti, che non esercitarono freno alcuno sulle proprie tendenze dannose contro il prossimo, contro sè stessi, contro Dio, contro natura e contro l'arte, più giù, in questo medio Inferno, dove siamo discesi, stanno i criminali fraudolenti.
Nei peccati e delitti di frode esiste, secondo Dante, una reità maggiore che in quelli di violenza, poichè essa nasce nell'uomo dal mal uso dell'intelligenza, di cui soltanto l'uomo sarebbe dotato secondo la vecchia dottrina psicologica dei teologi e dei filosofi spiritualisti, i quali negano all'animale l'intelletto stesso, attribuendogli soltanto l'istinto. La frode «è dell'uomo proprio male», perchè soltanto egli, l'animal rationale di San Tommaso, è in grado di dirigere volontariamente il suo intelletto verso il male. Ma questo concetto Dantesco non corrisponde più ai progressi della psicologia comparata che, sebbene ancora incerta sulle origini e sulla natura dell'istinto, riconosce anche agli animali la capacità di dirigersi con intenzione verso una determinata finalità, mentre d'altra parte non vede più nell'istinto la immutabilità rigida e fatale di una volta: lo vede anzi variare negli individui a seconda delle circostanze della vita.
Ma ad altre osservazioni psicologiche si presta l'Inferno Dantesco. In primo luogo c'è da distinguere i peccati a seconda dell'energia di volere nel peccatore. Dei sette, uno, cioè l'accidia, è negativo, e consiste nel non volere abbastanza fortemente il bene, nel non odiare il male: Dante punì gli ignavi, facendoli correre ignudi nel vestibolo dell'Inferno sotto le punzecchiature di mosconi e vespe. Gli altri sei peccati sono positivi, giacchè si risolvono nel volere e nel fare il male; e questi egli colpì collocandoli nel vero Inferno.
Inoltre, si può delinquere per un continuato atteggiamento, diciamo così, costituzionale dell'animo come avviene nella lussuria, gola, avarizia ed ira; o per mancanza temporanea, contingente, di inibizione sui proprii impulsi. I primi sono i peccatori statici, nei quali il male agire è sempre in potenza, poichè derivante dal carattere che infligge alla loro condotta personale una peccaminosità sempre pronta a palesarsi; e Dante li ha collocati al disopra, nell'alto e più vasto Inferno, i cui limiti sembrano tracciati dalla città di «Dite» o città del fuoco. Al di là delle sue mura, «nella terra sconsolata», vengono puniti i peccatori in atto, cioè quelli che portarono propriamente la loro reità nella sfera sociale, trasmutando così la delinquenza dalla potenzialità alla attualità, obbiettivandola dal di dentro al di fuori, ossia, come diciamo noi psicologi moderni, dal loro io interiore all'io sociale.
Ricordiamoci che nella evoluzione della coscienza umana il nucleo centrale è costituito dagli istinti biologici che l'uomo ha comuni con gli animali: essi eccitano quelle tendenze ed azioni che servono al soddisfacimento dei bisogni fondamentali dell'essere vivente, quali le funzioni nutritive e riproduttive, che corrispondono alla conservazione e protezione dell'individuo e alla propagazione della specie. Vi è dunque un io somatico, che determina la parte denominata egoistica, o meglio autistica, della condotta individuale. Biologicamente sono tre nell'uomo gli appetiti di questa coscienza centrale: la fame, l'amore, e il possesso di qualche bene materiale, sia tana od osso, sia suolo o ricchezza. Attorno a questi tre motivi autistici, sui quali deve poi esercitarsi la inibizione, svoltasi quale risultato della lunga convivenza tra umani (prescindendo dalle società animali), esiste in tutti noi un io sociale. Con esso il cerchio della coscienza si allarga sempre più, e la condotta dell'individuo rispecchia le esigenze, le aspirazioni e le contingenze della vita collettiva.
Ora, se l'attività individuale si uniforma agli interessi ed ai sentimenti della collettività, si ha la normalità della condotta sotto il rispetto morale; se essa mira al conseguimento dei fini collettivi con preferenza su quello dei fini egoistici, si ha l'altruismo, ossia la virtù benefica od eroica; se invece prevale l'io somatico o primitivo nella sua irreflessività e nella sua prepotenza egoistica, quando si manifesta però nelle sue relazioni con gli altri, si ha la condotta antisociale, immorale, delittuosa. Il peccato perciò non è sempre delitto, mentre il delitto è anche e sempre peccato: Dante, acuto psicologo e sociologo, punisce il primo al disopra nella città di Dite, punisce l'altro al disotto, nell'Inferno più rude; e così antivede non solo il nostro Diritto positivo vigente, ma quello altresì avvenire, quale è auspicato dalla Scuola Italiana, che considera il delitto in rapporto alla sua antisocialità, e punisce il delinquente in graduatoria della sua temibilità.
Col preconcetto di trovare nell'Inferno di Dante ripetuta la scala comune dei valori etici, i commentatori sono imbarazzati nello spiegarci come egli abbia tenuto così limitato conto della tavola teologica dei peccati, e pur anco di quella dei valori della morale teoretica. Nel nostro sviluppo sociale noi comprendiamo subito perchè l'omicidio premeditato, l'assassinio dell'inerme o del fiducioso che non si può difendere, massime quando è compiuto a scopo di lucro, sia delitto più grave secondo tutti i Codici: in ciò essi assecondano la morale dei popoli evoluti. A sua volta, l'ateismo trionfante, sia beffardo e bestemmiatore, sia rivoltoso, è dal punto di vista teologico il peccato più punibile dall'ira Divina. Ebbene, non si esiga che la pena più acerba si vegga inflitta all'assassino ed all'ateo consapevole; ben altro doveva essere il suo pensiero dominato dalla politica. Se da un lato egli non ha messo in testa alla scala dei delitti il più atroce sotto l'aspetto sociale e giuridico, dall'altro non si è lasciato intimidire dalla sua fede Cristiana.
Checchè si pretenda oggidì dai commentatori Cattolici, immemori dei tanti Papi bollati dal Poeta, la Commedia non è una espressione di fede ortodossa, come non è un trattato di etica o di diritto: nell'Inferno almeno essa è in moltissimi luoghi una manifestazione di partito, una colossale ripartizione di lodi e di biasimi compiuta da un Giudice universale. Lo riconobbe Arrigo Heine, quando nelle ultime strofe del suo Poema Germania minacciò i Re della sua terra teutonica di trascinarli davanti a quel Giudice immortale, che è un Poeta della forza dell'Alighieri. Ecco perchè tra le mascelle di Lucifero Dante mise Giuda, Bruto e Cassio, non tanto per obbedire alla leggenda religiosa, quanto per potere assimilare il tradimento della persona Divina di Gesù con quello della maestà Imperiale offesa in Giulio Cesare che a lui, ghibellino ed imperialista, appariva come la personificazione del migliore organamento politico da rinnovare il mondo.
Taluni considerano il Poema Dantesco come la pura sintesi del pensiero sociale e teologico del Medio Evo; ma io vi veggo, per conto mio, la prima grandiosa e spontanea ribellione di un forte spirito contro quell'etica e contro buona parte di quella teologia. Questo mio giudizio non paia paradossale a chi prende in considerazione soltanto la influenza del Tomismo sulle due ultime Cantiche, e specialmente sul Paradiso: qui il dogma tanto più doveva frenare la imaginazione del Poeta quanto più essa si accostava alla Essenza Divina. Prescindendo dalla sublimità della forma con cui negli ultimi Canti della Commedia ci fu da lui trasmesso il pensiero Scolastico, certo è che nell'Inferno, per contro, il cittadino prese il sopravvento sul credente, e la fantasia potè dare all'opera poetica una impronta più personale, anzi più umana.
Come la violenza sta alla base della criminalità primitiva o atavica, così la frode lo è a quella della criminalità evoluta, poichè essa abbisogna di riflessione sui mezzi per raggiungere il fine criminoso: ciò che vuol dire premeditazione nel delitto, astuzia, sfruttamento dell'altrui buona fede. La frode conduce al successo, al guadagno, al soddisfacimento dei propositi di vendetta, col minor pericolo; perciò, secondo una rigida formula di psicologia applicata al Diritto Penale, dovrebbe crescere la imputabilità del reo fraudolento ed aumentare la sua responsabilità sociale: «Fraus, scriveva Cicerone, odio digna majore».
Ciò non pertanto la coscienza pubblica è propensa a considerare gli atti di frode con minore antipatia di quelli di violenza. Un delitto di peculato, o di corruzione, una falsificazione di moneta, una frode in commercio, una sofisticazione di alimenti, perfino un furto compiuto con abilità e senza danno alle persone, svegliano oggi nell'animo popolare, anche fra le genti più civili, un sentimento di riprovazione abbastanza tiepido, quantunque tutti questi reati contengano nella loro figura psicologica e giuridica l'elemento intellettuale. Si seguita a sentire la massima ripugnanza pei delitti contro la persona, specialmente nei casi di lesione o di morte violenta; però se anche in questa forma di criminalità penetra il fattore razionale, essa ben più ci commuove e ci fa inorridire, come quando l'omicidio è lungamente premeditato, o presuppone lunghe sofferenze nella vittima, o implica spargimento eccessivo di sangue, o vien compiuto a danno di deboli, di fanciulli, di donne.
Perciò in tutti i Codici i delitti volontarii di sangue sono più puniti di tutti gli altri, essendo la vita il maggior bene datoci dalla natura. Fra i popoli più avanzati in civiltà, la criminalità violenta in generale diminuisce di fronte a quella di frode; ma può anche aggravarsi mediante sovrapposizione del mal uso della ragione sull'istinto primitivo o selvaggio, dando luogo allora a quelle spaventose figure di reati, che sono gli assassinii lungamente e sagacemente preparati, con astuta premeditazione dei mezzi di fuga o di mistero, e dei quali son pieni gli annali giudiziarii di questi ultimi anni.
Fu adunque profondo, nell'Alighieri, l'intuito della idealità etico-giuridica, allorchè vide che la trasformazione ascendente dell'animale irragionevole od istintivo in animale intelligente e volitivo deve modificare il nostro concetto di peccato e di delitto. Ei vide, insomma, assai più in là di quello che vedevano i legislatori nostri, sui quali, più che il criterio psicologico, influiva quello strettamente giuridico; egli giudicò più peccaminoso e criminoso, sotto l'aspetto di un'Etica a base psicologica, il frodare che non il violentare, il tradire che non l'uccidere; e questo suo concetto trasmise nella costruzione dell'Inferno. Quivi, in alto, sotto castighi meno gravi collocò le disobbedienze abituali o per vizio costituzionale alle leggi della morale e della Religione. Alquanto più sotto, e fra le più acerbe punizioni, pose le colpe che dipendono dall'impeto non frenato delle passioni, della collera, o che sono sregolate reazioni al dolore, come la disperazione. Sempre più in basso, e quindi punita con severità crescente, pose ogni specie di fraudolenza, il ruffianare, il sedurre, il rubare, l'ingannare con sotterfugi, il falsificare; e da ultimo, nei cerchi più abissali e tra le pene più terribili, volle punito il tradimento, che è tutto intessuto di razionalità e di volontà.
Non si insisterà mai abbastanza su quel vero volo alato del genio verso un lontanissimo futuro, che consiste nella corrispondenza della scala delle colpe e pene nell'Inferno Dantesco con quella dello sviluppo psicologico in tutta la serie animale, dall'istinto all'intelletto, dall'atto puramente reflesso ed automatico all'atto fermamente e intenzionalmente voluto. Il Diritto Penale non è altrettanto avanzato nel modo di considerare i fenomeni di coscienza; più che al meccanismo intrinseco del delitto si prende ancora di mira il suo risultato esteriore e, come direbbe Romagnosi, più che al «motivo impellente» noi guardiamo sempre nel reo l'effetto materiale dei suoi atti.
Con la sua gradazione imaginosa delle pene infernali, fondata sul criterio della sempre maggiore partecipazione dell'intelletto, Dante intuì una possibile, profonda riforma del giure, anche perchè vogliamo supporre che lo sviluppo della Civiltà (non della «Cultura» che è termine latinamente improprio) aumenti il rispetto alla vita, se non nei rapporti di concorrenza fra i popoli e le razze, almeno nella mutualità simpatetica fra le coscienze individuali.
In altra maniera ancora Dante si attiene al criterio psicologico, quando cioè giudica più criminosa la fraudolenza a scapito di chi avrebbe ragione di fidarsi nel reo. Lo dice in altro Canto:
La frode,
ond'ogni coscïenza è morsa,
Può l'uomo usare in colui che in lui fida,
Ed in quel che fidanza non imborsa.
(Inf., XI, 52-4)
Donde una punizione diversa. Nelle Malebolge sono puniti a parte e con discreta asprezza quei peccati e delitti di frode, dove non esiste l'elemento della fiducia personale della vittima verso il frodatore.
Ipocrisia,
lusinghe e chi affattura,
Falsità, ladroneccio e simonia,
Ruffian, baratti e simile lordura
(Inf., V, 58-60).
Però qui si potrebbe rilevare che Dante sembra scostarsi dal criterio psicologico mettendo i seduttori, i ruffiani, le lusingatrici tra coloro che non speculano sulla buona fede altrui («in quel che fidanza non imborsa»). Questa collocazione parrebbe arbitraria e contradditoria, in quanto che tutti coloro che ingannano le donne e le portano a perdizione, e dal loro canto tutte le donne che solleticano la vanità degli uomini e se li aggiogano, debbono, per raggiungere il loro scopo, fare assegnamento sulla fiducia personale delle vittime frodate; il quesito concerne specialmente la seduzione, come più avanti vedremo. Ma Dante si giustifica assai chiaramente là dove dice che la fraudolenza più grave è quella, in cui non solo si offende il sentimento generale di solidarietà e simpatia fra i conviventi, ma pure quel vincolo assai più stretto ed immediato che lega gli individui tra loro, quando vi sia o parentela, o amicizia, o ospitalità, o promessa formale e ben determinata di fede. Questa fraudolenza a danno di «colui che fida» costituisce il tradire in senso retto; e perciò Dante, accomunando il reato sessuale di seduzione a quelli socialmente generici di furto, di simonia, di ciarlataneria, ecc., precorse quegli odierni sociologi, che nel fatto della seduzione non scorgono tutto il male da una parte sola, ma lo spartiscono tra i due membri della coppia amorosa, giungendo ad escluderlo dalle figure criminose passibili di pena.
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I fraudolenti che Dante incontra nelle due prime bolgie dell'ottavo cerchio non sono quelli che figurano in testa della terzina enumerante i peccatori delle Malebolge: l'una contiene i lenoni ed i seduttori di donne; l'altra, gli adulatori e le lusingatrici dei maschi.
In nessun luogo dell'Inferno Dante ha provata tanta difficoltà a ravvisare i dannati e le loro pene, quanta in queste due bolgie. Ed è una difficoltà veramente simbolica di percezione, poichè i peccati ivi puniti sono tra i più tenebrosi ed intimi della reità fraudolenta. Prescindendo per ora dalla interpretazione che dobbiamo dare della colpa di adulazione castigata nella bolgia seconda, noi vediamo che queste due valli costituiscono il regno della peccaminosità sessuale in quanto essa mette in esercizio le facoltà razionali dell'uomo: le diremmo il «regno Infernale della vita galante». Qui la sessualità si associa alla fraudolenza, per cui è giusto che serva di passaggio tra la cerchia altostante dei violenti, nei quali sovrasta l'impulso, e le bolgie ulteriori della cerchia latistante, dove di mano in mano la istintività diminuisce e prevale la intellettualità nella colpa. Il lenocinio, che sfrutta l'istinto sessuale altrui; la seduzione, che è raffinatezza tendenziosa ed artificiosa nelle espressioni passionali d'amore; la lusinga, che è incentivo alla vanità ed alla dissolutezza mediante parole ed atti sagaci, rimangono pur sempre figure di delinquenza, nelle quali è implicito ancora un che di instintività naturale, derivante dalla tendenza a soddisfare un bisogno che domina tanto spesso sulla volontà anche la più educata.
Da molti si crede che i reati sessuali caratterizzino l'epoca nostra e che sopratutto il Medio Evo fosse casto; ma se è vero che oggigiorno i costumi sono più liberi nell'universale, non è men certo che nelle così dette tenebre Medievali si commettevano numerose infrazioni alle norme del pudore, della continenza, dell'amor coniugale, e che vi esistette quasi sempre e quasi dovunque molta irregolarità nei rapporti tra i due sessi. Forse nei primi secoli del Cristianesimo la religione agì da freno sui costumi; anzi, si può dire, sebbene con molte più riserve di quanto i credenti sostengano, che la nuova fede lottò in particolar modo contro gli eccessi sessuali del Paganesimo già da gran tempo in degenerazione. Ma quell'azione inibitrice della fede fu breve, e la scostumatezza trovò anzi condizioni favorevoli perfino nella vita sacerdotale e monastica, come lo prova la storia dei tentativi compiuti dai maggiori Papi per ricondurre i popoli Cristiani alla antica correttezza, con particolare riguardo a preti, frati e monache.
Ai tempi di Dante le cose si erano aggravate; e sebbene il movimento ideale e purissimo iniziato da Francesco d'Assisi contro i vizi dominanti, che erano il lusso e la lussuria, avesse trovato favore tra tutti gli intellettuali dell'epoca, compreso Dante stesso che si inscrisse tra i Terziari, i costumi erano generalmente assai rilassati: li vediamo realisticamente descritti nelle cronistorie e nelle novelle del Boccaccio. Oggi, come avviene in ogni epoca di intensa civiltà e di vivere raffinato, i limiti al soddisfacimento dell'istinto di amore ci appaiono ben minori, tanto nel lato materiale quanto nel morale. Non più limitazioni entro la cerchia di razze, di popoli, o di nazioni; non più proibizioni di caste sociali; quasi neppur più limiti di religione; libertà maggiore concessa alla donna. Sono vantaggi innegabili della progredita Civiltà, i quali ci palesano con evidenza che la soluzione dei gravi problemi sessuali, ancora incombenti su di noi, sarà raggiunta con lenta evoluzione dei sentimenti e delle idee a riguardo delle funzioni di riproduzione.
È codesta evoluzione morale che, in modo particolare, si rispecchia nelle legislazioni riguardanti i reati sessuali. Non tutte le abnormi ed irregolari soddisfazioni dell'istinto genesico cadono sotto il dominio dei nostri Codici Penali: lo psicologo ed il sociologo hanno qui sempre un campo assai più vasto e ricco di quello aperto al giurista. Sempre più appar dubbio, – e il dubbio risponde ad un nuovo orientamento della coscienza morale, – se certi fenomeni sessuali verso cui una volta, e anche ai tempi di Dante, si reputava giusto adoperare le più crudeli e vergognose punizioni, abbiano davvero carattere criminoso. Per contrario, azioni sessuali che trovarono in altri tempi tolleranza ed incoraggiamento, oggi svegliano in noi un senso di nausea, forse primo indizio d'un sentimento più ostile che potrà, anche, col tempo assumere i caratteri di una decisa sanzione penale.
Lo stato d'animo di un aggregato civile a riguardo dell'apprezzamento etico ed estetico delle azioni individuali non è sempre manifesto nei Codici, che ne reggono l'ordinamento interno; questi, in massima, sono arretrati in confronto delle condizioni intellettuali e morali del loro paese.
Mentre il sentimento pubblico sempre più si fa ostile ad ogni atto che offenda non solo la vita, ma pur la salute e la reputazione delle persone, convien riconoscere che si intiepidisce la riprovazione per certe azioni sessuali. Così, la pena comminata all'adulterio, sebbene moderatissima, è dubbio che non giovi piuttosto a svegliare simpatie verso i colpevoli, e sopratutto aspirazioni maschili verso la donna fedifraga. D'altra parte, si discute se il vizio contro natura (così severamente punito da Dante), se la pederastia e le altre abnormità del senso genesico, in fondo alle quali lo psicologo trova quasi costantemente la degenerazione, sieno punibili: si è finito con ammettere che tali atti cadano sotto sanzione solo quando rechino offesa ai sentimenti collettivi di pudore e di morale. Allo stesso modo è ancora dubbio dove debba terminare la tolleranza della Legge al riguardo delle descrizioni e raffigurazioni dei fatti sessuali; l'arte rivendica qui i suoi diritti fino dai tempi di Dante con la collana delle deliziose prose del quasi suo contemporaneo Boccaccio. Dante fu severissimo verso i costumi politici e finanziari del Papato, tacque su quelli immorali; e perciò si capisce come duecento anni precisi dopo la sua morte il Papa Leone X assistesse in Vaticano alla rappresentazione delle salaci Commedie Italiane del Rinascimento. Noi troveremmo che in certe scene esse riescono intollerabili, non già perchè feriscano il pudore (abbiamo un teatro abbastanza scollacciato!), ma perchè quel modo di offenderlo parrebbe oggi troppo grossolano, e perciò antiestetico.
Giova infatti osservare che in nessun altro campo dell'attività umana sono così mal definiti i limiti tra l'etico e l'estetico, come lo sono in quello della sessualità. Qui si effettua attraverso i secoli una continua e curiosa interazione tra la Morale e l'Arte; ma in sostanza è questa seconda che, quando è grande, imprime all'altra le sue tendenze e ne modifica le aspirazioni ed i principii. La Venere nuda di Prassitele, posta sugli altari, risponde ad un concetto morale essenzialmente diverso da quello che ha per manifestazione artistica la casta e semivelata figura della Vergine Maria. Ma ecco che il Poeta non ci disgusta, se accanto a questa mette la figura della ignuda Dea al bagno, se scrive le sue frasi più licenziose presentandoci una mercenaria di amore, e se in compenso ci inspira sensi di pietà verso l'adultera così fieramente colpita dalle Leggi Medievali, quando ci descrive in terzine immortali l'impeto della passione che avvicinò le bocche frementi dei due innamorati di Rimini.
Tutto ciò sia detto in onore di quel Grande, che seppe individuare il suo pensiero etico-religioso fra le riprovazioni eccessive dell'epoca sua. Ancora a quei tempi l'adulterio e la sodomia erano reati punitissimi: se gli adulteri non venivano più seppelliti vivi nè decapitati (sebbene qualche potente di allora, tradito dalla moglie, si vendicasse col sangue), perduravano però le pene infamanti, quale la pubblica fustigazione a dorso di asino e a corpo ignudo attraverso le vie della città. Dante assorbì in parte queste opinioni del suo tempo, e non potè a meno dal trasferire nella sua scala di valori etici il precetto «non desiderare la donna d'altri»; però fu abbastanza mite contro l'adulterio. L'amore per sè solo non è per lui un grosso peccato, anche se, non andando disgiunto da lussuria, conduce al tradimento della fede coniugale: le anime degli adulteri per passione
che la ragion sommettono al talento
(Inf., V, 39)
non sono cacciate nei gironi più bassi, là dove imperversa la collera Divina trascritta in quella del Poeta. Paolo e Francesca non solo stanno poco oltre la soglia dell'Inferno, ma nella bufera si tengono abbracciati; così che quell'essere ancora insieme ne addolcisce il castigo, quantunque forse il Poeta intendesse pure che il reciproco vedersi soffrire acuisse la loro penitenza. Ma intanto egli non collocò gli adulteri tra i rei per fraudolenza, sebbene nel loro reato sia offesa la personalissima fede del coniuge e la condotta dei colpevoli sia intessuta di menzogne e di stratagemmi. Dante ha veduto insomma il lato passionale dell'adulterio, con il che lo ha quasi nobilitato, togliendogli il suo aspetto più odioso.
Ben più peccaminosi e rei degli amanti lussuriosi sono per Dante i seduttori, poichè se in quelli è la passione o il senso che si tramuta in colpa, gli altri delinquono per calcolo e con dolo (frode): ecco la ragione del loro castigo nel Medio Inferno. Non sarebbe questa una antiveggenza del Poeta rispetto alla distinzione che la Criminologia positiva fa oggi tra i delinquenti passionali e quelli abituali?
Un altro profondo vincolo psicologico collega nel pensiero Dantesco i reati sessuali puniti nelle due prime Malebolge, il lenocinio, la seduzione del maschio, e la lusinga corruttrice della femmina. Essi costituiscono altrettanti modi di sfruttare quella immissione di idee, di tendenze, di sentimenti nell'animo altrui, che gli psicologi chiamano oggi «suggestione», la cui massima efficacia in seno alla vita sociale si incontra nel ruffianare, nel sedurre, nell'adulare, nel corrompere. In tutti codesti atti «maligni» il suggestore deve fare uso più abile dell'influsso che ha saputo artificiosamente procurarsi sullo spirito dell'individuo passivo: e se riesce ad indurre in lui i prefissati stati di emotività con dedizione più o meno completa della autonomia volitiva, egli ne ottiene la soddisfazione, o il lucro, o l'interesse agognati.
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Dato questo principio psicologico, non ci possiamo stupire che Dante superi in severità i nostri criteri di valutazione etico-giuridica nei riguardi del lenocinio, il primo dei peccati che egli incontra nelle Malebolge. Questo reato, secondo la Legge Romana, era passivo di infamia: i mezzani venivano colpiti da una vera interdizione nei diritti civili, poichè l'infamato non poteva più godere dei suoi beni, nè avere tutela dei figli, nè ottenere una carica pubblica, nè testimoniare in giudizio, nè prestare giuramento. Il ruffianare poneva, dunque, un cittadino fuori della vita normale. Vero è che nell'Antichità vi erano popoli e luoghi, in cui il lenocinio, non solo era tollerato, ma veniva considerato quale funzione necessaria per la regolazione dei rapporti sessuali liberi fra i due sessi, massime là dove esisteva, più o meno larga, la prostituzione sacra; così in Atene era permesso il pubblico mercato delle etère. Ma il Medio Evo Cristiano sentì tutta la impudicizia di questo ufficio intermediario, e divenne assai più austero nel valutarne la immoralità: in molti paesi gli intermediari prezzolati d'amore erano gravemente puniti con la pubblica fustigazione o con altre pene altrettanto obbrobriose. Ora, Dante nel collocare i prosseneti nella prima bolgia si attenne a questa riprovazione del suo tempo.
La seduzione è appaiata nell'Inferno Dantesco al lenocinio e posta sotto la frusta dei demoni; come reato, in alcuni Codici e negli usi giudiziarii di alcuni popoli, all'infuori del nostro, viene colpita quando assuma la figura della mancata promessa di matrimonio; in qualche paese poi si concede anche la ricerca della paternità. Dante volle collocati nell'Inferno medio tutti quelli che ingannano le donne «con segni e con parole ornate». Se però nell'epiteto di «giovinetta», con cui egli ci indica l'ingannata reginetta Isifile, si dovesse vedere un sinonimo del nostro «minorenne», il peccato punito in Giasone che la ingannò, corrisponderebbe presso a poco al reato di corruzione, come è considerato presso noi.
Dante fa punire da Dio il seduttore in genere, colui che induce la donna all'amplesso, simulando una passione non sincera, o esagerandola se c'è realmente, blandendo la donna con promesse lusinghevoli, fors'anco in quel momento sincere, ma tendenti ad ottenere il possesso anticipato o irregolare della persona amata a soddisfazione del senso, prima senza riflettere alle conseguenze dell'atto, lasciandole poi tutte a carico dell'incauta. Ne segue che la fiduciosa in quelle blandizie resta, come dice Dante, «gravida e soletta»; il che ha costituito per lo più presso ogni popolo organizzato civilmente una situazione disonorante o almeno imbarazzante per la donna, a seconda dei costumi e delle idee vigenti nel suo ambiente sociale.
Nè l'Alighieri restrinse il peccato di seduzione alle sole giovanette inesperte: punì eziandio quella compiuta verso una donna ancor giovane, ma abbastanza esperta, quale doveva essere la maga Medea.
È certo che la donna non si può dire sedotta quando cede alla propria passione o alla voce del senso, poichè in tal caso essa spontaneamente si abbandona e si dà. In allora l'attribuire questa condotta femminile, come dice Dante, ai «segni» ed alle «ornate parole» del maschio sembra una soverchia concessione alla tesi della fragilità muliebre: è in questo senso che il fallo dovrà essere spartito tra i due. Però la psicologia di Dante è assai più nel vero di quella degli scrittori antifemministi, poichè egli considerò la seduzione non passionale, ma la traditrice, quella in cui la donna, o inesperta o troppo fidente, si abbandona con ingenuità davanti all'asseverazione dell'amore perpetuo, davanti alle promesse fittizie di matrimonio, con la prospettiva della Chiesa e del Municipio al tempo nostro, del sacrificio nel Tempio e della tradizionale focaccia al tempo antico. Soltanto allora essa sarebbe l'ingannata, colei che del suo cedevole o troppo caldo amore porterà l'ingrato frutto, sentirà gli acerbi rimproveri nella propria coscienza, e ne resterà disonorata e spostata nella società nostra corrotta, ma arcigna: sopratutto troverà difficilmente marito; e potrà darsi ancora di peggio, cioè che la tradita diventi la traviata. Questa è proprio la seduzione intesa da Dante: in essa non domina solo l'elemento affettivo, ma c'è, com'egli lo ha già avvertito, l'elemento razionale rappresentato dal raggiro, con vantaggio esclusivo del raggiratore, prima in forma di soddisfazione sessuale, poi di irresponsabilità sociale per quell'oblio o per quell'abbandono.
Vogliamo ammettere che oggidì questa genuina seduzione a base di fiducia dalla parte femminile diventi sempre più rara, poichè le ragazze del nostro tempo posseggono una vera coltura in faccende di amore. Qualcuno maliziosamente ritiene che la sedotta soventissime volte si sia lasciata volentieri sedurre, sapendo od intuendo che in certe contingenze l'uomo si sente legato dalle conseguenze del fallo commesso in due, o ha paura dello scandalo, o ha timori ancora più egoistici di rappresaglia da parte della tradita. Invero le sedotte odierne sono assai meno rassegnate di quelle di una volta, le quali restavano «gravide e solette» fra le lagrime e nella umiliazione; adesso sono di moda le reazioni femminili ad oltranza, per le quali si può parlare sul serio di una vera lotta di sesso, dove quello maschile non è sempre il più forte, e quello femminile non è sempre il più debole. I reati di vendetta commessi dalle donne già abbandonate, o inasprite dal timore dell'abbandono, più che dalla vergogna pel disonore cui andarono incontro, sono abbastanza frequenti; ma non mancarono mai dalle scene della vita reale. Se una giovinetta come Isifile, ingannata da Giasone, restava, a quanto pare dalla leggenda accolta pure da Dante, rassegnata nella sua solitudine, v'era anche allora la sedotta vendicativa, che come Medea si prendeva la rivincita in modo criminoso: colei uccise i figli natile dal traditore. La tradita moderna ben raramente, se non è pazza, commette questo stupido parricidio: preferisce gettare il vetriolo sulla faccia dell'amante traditore, e con ciò si contenta di acciecarlo o di deturparlo, affinchè nessun'altra donna più lo possegga; e può persino accadere che, rasentando i confini dell'alienazione mentale, essa tronchi nell'infame, per lo più dormiente, la radice del male.
Ma v'è pure chi argutamente osserva che la seduzione inversa, quella della femmina sul maschio, diventa sempre più comune anche nella nostra specie, come fra i ragni; è l'uomo, che spesso rimane adescato, invischiato, irretito. Nell'Inferno non compare esplicitamente la seduzione femminile: Circe non è punita accanto a Giasone; poichè Dante considerò l'azione suggestionatrice della donna sull'uomo soltanto quando essa ha già liberi costumi, e quindi può lusingare il maschio nelle sue passioni sensuali. Il Canto XVIII si chiude infatti con la raffigurazione di una di quelle donne mercenarie, che si accaparrano il cuore, i sensi, ma sopratutto i doni e la borsa dei loro adoratori. Compare qui, nel Divino Poema, la lurida figura di colei che accarezza e fomenta le basse passioni del maschio e ne assorbe il denaro insieme col midollo.
È dubbio se nella bolgia seconda, assegnata agli adulatori, Dante abbia messa Taide soltanto quale adulatrice di uno dei suoi amanti, o non piuttosto quale tipo della prostituta che sa fare apprezzare il suo corpo, fingendo sentimenti che non prova, falsificando l'amore, insomma peccando di fraudolenza, come richiede la dantesca scala dei valori morali. Io penso nel secondo senso, poichè la frase amplificatrice, e perciò adulatoria da lui (erroneamente, come vedremo) attribuita a Taide, non era certo un gran peccato che meritasse castigo eterno; mancherebbe ogni proporzione, ed il genio Latino, che è sempre misurato, non poteva commettere simile eccesso di valutazione riprovativa di una semplice parola. Penso, cioè, che Dante abbia voluto colpire la prostituzione in quello che essa ha di più caratteristico, ossia il vendere più caro che le è possibile una merce che vale generalmente assai meno di quanto con le arti della lusinga la venditrice faccia credere al compratore, e il venderla assai spesso avariata.
Qui si trova figurato e colpito un duplice peccato o delitto di frode: l'uno rivolto all'inganno psicologico, e consistente nella falsità dei «segni» e magari delle «ornate parole» accompagnanti la vendita, fino a suggestionare i creduli amatori con sentimenti, o, piuttosto, con sensazioni artificiose ed inesistenti; l'altro, nel portare a rovina il corpo degli imprudenti, che da quelle arti si sono lasciati adulare nell'amor proprio di conquistatori di cuori, e lusingare nella loro capacità di risvegliare sensi dormienti o esausti.
Punire la prostituzione poco lungi dalla seduzione, in fondo, appare logico: essa è fermento del vizio, ossia del peccato. «Non fornicare», sanzionò la Legge Mosaica, e durante i primi secoli del Cristianesimo il mercimonio del proprio corpo fu considerato, non soltanto nell'individuo, quale grosso peccato, ma pure nel corpo sociale quale atto delittuoso. In moltissimi luoghi la donna, convinta di donarsi per danaro, era sottoposta all'obbrobrio e a pene infamanti. Nell'Europa moderna, non molto prima della regolazione ufficiale dei costumi, che sostanzialmente (in Italia) li ha resi più liberi, le prostitute erano astrette a determinate sedi, allora anche a determinate foggie di vestire, acciò che fossero riconosciute e sfuggite, oppure oppresse dalla loro vergogna e dal disprezzo universale.
Oggi, questo non più, o quasi non più, almeno per le galanti che costituiscono la eletta della classe: del resto, con la mondanità delle mode si torna oggi quasi ai tempi quando nell'Attica, centro di ogni raffinatezza, le etaire passavano per le agore, nude sulla lettiga portata da schiavi, davanti agli occhi assetati di pura Bellezza. Ma la prostituzione non ha solo questi lati eleganti: purtroppo non può negarsi un certo valore alla teoria che essa sia nella donna quello che è nell'uomo la criminalità. Delinquenti e donne perdute hanno molte affinità somatiche e psichiche: lo hanno provato Lombroso e Ferrero; e nella vita sociale gli uni e le altre appartengono a quelle che furono chiamate le classi pericolose degli aggregati civili. Questa dottrina della Scuola antropologica, secondo me, ha punti veri, ma è esagerata: qui però non è il luogo di discuterla; dirò invece che Dante, dannando la prostituzione, ha mostrato di considerarla, non solo un peccato, ma un fenomeno spesse volte criminoso: ciò che corrisponde in massima, qualora vi si aggiungesse il fattore psicopatologico, ai concetti della odierna Sociologia criminale.
Nella medesima bolgia, colla tipica «femmina da conio», Dante immerse dei dannati, il cui peccato viene indicato in modo abbastanza oscuro da uno di essi:
le lusinghe
ond'io non ebbi mai la lingua stucca.
Io credo che qui i commentatori errino in maggioranza nel ritenere che il peccato di Alessio Interminelli, punito in una bolgia prossima a quella dei due reati sessuali di ruffianeria e di seduzione, e nella bolgia medesima ove si trova rappresentata la prostituzione più sfacciata, sia l'adulazione semplice, consistente nel secondare e solleticare l'altrui sentimento di vanità, nel blandire la potenza e l'opulenza. Sono invece con l'on. Rosadi propenso alla tesi che gli adulatori castigati dal Poeta sieno artefici pur essi di dolo a detrimento della donna, non escludendo però che essi per loro vantaggio esercitino la stessa arte ingannatrice verso coloro, o ricchi o dominanti, dai quali si aspettano protezioni o favori.
Osservo che nella famosa terzina in cui Dante riassume i peccati puniti nelle Malebolge, egli ripete il già citato termine di «lusinghe», ma vicino ai lusingatori pone «chi affattura». Cosicchè si potrebbe supporre che l'affatturamento Dantesco sia il così detto fascino, ossia quella manovra melensa (fattura), cui ancora ricorrono i creduli per propiziarsi l'amore della persona timidamente o segretamente o sospettosamente amata. In tal caso, «lusingare» e «affatturare» non mancherebbero di un rapporto con la sessualità. Mal si comprende, a dire il vero, come Dante sia stato così severo contro l'adulazione, se non ammettendo che egli vi abbia veduto un elemento più peccaminoso, affine agli altri peccati delle due bolgie prossime: ciò che parrebbe giustificato anche guardando al personaggio, che egli scorse immerso nella lordura e che era uomo di notoria galanteria.
L'adulazione, invero, è una delle manifestazioni di quel servilismo che sta alla testa dei mezzi di difesa dei deboli, e che ha tanta parte, secondo certe vedute psichiatriche recenti, nella creazione della neurosi isterica, così frequente fra le mercenarie di amore come Taide. L'isterica, secondo una dottrina enunciata da Von Hellpach, fatta sua dal celebre alienista Kraepelin, è una inferiore ritornata alle antiche condizioni sociali di servitù femminile. Ma codesta situazione psicologica non è propria soltanto del sesso debole: essa si ripete sostanzialmente sia nella donna che crede spesso con consapevolezza, ma sempre per un sordo lavoro del suo subcosciente, di attirarsi la compassione o la curiosità altrui, sia nel maschio che sentendosi incapace di agire con franca energia, finisce con mentire agli altri e anche talvolta a sè medesimo. Egli è che in fondo a tutto ciò si trova la bugia, ora cosciente e volontaria, ora subcosciente e involontaria: si trova la simulazione di stati e atteggiamenti del corpo o dello spirito, colla quale il soggetto cerca di ottenere un vantaggio, sempre sfruttando l'altrui buona fede.
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I grandi peccatori. – Il divino Poema formicola di personaggi; tra i nomi personali e quelli delle famiglie storiche il diligentissimo indice dello Scartazzini ne enumera circa ottocentonovanta. Studiandone le qualità, ho potuto farne la seguente statistica: 24 sono personaggi mitici o leggendarii della Storia sacra; 185 sono desunti dalla ricchissima mitologia Greco-Latina, della quale Dante si è valso più di tutti gli altri grandi Poeti, il che rivela ancora una volta come nella sua mente si ravvivasse la Latinità; 21 sono desunti dalla Mitologia Cristiana, e sono per lo più demoni o angeli tipicamente denominati dal Poeta; 72 appartengono alla Storia Ebraica od Orientale, e in massima son desunti dalla Bibbia, ma vennero confermati dalle indagini storiche moderne; 106 sono i personaggi dell'Antichità Greca e Romana; infine, 475 furono da Dante scelti fra i personaggi storici del suo tempo o degli anteriori secoli medievali dopo la caduta dell'Impero. Debbono essere ricordati a parte, per l'ufficio altissimo loro assegnato nel Poema, i due personaggi altamente simbolici di Bice e di Matelda; la prima delle quali è personaggio tolto dalla realtà e idealizzato, mentre della seconda rimane ancora dubbio se non sia una creazione poetica, nel qual caso sarebbe la finzione più personale di tutta la Commedia, sebbene però alcuni pensino di vedervi la Contessa Matilde.
Rimangono così tre soli personaggi che Dante attinse dall'arte, ossia dalle altre opere anteriori di immaginazione; e sono Mordrèk figlio del Re Artù della Tavola Rotonda (Inf., XXXII, 61), Orlando il famoso Paladino dello stesso ciclo (Inf., XXXI, 18; e Parad., XVIII, 43), e finalmente Taide del Canto XVIII dell'Inferno. Ma se i due Paladini, come sembra risultare dalle ricerche storiche, non sono del tutto invenzioni popolari, chè specialmente il secondo visse ed operò sotto Carlo Magno, abbiamo questa singolarità, che di tutto il Poema la sola creatura di pura immaginazione, copiata da una commedia antica, sia la prostituta vista da Dante nella seconda bolgia del cerchio ottavo.
In quanto alla loro situazione nei luoghi diversi, percorsi dalla fantasia di Dante nel mondo dell'Al di Là, quasi ognuno fu da lui prescelto secondo fini assolutamente personali. Non si cerchi sempre nel destino eterno assegnato dal Poeta ai personaggi, massimamente storici, e perciò anche a noi cogniti nella loro condotta, la espressione di un giudizio comune di biasimo o di lode: nell'Inferno non è sempre punito il vizio riconosciuto da tutti, come nel Paradiso non è sempre premiata la virtù da tutti ossequiata. Dante effettuò una specie di giudizio universale, massime sui proprii contemporanei, lasciandosi guidare piuttosto dalle sue opinioni politiche e dai suoi sentimenti di simpatia o di antipatia, di vendetta o di gratitudine, oppure dalla analogia nelle loro finalità di vita. Perciò non sempre la situazione dei suoi dannati, dei suoi penitenti e dei suoi beati corrisponde alla verità ed alla imparzialità storica, ancora meno si trova giustificata da motivi plausibili per noi, suoi posteri, ovvero sanzionata dai criterii posteriori di valutazione politica, morale, religiosa.
Ciò spiega perchè tante volte i personaggi che Dante incontra nei cerchi e nelle bolgie Infernali, nei gironi del Purgatorio o nelle sfere del Paradiso, sebbene in linea teorica dovessero costituire come il tipo di ciascuna categoria dei sopravviventi nell'Al di Là, non siano sempre di prim'ordine, nè di tale importanza da rappresentare il relativo vizio, o la relativa virtù, secondo i nostri apprezzamenti comparativi del Male e del Bene. Altrettanto singolare, per non dire arbitraria, ci sembra in moltissimi luoghi del Poema la scelta dei personaggi rappresentativi: in talune cerchie o sfere il tipo del peccatore, del penitente, o del premiato, ci è offerto con un realismo storico perfino eccessivo, come quando il Poeta rievoca persone del suo tempo pressochè sconosciute, o appena ricordate nelle minute cronache dei Comuni Italiani, mentre altrove il tipo è dato dai maggiori Eroi del mito o dai più eccelsi personaggi della Storia universale.
Ed ecco come nel Canto XVIII, bolgia prima e seconda, compaiano quattro grandi peccatori, due dei quali vissuti realmente ai tempi del Poeta, ma di scarsa importanza storica: Venedico Caccianimico quale tipo del prossenete, e Alessio Interminelli quale tipo dell'adulatore; un personaggio mitologico, Giasone, quale tipo del seduttore; e un quarto, Taide, della Commedia L'Eunuco di Terenzio, quale tipo della prostituta lusingatrice.
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Venedico Caccianimico è ravvisato dal Poeta per primo tra la folla dei peccatori sferzati nella prima bolgia, e sebbene in realtà sia stato un uomo di mediocre portata, senza influenza sulle vicende del suo tempo, Dante gli dedica parecchie terzine:
Mentr'io
andava, gli occhi miei in uno
Furo scontrati; ….....
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E quel
frustato celarsi credette
Bassando il viso; ma poco gli valse,
Ch'io dissi: «Tu che l'occhio a terra gette,
Se le fazion
che porti non son false,
Venedico sei tu Caccianimico;
Ma che ti mena a sì pungenti salse?»
Ed egli a
me: «Mal volentier lo dico;
Ma sforzami la tua chiara favella,
Che mi fa sovvenir del mondo antico.
Io fui colui
che la Ghisola bella
Condussi a far la voglia del Marchese,
Come che suoni la sconcia novella.
A noi basta sapere che secondo i commentatori storici, fra cui precipuo il Conte Gozzadini, questo personaggio, di nome Venedico o Venetico, fu della illustre famiglia Bolognese dei Cazzanemici dall'Orso, che stava a capo della fazione Guelfa dei Geremei, come quella dei Lambertazzi stava a capo della Ghibellina. Costui fu uomo pubblico, abbastanza reputato anche fuori del suo paese, cosicchè ebbe ambascierie e venne chiamato a podestà di Imola, Milano, Modena e, pare, anche di Pistoia. Ma non sembra che alla sua reputazione di politico e amministratore andasse congiunta l'onestà, poichè fu accusato di complicità col fratello nell'uccisione di un cugino; e la voce corse, non senza fondamento, sebbene negata da alcuni cronisti, che per ingraziarsi il Marchese Opizzo d'Este, che già estendeva il dominio della sua casa nelle Romagne, gli avesse fatto godere la sorella Ghislabella (dice il Gozzadini) o Ghisolabella, moglie di un Nicola Chiarella di Bologna o di un Niccolò Fontana da Ferrara. Per questo favore si disse che il Marchese lo avesse ripagato di moneta e di protezione, in guisa da agevolargli quella sua carriera pubblica; e si sussurrò ancora che Ghisola, degna sorella di tanto fratello, avesse facilmente ceduto alle di lui sollecitazioni, non per corrispondenza verso il potente Estense che ne era innamorato sul serio, ma perchè anch'essa ne sperava vantaggi «di signoria e grandezza»; però, come scrisse l'innominato postillatore del Codice di Montecassino, «dopo lo fatto ella si trovò a nulla delle promesse».
Lo «sconcio» aneddoto non è ricordato dal Poeta come certo; ma l'aver messo il Venedico tra i puniti della prima bolgia prova che egli ci credeva, e che soltanto la forma e le conseguenze del lenocinio gli restavano indeterminate. Il «come che narra» non è una discolpa. Inoltre il Caccianimico non vien presentato come un peccatore raro, bensì come esempio di un costume assai diffuso nella Bologna di allora, tanto da trovarsi nella bolgia dei ruffiani un numero di Bolognesi superiore a quello della popolazione vivente fra la Savena e il Reno! Il bolognese Conte Gozzadini ha detto «esageratissima» la comparazione di Dante, ed io sono con lui: i poeti non han sempre l'obbligo della misura, tranne nel verso. Ma occorre anche ricordare che Bologna, sempre avanzatissima in civiltà, ha goduto e gode fama di gaudente e di «grassa»: i costumi vi soffersero sempre minori restrizioni che altrove, e le sue donne non furono mai insensibili agli assalti o alle lusinghe dei baldi Gogliardi.
Il lenocinio, attribuito a torto o a ragione a Venedico, è di natura speciale, poichè Ghislabella non era minorenne o, se non aveva ancora i 21 anni, era però maritata. La tradizione a noi giunta non novella che, oltre al fratello cortigiano e mezzano d'amore di Messer Obizzo, anche il marito fosse connivente al mercato: si è perfino incerti su chi egli fosse; può dunque supporsi che nell'affare sia rimasto in ombra. Ma se la donna cedette per «desìo di signoria e di ricchezza» (di questa seconda specialmente), par probabile che si sia trattato di un affare di famiglia; in quei tempi una donna non avrebbe potuto godere agî e dominio senza partecipazione del coniuge. Ma altri cronisti non dicono che Ghisola fosse maritata; e allora, essendo nubile, e dato che avesse ceduto anche con fini egoistici, si desume che il lenocinio di Venedico fu seme gettato ad allignare in terreno propizio.
Ciò porta a chiederci se Dante avesse ragione, dal punto di vista della Criminologia, di punire il Caccianimico a quel modo. Nessuno mette in dubbio che il ruffianare non sia, sotto l'aspetto della morale, un atto odioso, riprovevole; e in questo senso il Poeta, moralista implacabile, condannò giustamente. Ma la scala dei valori etici non corrisponde sempre, anzi di rado, a quella dei giuridici. Nel concetto del Legislatore moderno, il cittadino giunto alla maggiore età è presupposto in possesso di cognizioni e di inibizioni sufficienti per sapersi guidare nella vita, e per poter disporre di sè secondo il suo libero volere (eccettuati i deboli di mente): a ventun anni, ognuno di noi diventa civilmente capace e penalmente imputabile, fino ad avere la piena responsabilità dei proprii atti. Pertanto il Codice non colpisce il lenocinio della maggiorenne, massime se maritata, salvo che non ne derivi pubblico scandalo, oppure offesa manifesta ai diritti altrui (p. e. in adulterio). E oggidì Venedico Caccianimico non sarebbe punito.
Ma ad un'altra discussione di ordine psicologico si presta il peccato attribuito a quel Bolognese: e concerne lo stato d'animo della sorella rispetto alle manovre per darla al Marchese. Era dessa, come sembra da certe cronache del tempo, consapevole del mercinomio, anzi desiderosa di subirlo in vista del guadagno che ne poteva trarre? Se sì, vi sono delle attenuanti pel fratello; egli suggestionava, direbbe la psicologia odierna, una coscienza già un poco tarata e proclive a lasciarsi suggestionare, a cedere senza troppo contrasto. Ma per quello che noi oggi sappiamo sulla suggestione allo stato di veglia e su quella anche in sonno ipnotico, siamo indotti a ritenere che la Ghisola abbia ceduto alla «voglia» del potente Signor d'Este anche per suo proprio conto: non sappiamo se per semplice piacere di fare una escursione fuori del talamo coniugale, o se per utilizzare le proprie grazie. Ciò scolorisce la figura peccaminosa e criminale di Venedico, e ci permette di dire che Dante, ponendolo all'Inferno, abbia un po' ceduto alla sua animavversione politica di Ghibellino contro il patrizio Guelfo.
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Altra figura abbastanza scolorita di peccatore è quella del Lucchese Alessio degli Interminelli o Antelminelli. Dante ravvisa quel suo contemporaneo fra gli immersi nello sterco della seconda bolgia:
E mentre
ch'io laggiù con l'occhio cerco,
Vidi un col capo sì di merda lordo,
Che non parea s'era laico o cherco.
Quei mi
sgridò: «Perchè se' tu sì ingordo
Di riguardar più me che gli altri brutti?»
Ed io a lui: «Perchè, se ben ricordo,
Già t'ho
veduto coi capelli asciutti,
E se' Alessio Interminei da Lucca;
Però t'adocchio più degli altri tutti».
Ed egli
allor, battendosi la zucca:
«Quaggiù m'hanno sommerso le lusinghe
Ond'io non ebbi mai la lingua stucca».
Costui fu pur esso un personaggio pressochè insignificante, cui Dante dette immortalità immeritata, ponendolo fra le sue grandi figurazioni poetiche. I cronisti lo ricordano appena come un patrizio ricco, raffinato, amante del bel vivere, corteggiatore accanito di donne; anch'esso dunque era un seduttore, ma noto specialmente per la sdolcinatezza dei modi e per la manìa di profondersi in adulazioni spropositate verso chiunque. Dante parla di «lusinghe»; ora, in questo sostantivo si trova sempre sottinteso l'elemento di frode o bugia, che sta alle origini dei peccati puniti nelle dieci Malebolge. Però la scialba figura di quel Lucchese non fu presa da lui soltanto quale tipo del debole che spande l'incenso delle sue laudi per timorosa, ma interessata richiesta di protezione o di aiuto, bensì dell'adulatore costituzionalmente menzognero, che simula sentimenti esageratissimi di reverenza e di stima senza che glie ne vengano vantaggi: quegli sarebbe stato, dunque, piuttosto un lusingatore per temperamento, che non di occasione o per lucro. Ad ogni modo, siccome già dissi, la sua situazione vicino a Taide fa sospettare che il Poeta avesse intenzione di rampognare al galante Interminelli la sua leziosaggine anche nei rapporti col bel sesso.
Il fiero animo dell'Alighieri sentiva repugnanza per ogni specie di mendacio. Da notare che nei corteggiatori sdolcinati di donne c'è sempre un po' di abdicazione alla virilità, che ha per suo carattere la intraprendenza audace e magari la violenza; inoltre, chi si profonde in smancerie davanti alla donna è alle soglie di quella degenerazione psicosessuale che i psicopatologi denominano masochismo.
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* *
Uscendo dalla realtà storica, i personaggi di questa bolgia assumono una raffigurazione scultoria. Il tipo del seduttore è rappresentato da Giasone, figlio di Esone re di Tessaglia, della stirpe degli Eolidi, capo degli Argonauti, conquistatore del vello d'oro, domatore dei tori dai piè di bronzo, vincitore dei giganti nati dai denti di drago da lui seminati nel suolo, patrono della navigazione sulle rive dell'Egeo e del Ponto Eusino; insomma, da uno dei più laboriosi semidei o santi del Politeismo greco, così primitivo nei suoi miti, così puerile nelle sue fiabe, e in compenso così impeccabile ed inarrivabile nelle sue trascrizioni poetiche, così plasticamente abbellito dall'arte.
Ma Giasone, sebbene tanto forte contro i dragoni o serpenti volanti, era, al pari d'ogni altro Elleno, un debole al cospetto delle grazie femminili: l'accostamento della donna al rettile alato non paia irriverente! Dante lo mise nella fila dei suoi frustati, perchè le favole gli attribuivano almeno due peccati di seduzione: il primo, quando arrivato con la sua nave a Lemno trovò l'isola soltanto abitata da donne, ed egli, invaghitosi della giovine Regina Isifile od Ipsipile, la trasse innamorata fra le sue braccia, e poi rifatto le vele la lasciò «soletta» e, quel che è peggio, «gravida»; il secondo, quando giunto in Colchide vi riscaldò Medea, altra figlia di Re, e dopo essersene giovato per superare le ardue difficoltà della sua impresa, dopo averne avuto due figli, era di nuovo sfuggito alle promesse di amante ed ai doveri di padre, veleggiando nascostamente verso la patria, dove, superate altre vicende più o meno pulite, aveva finalmente preso moglie sposando Creusa e, come oggi si direbbe, mettendo giudizio.
Lascio in disparte ogni commento mitologico: dico solo che Dante si deve essere inspirato specialmente alle Metamorfosi di Ovidio (Libro VII); e non tenne conto di altra versione del mito, secondo la quale l'Eroe, posseduta l'Isifile, la fece sua sposa e ne riconobbe i due figli, ciò che si legge nella Tebaide di Stazio (Canto VI, v. 336). Non mi fermo neanco sulle avventure di Lemno e sul significato della vendetta che Venere, non adorata abbastanza da quelle donne, le avesse castigate infliggendo al loro corpo un puzzo formidabilmente contrario (hircinus) alle nari ed al vigor virile dei loro uomini, che poi esse infuriate da quell'allontanamento osmatico, avrebbero tutti massacrato, tranne il vecchio re Toante salvato dalla pietà della figlia Isifile... Tutto ciò vien detto mirabilmente dal Poeta nelle sue terzine; noi però indagheremo nel canto ciò che propriamente spetta alla psicologia ed alla criminologia del seduttore.
E 'l buon
Maestro, senza mia dimanda,
Mi disse: «Guarda quel grande che viene,
E, per dolor, non par lagrima spanda.
Quanto
aspetto regale ancor ritiene!
Quelli è Giason, che per core e per cenno
Li Colchi del monton privati fene.
Egli passò
per l'isola di Lenno,
Poichè le ardite femmine spietate
Tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con
segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
Che prima avea tutte l'altre ingannate.
Lasciolla
quivi gravida e soletta:
Tal colpa a tal martiri lui condanna;
Ed anche di Medea si fa vendetta...».
Dante si è più volte compiaciuto di presentare dei dannati in atteggiamento di rivolta contro l'Eterno Giustiziere: così Capaneo, Farinata degli Uberti, i giganti Nembrotto, Antèo, Tifone, il ladro Vanni Fucci, stanno laggiù in lotta aperta colla Divinità, ostentando di non sentirne il castigo. Forse per Giasone Dante risentì quell'impressione di serenità e dignità che il classicismo descrisse e plasmò nei suoi idoli: ma fors'anco non stimò di abbassare chi seduce le donne per conto proprio sino alla ignominia con cui poco prima aveva presentato coloro che le seducono per conto altrui. Ed invero, c'è una notevole differenza psicologica.
Ma in quella nobilitazione di un reo io veggo il solito motivo politico: la regalità aveva sull'animo dell'Alighieri un fascino profondo. Giasone, figlio di re, amante riamato di figlie di re, e alla fine sposo di un'altra figlia di re, gli dovette apparire come la personificazione del seduttore reso irresistibile da quell'aureola superiore: gliela riconosceva la stessa lusingata Medea, secondo quanto si legge nel suo famoso monologo delle Metamorfosi. Ma meritava Giasone l'onore di codesta distinzione semi-divina nell'aspetto e nella impassibilità eroica?
Eroe, Giasone lo era stato nella fantasia mitica del popolo Ellenico al pari di tanti della sua risma. Quasi tutti quegli Dei ed Eroi del mito Mediterraneo ci rappresentano una società, se non più primitiva, certo arcaica nello sviluppo del senso morale: essi sono per lo più degli impulsivi, dei violenti, dei vendicativi, dei crudeli, degli ipocriti e fedifraghi; sopratutto, in fatto di costumi, sono dei veri immorali: sensuali, corruttori, perfino omosessuali. E i colpevoli di seduzione, di ratto, di abbandono di infanti, di violenze carnali, quanti mai sono nel variopinto Olimpo! Ci si può anzi meravigliare che, fra tanti Dei e semidei delinquenti sessuali, Dante sia andato a scegliere Giasone che almeno rimaneva con le sue sedotte fino a paternità assicurata.
Fra gli altri Eroi del ciclo omerico vi era, ad esempio, quel Paride, che sedusse e rapì la già anziana Elena, col prestigio che gli veniva dall'aver visto nude tre Dee, fra cui quella della Bellezza. E vi sarebbe stato anche il padre Enea, traditore della sventurata Didone, se non fosse stato l'eroe prediletto del suo Virgilio. Ma fra gli Dei medesimi v'era quell'imperterrito seduttore di donzelle, che gli antichi avevano messo all'apice della scala divina, quel Giove Olimpico e Massimo, che si serviva della sua supremazia per portare a perdizione, anche con la simbolica pioggia d'oro, tutte le ragazze che gli piacevano, e Danae, ed Io, ed Europa, e Leda... e chi sa quante altre. Ora, Giove aveva moglie, per cui le sue arti corrompitrici avrebbero meritato un castigo nell'Averno; ma Dante era rispettoso dell'autorità costituita, della regalità e della Maestà, comunque si ammantassero, anche sotto la furfanteria o la inettitudine (quell'Arrigo di Lussemburgo, il suo idolo imperiale, insegni!): perciò rispettò il salacissimo Nume, sebbene peccasse con Ganimede anche d'un vizio innaturale; e preferì Giasone.
Questi, alla fine, non pare un sensuale nè un violento: era celibe, e prendeva di mira le nubili; e forse, come tanti fra gli ingannatori di ragazze, credeva, magari, nella sincerità delle sue promesse di matrimonio: l'amore toglie spesso la facoltà di sincerarsi dei proprii sentimenti e della propria volontà. Tuttavia in America e negli Stati che puniscono quella mancata promessa, Giasone avrebbe dovuto pagare fior di quattrini per risarcire le due tradite dei danni, dirò così, materiali e morali subiti. Ma da noi nè Isifile, lasciata incinta in un'isola deserta di maschi che potessero assumersi la responsabilità di quella gravidanza da fille-mère; nè Medea, che figliò due volte o più, avrebbero potuto citare il loro seduttore davanti il Tribunale. Anche adesso la Civiltà permette dunque di guardare la stessa cosa sotto aspetti differentissimi! Nè sarà inopportuno, a conferma della estrema variabilità dei costumi morali in seno alla Umanità, ricordare sempre che nell'Antichità quel perpetuo satiriaco di Giove era adorato con devozione generale, e che Giasone, al pari di tanti odierni traditori di ragazze, non andò in prigione, ne pagò indennizzi, ma visse consideratissimo nel suo paese fino ad imparentarsi con una famiglia regia, fino a figurare tra gli Eroi della classe maggiore, accanto a quel Teseo, che fu altro sfruttatore di donne (si pensi ad Arianna abbandonata sullo scoglio), e accanto ad Ercole, ucciso dalla gelosia di Dejanira, ma masochista ai piedi di Omfale.
Esaminiamo ora le arti seduttrici di Giasone nella loro intrinseca colpevolezza. La prima delle sedotte non doveva essere una sciocca, se, osserva acutamente il Poeta, aveva ingannato tutte le altre donne del suo regno. Ciò accresce la colpa dell'Eroe in quanto egli avrà dovuto aguzzar le sue armi, caricare le tinte della sua passione, sfoderare argomenti più poderosi, per vincere le riluttanze della furba Isifile; e Dante lo mette in rilievo. Ma Giasone doveva poi anche incontrare alla fin fine poche difficoltà: era il capo della spedizione, aveva prestanza di forme e «aspetto regale»; ed è naturale che a lui, fra tutti i cinquanta Argonauti (chè tanti erano sulla nave gli ardimentosi, secondo la leggenda), toccasse il boccone migliore. E non aveva concorrenti: Lemno non contava più che donne (il vecchio Toante era fuori dell'agone), e si capisce come la ragazza non sapesse resistere a quel giovane e audace forestiero. Nè forse soltanto la figlia del re, ma anche altrettante belle, sebbene «spietate» isolane, si saranno concesse ai quarantanove compagni dell'Eroe.
Da ciò potrebbesi arguire che Giasone non fu, in sostanza, un gran seduttore. Anche con Medea le arti di seduzione dell'avventuriero non furono eccessivamente tortuose. La sua maggior colpa fu di lasciarla dopo parecchi anni di utilizzata convivenza maritale e dopo averla resa madre almeno due volte; ma in riguardo alla sua abilità di vincitore di quel cuore femminile, direi che le cose non gli riuscirono molto ardue. Se si rilegge il monologo Ovidiano, quando Medea fra sè e sè dibatte il quesito del cedere o no alle proteste d'amore dell'ospite, si ha l'impressione che la breccia nel suo cuore di donna fosse già assai larga: in fondo ai suoi lunghi ragionari, si scorge che la bilancia pende verso il sì:
.....
postquam ratione furorem
Vincere non poterat.....
E poi essa medesima lo riconosce: se cederà, è colpa del suo carattere, del prepotente istinto erotico; non son forse sue le celebri parole, che tutti citano, forse ignorando chi per prima le aveva pronunciate:
..... Video meliora, proboque;
Deteriora sequor......?
Confessione che il genovese Padre Solari, accintosi alla improba fatica di volgere il poema di Ovidio in altrettanti versi italiani, tradusse così:
Restìa, son tratta; altra vuol cosa Amore,
Altra il Dover. Veggo il mio meglio, e 'l bramo;
M'attengo al peggio. In uom stranier, chè bruci,
Veramente, il testo latino dice «regia virgo»; ma se Medea forse vergine era, non sembra che giovinetta più fosse al par d'Isifile; da ciò quella cedevolezza, che agevolava le arti del seduttore, da ciò quel suo «furor», che sotto lo stiletto di Ovidio Nasone, ben competente per merito di Giulia Augustèa nei trasporti sensuali di amore, è molto significativo.
Certo, difficile, forse inutile, è il tentativo di rifare la psicologia di questi personaggi inventati dall'antica fantasia popolare, quando presumessimo di prestar loro le complicazioni della nostra anima moderna. La mentalità degli Dei e degli Eroi è del tutto primitiva: la intelligenza ne è scarsa, la sentimentalità povera oppure ottusa, la condotta semplice riflesso delle emozioni, degli appetiti o delle passioni; essi sono lo specchio di una psiche spesso selvaggia ancora o barbarica, che li ha creati e messi sugli altari. Del resto, il mito è sempre sintetico e simbolico; perciò Giasone non ha finezze psicologiche da rivelarci: le sue vicende ce lo dipingono bensì affascinante per le reginette di allora, ma senza forti tinte di carattere, senza propositi energici di dominio, senza passioni soverchianti: e dalle donne tradite fugge con stratagemmi poco eroici! Insomma, egli non era un seduttore di gran razza, un temerario assaggiator di donne, come il «Don Giovanni Tenorio» dell'arte secentesca, o come il «Marchese di Priola» dell'arte moderna. Son questi più che seduttori, i corruttori dell'anima muliebre, che ne lasciano il cuore arido con i sensi riscaldati, e ne fanno svanire ogni idealità, così che, dopo il loro effimero passaggio, si apre il declivio fatale della prostituzione. C'era questo tipo nella mitologia antica, ed era pur sempre quel maturo di Giove, di non simpatica memoria, personaggio dongiovannesco assai più schietto di Giasone.
Ripassando quelle frasi di Dante, dei «segni» e delle «ornate parole», viene in mente che l'Eroe potesse appaiarsi ai seduttori appassionati, almeno nell'esprimersi, come dovette essere il fortunatissimo Casanova: questi, in fondo, aveva il cuor tenero e si innamorava sul serio..., salvo lo smorzarsi rapidissimo di tutto quel fuoco di paglia. Ma neanco al leggero e leggiadro Veneziano Giasone mi par vicino; purtroppo il Casanova fu di lui più morale o meno immorale nel non sfruttare l'amore per proprio interesse! E allora, bene stia Giasone all'Inferno, se con lui la serie inonorata degli sfruttatori di donne doveva incominciare.
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E veniamo all'ultima figura del gran quadro Dantesco, a quella Taide, la cui presentazione, se ha un po' scandolezzato certi commentatori, rimane non soltanto stupendo esemplare di plasticità descrittiva giammai raggiunta da altri poeti in così breve volger di frasi, ma affermazione coraggiosa del diritto dell'Arte alla sincerità ed alla libera rivelazione del reale.
Appresso ciò
lo duca: «Fa che pinghe»,
Mi disse: «un poco il viso più avante,
Sì che la faccia ben con gli occhi attinghe
Di quella
sozza e scapigliata fante
Che là si graffia con l'unghie merdose,
Ed or s'accoscia, ed ora è in piedi stante.
Taide è, la
puttana, che rispose
Al drudo suo, quando disse «Ho io grazie
Grandi appo te?»: – «Anzi meravigliose!»
E quindi sien le nostre viste sazie».
Quest'ultimo verso del Canto XVIII ci dice che i due Poeti, percorrendo le prime bolgie ove stava raccolta tanta viltà umana e tanta sozzura morale, ne avevano l'animo disgustato e sazio fino alla nausea.
Dante è stato accusato, e non a torto, di avere prescelta una figura di fantasia, anzi di avere sbagliato nell'attribuire la frase da lui così vivamente rimproverata. Taide è un personaggio principale, se non la vera protagonista, dell'Eunuco di Terenzio (non già del solo terzo atto, come erroneamente scrivono alcuni commentatori, che non sono saliti alle fonti!); abbiamo qui il vecchio intreccio, in cento guise variato, ma un po' stupido, di Menandro. Taide è la solita etaira greca, di non alta classe, che viene disputata fra due amanti, un giovane ricco ed un soldato pieno di boria, il tipico miles gloriosus della commedia antica e popolare. Ambedue vogliono ingraziarsela, regalandole uno schiavo; il giovanotto le manderà un vecchio eunuco, il soldato più pronto le manda una bella fanciulla sedicenne. Ora accade che un adolescente, fratello di Taide, si innamori di costei e si introduca nella casa della sorella camuffato da eunuco; così riesce a violentare la ragazza ritenendola, come schiava, res nullius. Si scopre invece, come sempre nelle commedie menandree, che essa è una esposta nata libera; ma lo scandalo si sopisce mandando a nozze l'intraprendente giovanetto colla ragazza.
In Terenzio non è Taide che ringrazia con quella ampollosa parola di «ingentes» l'orgoglioso milite Trasone, bensì il parassita Gnatone, che fu messaggiero dell'offerta e della proposta d'amore presso la meretrice. Forse (taluni ne argomentano) Dante ignorava Terenzio, e prese l'aneddoto da un cenno che ne fa Cicerone nel suo De Amicitia, dove la frase, copiata dall'amanuense o letta dal Poeta con una superflua virgolatura, può trarre in inganno il lettore che creda venga attribuita a Taide la risposta data dal parassita e criticata pure da Marco Tullio. Ma sono quisquilie letterarie su cui non oso dir verbo: piuttosto è da porsi il quesito come mai Dante metta all'Inferno una simile donna, se fosse stata soltanto colpevole di quella iperbolica espressione di gratitudine. O il poeta esagerò a sua volta quella piccola colpa, o ebbe, come io penso, un fine alto, sebbene non espresso. Secondo ogni più logica interpretazione del pensiero Dantesco, Taide sintetizza le donne seduttrici e accorte, le femmine procaci e previdenti, che lusingando la vanità e i sensi dei loro adoratori li smungono e li rovinano. È dessa la vera meretrice, che da ogni suo amante vuol essere beneficata e gli si dà senza passione alcuna. Lo dice Parmenone fin dall'atto primo (scena seconda):
Neque Tu uno eras contenta, neque solus dedit,
Nam hic quoque bonam magnamque partem ad Te attulit.
Adunque, i doni fatti a colei debbono essere sempre di alto valore; e la parola «ingentes», tradotta da Dante in «meravigliose», è quella con cui si apre l'atto terzo. Il soldato donatore della schiava chiede al suo messo:
Magnas vero agere gratias Thais mihi?
e l'altro, per adulare chi lo mantiene, a rispondere «ingentes», ed a soggiungere:
. . . . . Non tam ipso quidem
«non tanto pel dono in sè ti è grata, quanto dall'essergli il dono pervenuto da te», ciò che costituisce l'adulazione tipica. Perciò è Gnatone che avrebbe figurato con più ragione nella bolgia quale adulatore, se propriamente il Poeta avesse voluto punire soltanto il peccato di adulazione.
Adunque Taide è forse nel Poema dell'Alighieri un personaggio sbagliato: lo ammetto io pure, ma che importa? L'arte sublima ogni cosa, e qui esiste tal forza plastica di presentazione del personaggio, che per quanto breve sia la sua apparizione, esso rimane impresso in noi come una delle figure più realistiche che mai genio poetico abbia descritto. Chi mai ha detto più e meglio di quanto Dante ci esprima in quei pochi versi? Ogni parola è una sintesi di aspetti, di atteggiamenti, di espressioni a contenuto psicologico; vi è del Michelangiolesco in quel «Ed or s'accoscia ed or è in piedi stante». Non sembra di vedere tutta la putredine morale del meretricio, tanto quegli atti sono un simbolico richiamo alla oscenità della professione, così che il corpo, ora abbassato e ripiegato sui ginocchi in atteggiamento lurido, ed ora in posizione eretta ad impudico spettacolo dei passanti, mette a nudo tutta la miseria morale di quella mala femmina, «sozza e scapigliata»?
È curioso che in tutta la Commedia non sieno ricordate le grandi etaire della storia, ad esempio Aspasia, nè le grandi erotiche di Roma Imperiale: nè Giulia, nè Messalina, nè Agrippina; e non meno strano, che l'attenzione di Dante si sia arrestata su di un personaggio così insignificante, tanto più se fosse vero che egli ne ha avuto notizia solo di seconda mano. Ma la fantasia del Poeta non ha bisogno di attingere dal reale in tutta la sua integrità: basta un segno, un particolare, perchè ne ricavi creazioni immortali.
Io sono convinto, perciò, che nel pensiero Dantesco la greca Taide rappresentava la prostituzione in quanto è fascino dannoso della donna volgare sull'uomo, in quanto è sfruttamento del sensualismo più volgare, in quanto è sostituzione dell'artificio e del mercato alla spontaneità ed alla reciproca sincerità in amore. Taide, che sollecita la vanità degli amanti affinchè provvedano al suo lusso, simboleggia la donna abbassata in tutta la sua personalità, svalutata, allontanata dalla vera funzione sociale, che è di essere la compagna affettuosa e fedele dell'uomo, non strumento del suo piacere, non solletico della sua vanità, non corruttrice della sua coscienza morale.
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Le pene. – Le pene inflitte ai peccatori nell'Inferno Dantesco, se da un lato mostrano la fertilità della sua fantasia per ideare castighi terribili e graduati in ragione della gravezza dei peccati secondo la sua scala di valori etico-politici, dall'altro lato rispecchiano le idee e le costumanze ancora arretrate del Diritto Penale del Medio Evo. Questo punto fu ampiamente illustrato dal mio distinto collega, Prof. Gino Arias. L'idea direttrice del Poeta è ancora la vendetta, che però dall'individuo ei trasferisce al corpo sociale o a Dio, col significato di Giustizia punitiva; e la vendetta si compie col metodo pratico del taglione, diventato nella mentalità medioevale il così detto contrapasso (Dante ne fa cenno in Inf., XXVIII, v. 142). Anche nella Bibbia domina il medesimo criterio del castigo divino.
Osservo che le pene Dantesche hanno più spesso un contenuto simbolico, pur ripetendo quel principio antichissimo, e ancora vivo oggi nella coscienza popolare, del taglione. Così gli ignavi dell'Antinferno non possono star fermi, come rimasero in vita nella inerzia di volontà, ma corrono ignudi punzecchiati da insetti; i lussuriosi, quali i due adulteri Paolo e Francesca, sono travolti da una bufera, che rappresenta la violenza della loro passione; gli avari son condannati a voltar pesi col petto, ma senza finalità alcuna, come in vita inutilizzarono le ricchezze accumulate... E così via via.
Anche i castighi delle due bolgie da noi percorse hanno una origine ed una significazione consimili. Che se i seduttori ed i lenoni camminano a due file in senso inverso, sorvegliati e percossi con sferze da numerosi demoni; e se gli adulatori e le prostitute lusingatrici se ne stanno immersi nello sterco umano, evidentemente la pena dei primi fu tratta da costumi medioevali, cioè dalla pubblica fustigazione; la pena dei secondi invece è imaginata per uno schietto simbolismo.
Durante il Medio Evo, e quasi fino a tutto il secolo XVIII, il Diritto Penale, nella sua parte teorica, considerava come gravissimi delitti molte azioni verso le quali oggi si è assai tolleranti, e nelle sue sanzioni era generalmente feroce o sproporzionato. Egli è che Diritto e Morale soggiaciono ad una continua evoluzione, ed in prova citerò un solo esempio. L'accattonaggio è da noi considerato fra le semplici contravvenzioni, ed è mitemente punito quando vi si simuli incapacità al lavoro; ma ai tempi di Filippo il Bello era castigato in Francia col marchio a ferro rovente, e più tardi, fino al 1524, lo straniero trovato a mendicare era bollato, poi bandito dallo Stato; chè se non partiva entro le ventiquattr'ore, veniva appiccato. Lo stesso in Inghilterra: sino ai tempi della grande Elisabetta, si comminava la pena di morte ad ogni uomo che dai 18 anni in su avesse mendicato per tre volte. Orbene, quantunque in Italia i costumi fossero già più umani, Dante vide ancora vigente molta parte di questo Diritto Penale, dove prevaleva il principio della vendetta efferata. Nel concetto antico e medievalistico la pena doveva infliggere dolori fisici al delinquente; e così fu che nel pensiero di Dante la qualità del castigo eterno provoca sofferenze atroci analoghe con la natura del peccato. Logica semplicistica, e perciò inesorabile!
Egualmente severo si è mostrato il Poeta per certi atti che oggi o non sono puniti o lo sono solo quando feriscano in modo palese il senso morale o il buon costume o l'interesse pubblico. L'Alighieri infierì contro la sodomia, che oggi invece non figura fra i reati ove non avvenga con violenza o con scandalo; ma non c'è da stupirsene, pensando che l'orrore contro questo peccato durò intensissimo fino al 1750, quando nella piazza di Grève a Parigi furono mandati al rogo due individui imputati di quell'atto. Bisognava che nascesse il nostro immortale Cesare Beccaria a dimostrare che la pena non deve essere una vendetta, ma una difesa sociale (a parte il concetto della emenda del colpevole): bisognava che la mentalità Latina, sempre equa ed umana, dimostrasse con Cesare Lombroso che il delitto è assai spesso il prodotto di una malattia o di una predisposizione congenita, indipendente dal volere individuale. Così fu che soltanto da poco più di un secolo vi è una certa proporzione fra la colpa e la pena, e che sono scomparse tutte le pene infliggenti dolori atroci. Ma nel secolo XIII e XIV ancora usavano l'amputazione della lingua, del naso e delle orecchie, il tagliuzzamento delle carni, l'attanagliamento, lo slogamento delle membra, l'inchiavatura della bocca, la frattura della tibia, l'abbruciatura lenta dei piedi, la bollitura in olio, il rogo... E il meno male che potesse capitare ad un reo era di venir decapitato dal boia, che qualche volta era anche inesperto, nel qual caso la testa era troncata a piccoli tagli; poteva anche il reo dirsi fortunato se lo gettavano in acqua entro un sacco di pelle o con una pietra al collo!
Così avviene che l'Inferno Dantesco sia di una materialità addirittura primitiva, come già lo aveva imaginato la paura popolare e come esso è pensato ancora oggi dai selvaggi: un luogo di torture corporali. Il concetto che una più evoluta dottrina teologica è venuta svolgendo negli ultimi secoli, che cioè la pena più crudele e più sentita dai dannati sia la privazione di Dio, non poteva presentarsi al pensiero ancora in ciò medievalistico dell'Alighieri, come non gli si presentava il concetto criminologico odierno della semplice difesa sociale contro i delinquenti.
Lenoni e seduttori sono puniti da Dante con la fustigazione. La fustigazione era molto usata nel Medio Evo per i delitti che, oltre ad offendere la giustizia, hanno anche aspetto di fraudolenza: essa era ad un tempo un castigo doloroso ed avvilente; quindi veniva applicata anche all'adulterio ed al lenocinio. Dal che si vede che sotto questo riguardo Dante copiò dalla realtà, trasferendo semplicemente dalla vita di questo mondo alla vita dell'Al di Là un fenomeno sociale molto diffuso ai suoi tempi. Se in certe contingenze si era giunti a punire il lenocinio addirittura colla morte, per lo più il suo castigo aveva sempre un che di burlesco, essendo il mezzano una figura degna di sprezzo: fino al 1744 la Legge Toscana sanzionava contro i ruffiani la frustata a dorso di asino per le vie della città. D'altra parte, anche i seduttori di donne, che oggi se la sgabellano il più spesso impunemente, erano allora puniti in modo grave: si narra di quel villano che avendo sedotta e violentata una sua castellana, veniva da Federico II, che pur era civilissimo monarca, condannato alla escisione dell'organo peccatore.
Più la Civiltà si innalza, più aborre dall'infliggere patimenti fisici al colpevole; ma non è così dappertutto: la fustigazione è ancora in uso presso molte Nazioni così dette civili e anche presso alcuni eserciti, dimostrando così come per questa loro mentalità si siano fermate a costumi semi-barbarici.
Secondo la pittoresca descrizione di Dante i lenoni e i seduttori della prima bolgia son costretti a camminare per l'eternità in senso opposto, formando due file incessabilmente e «crudelmente» percosse in sulla schiena dalla frusta dei demoni. Commentatori un po' sottili han voluto vedere in quel perpetuo obbligo di correre sotto la scuriada un simbolico accenno al precipitare delle donne sedotte verso la perdizione (!); ma io non vi veggo altro che un inasprimento della pena, in quanto quel modo di incedere permette ai demoni di menare la frusta sui peccatori, l'un dopo l'altro, senza interruzione.
La immersione nello sterco, per quanto io so, non figurò mai fra le pene comminate contro i rei anche fra i popoli più bassi. Si sono avute le immersioni in acqua fino al collo, anzi fino alla bocca o con tutta la testa, onde iniziare l'asfissia e così strappare al reo la confessione; si sono avute immersioni atroci, ora parziali ed ora generali, in olio od in pece bollente fino alla cottura del corpo... Sono orrori incredibili; ma la crudeltà umana non ha mai avuto confine, aiutata com'è dalla intelligenza messa a servizio degli istinti bestiali di rancore e di odio.
Ma in Dante si deve sempre cercare il simbolismo della penalità; e poichè è dalla bocca degli adulatori e delle adescatrici che escono le parole melliflue, piene di falso sentimentalismo, ma menzognere ed ingannatrici, giusto è che chiunque pecca in quel modo sia punito con ciò che di più lurido esiste sulla terra, cogli escrementi che sono il rifiuto dell'organismo. E si badi alla natura loro secondo il Poeta. Poteva questi fare immergere i suoi dannati nel fimo animale in genere; ma no: ha preferito proprio quello umano che per la complicata nostra alimentazione supera, nelle sue proprietà antigieniche e nella sporcizia, le feci della maggior parte degli altri animali, e per ciò rappresenta anche simbolicamente la massima corruzione morale. Di tutto l'Inferno Dantesco è questa la pena più turpe.
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L'Inferno, oltre ad essere di una plasticità insuperabile, ci offre con la raffigurazione dei peccati e dei peccatori sessuali, che ho esaminato, un contenuto di altissimo significato morale; ed è mirabile conferma del profondo, coscienzioso fervore per quella Idealità superiore che tutta pervade il Divino Poema. Poichè sarà vero che Dante Alighieri non fu sempre in grado o non ebbe la volontà di rinunziare agli ideali religiosi del suo tempo e ai concetti politici del suo partito; ma come li ingrandì, come li nobilitò, come li fece sangue e succo della nostra mentalità Latina!
Sono stati toccati i problemi più scottanti della vita sociale, gli atti più reconditi della condotta individuale, quelli che soddisfano l'istinto più pericoloso per la morale pubblica. Nella stessa pittura dei vizi più ignominiosi, dei peccati più osceni, Dante palesa sempre quel senso di misura che caratterizza il genio Latino. Perciò il suo poema ci innalza nelle più sublimi sfere del pensiero, e nelle più pure del sentimento; rinvigorisce in noi il ribrezzo pel vizio e la riverenza alla virtù; ma rinsalda pure il concetto della Patria come cittadini, della Fede se siamo credenti, della Civiltà Latina in quanto siamo Italiani ed eredi di quell'alma Roma che Egli guardava «sì come speglio» di una Civiltà Universale.
Si è domandato se Dante Alighieri, nella evoluzione del pensiero Europeo, sia l'ultimo rappresentante del Medio Evo, o il primo del Rinascimento. Rispondo che Egli fu assai più che l'uno e l'altro: egli fu il tramite fra due civiltà, e non soltanto fra due secoli. Dante raccolse in sè tutta la gloriosa eredità della coltura nata sulle rive del Mediterraneo, riassumendo nell'eccelsa sua mente accanto al misticismo cristiano le creazioni imperiture ed impareggiabili del genio Ellenico, che il genio pratico di Roma aveva assorbite, rifuse e fissate formandone il retaggio del «gentil sangue Latino», e salvandole così prima dalla barbarie Nordica e più tardi dalla Mussulmana.