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II. Il Buratti fattorino nello studio paterno — Sua rabbia e sfogo poetico — Si vendica dandosi in braccio ai piaceri — Fa una satira contro i tardi amori del padre — Il suo ingegno si rivela — Il Negri gli indirizza un’epistola — Galanterie — Conegliano guarisce le piaghe amorose — Altre avventure — La filosofia d’un marito — Imprudenza del Buratti — Debolezza del suo carattere. |
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Il Buratti fattorino nello studio paterno — Sua rabbia e sfogo poetico — Si vendica dandosi in braccio ai piaceri — Fa una satira contro i tardi amori del padre — Il suo ingegno si rivela — Il Negri gli indirizza un’epistola — Galanterie — Conegliano guarisce le piaghe amorose — Altre avventure — La filosofia d’un marito — Imprudenza del Buratti — Debolezza del suo carattere.
Ma questi successi letterari non valsero punto a rimuovere od a scemare il crudele positivismo paterno, e un bel giorno fu costretto a lasciare in asso i cari studi per darsi tutto al commercio. Il signor Petronio voleva così, e bisognava obbedire. «Eccomi dunque» — esclama la vittima — «a diciannove anni condannato al barbaro uffizio di copiar lettere, e di languir fra le noie degli esecrati misteri».7 Condizione dura davvero, che poi descrisse in versi bellissimi.
Tropo zovene
Tolto in mezà8
Su banco ignobile
Gera puzà,9
Dove a l’ufizio
Poco ideal
De copiar letare
Sora un messal,
S’univa l’obligo
Piu assae vilan
D’esser in pratica
De can guardian,
Pronto
mostrandome
A farme onor
Co al primo strepito
Del bataòr10
Doveva storzerme,11
E da cogion
Tirar el zogolo
De un vil cordon.12
E gho a memoria
Che nel mio interno,13
Rotto la buzzera14
Da sto bel terno,
Fra el copia letare
El banco e mi,
Sfogo al lunario15
Dava cussi:
— Per Dio
santissimo,
Gh’è mò razon
Che a son de tàlari
Sia qua in preson,
E che ne l’infimo
Posto se méta
Un fio che l’anima
Gh’ha de poeta? —
Ma el soliloquio
Mio liberal
No dava tregua
A tanto mal,
Chè el sior Petronio
Gera un signor
Iremovibile
Per conto cuor;
E se mi in estasi
No me acorzeva
Che a colpi rapidi
Qualcun batèva:
— Dormiu sior tangaro? —
El me zigava,
E mi da l’estasi
Me desmissiava.16
Si stenta a credere, eppure è un fatto che durò in questa vita dai diciannove ai trent’anni, durante il quale periodo, per legge di compensazione, percorse «tutta la trafila delle umane follie, rovinando e la salute e la borsa, con la perdita ai giochi d’azzardo — amarissima ricordanza! — di settantamila franchi».17
Oh se lo avessero lasciato studiare! Un figliuolo non è una pallottola di cera a cui si dà la forma che meglio talenta; bisogna favorirne la vocazione, la quale o tosto o tardi si manifesta in tutti, e non certo per essere trascurata; oppure bisogna subirne le conseguenze. Pietro aveva un’indole debolissima, facile a cedere a qualunque sentimento, buono o cattivo, che gli si presentasse dinanzi sotto affascinanti parvenze, e altrettanto facile magari a pentirsene poco dopo; ma il suo animo, in fondo, era mite e non privo di gentilezza. Se mite non fosse stato, lui ricco, di aspetto leggiadro, pieno di galanti avventure, avrebbe forse prestata al padre — a un tanto padre! — volontaria obbedienza fino ai trent’anni?
I suoi primi versi nacquero quasi improvvisi fra comici e ballerine e falsi amici e scrocconi: ma appena fatti li lacerava come inutili cose. In quel tempo gli era indifferente adoperare la lingua o il dialetto; non fu che molto dopo, quando il demonio della poesia lo assalse davvero e lo costrinse a scegliere fra l’una e l’altro, che preferì il dialetto, senza per altro abbondonare del tutto la lingua. Ma conosceva di essere scarso di studi, e Dio sa quante volte avrà maledetto il destino, che avea tarpate così bruscamente le ali del suo bellissimo ingegno. Egli stesso racconta che il primo sonetto satirico veneziano che gli sia uscito dalla penna, fu contro un vecchio francese impiegato nel banco paterno, il qual vecchio si era permesso di criticare certi suoi versi. Esiste nella raccolta completa del Museo Civico di Venezia, ma davvero non franca la spesa di occuparsene. La prima vera satira la fece a Bologna contro suo padre, e siccome ebbe conseguenze gravi, lascio che egli stesso narri questo tragicomico episodio nel suo elegante dialetto. «La nostra casa dominical in Bologna xe in contrada de San Martin, e in fazza ghe xe el palazzo dei marchesi De’ Buoi, famegia ilustre, ma, come tante altre, andada ne l’ultimo sconquazzo, e ridota a la necessità de meter zozo18 i cavai. Mio pare, co l’oportunità de la vicinanza, avendo incontrà una streta relazion co la marchesa, xe restà vitima necessariamente de qualche batùa19 del marìo, e s’à oferto cavalier servente de la muger, che trovandose a penini20 per le circostanze indicae, no gh’a parso vero de scaturir fora el bon omo che la scarozzasse matina e sera. Pazienza questo: ma el povero mio pare, desmentegandose i so setant’ani, faceva cargadure21 indegne de un ragazzeto de vinti, e vanissimo per caratere, ghe pareva de partecipar a la nobiltà del sangue De’ Buoi. Vedè za che bel paneto22 per un satirico de la mia sorte. Pur ve l’acerto, no m’averìa tentà de scriver parola, se l’ecitamento no me fusse vegnudo replicatamente dai mii fradei23 ne l’ozio de un nostro logheto de campagna in poca distanza da Bologna.
Quando penso al
buon umore
De l’annoso padre mio
Che antepone il far l’amore
Allo starsene con Dio ecc.:
cussì ho comincià una matina el mio sfogo poetico, e l’ò condoto al so bon termine co l’aprovazion pienissima dei fradei, che se l’à godesta mile mondi. Fin quà ognun vede che la congiura xe in tre, e che la parte odiosa de l’esecuzion casca esclusivamente su mi. Congiura per altro che no faceva al pare nè caldo nè fredo, se la moriva fra quatro muri, come giera nostra intenzion. Ma cossa à permesso la contrarietà de la mia stela! Me vien in testa un zorno de tirar fora la malacopia de sta poesia, e de metermela in nèto, inamorà de una pena che me serviva megio del solito. Impiego un’oreta circa in sta bela operazion, me la rilezo con gusto pecaminoso, averzo24 distratto la cassèla del mio scritorio, cazzo drento el primo original, e me desmentego fora la copia in nèto. Mio pare, schiavo de una pulizia che passava i confini, ghaveva l’uso ogni zorno de zirar per tute le camare, e de far le veci de servitor se ’l trovava qualche mobile fora de sito. El se credeva de più autorizà de lezar carte e letere dei so fioi, e de sbolarghele prima, se ghe ne capitava qualcheduna in te le sgrinfe. Imagineve pò, co sti principî liberali, se ’l dava quartier a manoscritti che se ghe presentava naturalmente sot’ochio. No gh’è bisogno che diga de più. L’entra ne la mia camera, el trova el corpo del delito poetico, el se lo leze da capo a fondo, el capisce el bergamo,25 el me fulmina de la so colara, e da quel momento devento per lu un secondo Cam, che ha fato ridicolo de Noè imbriago. Un pare poeta avarìa probabilmente ridesto, ma un pare negoziante à trovà ofeso el so decoro, e gha parso poco de portar la vendeta fin dopo morte.»
Sì, davvero, fu un po’ troppo: fra breve il lettore potrà giudicare. Santo Dio, non sanno tutti che
Non v’è cosa peggiore
Che in vecchie membra pizzicor d’amore?
Ma il Buratti aveva il difetto stesso di Byron e di tutte le femmine, di non saper custodire un secreto; enorme difetto che gli procurò amarezze e dispiaceri infiniti.
Sotto un certo punto di vista fu un bell’esordio per un poeta satirico; bello per lui ma terribile per certi altri, i quali penso dovessero dire: se costui non risparmia neppure suo padre, che cosa farà di noi? Infatti da quel giorno le satire si succedettero con prodigiosa fecondità; il suo genio si rivelò fulgidissimo; gli amici ne rimasero sbalorditi; i nemici tremarono; la gente colta ammirò, e Francesco Negri, il protettore della sua fanciullezza, gli diresse un’epistola, che non è ancora stampata. Eccone un brano:
Garzon felice! A te destro sorrise
Il santo coro d’Elicona, e lieto
Al nascer tuo baciotti in fronte Apollo.
Minerva in grembo ti raccolse e il viso
De’ suoi fiori ti sparse Aglaie bella.
Indi: cresci — ti disser — cresci, o vago
Fanciullo, e fa che in sulle venet’acque,
Più che l’ingenua culla, e gli agi, e l’ampla
Fortuna, caro altrui ti renda il dotto
Ingegno, i bei costumi e gli aurei studi
E lo spirto vivace, e l’arti mille
E i mille don di cui larghe ti fummo.
Tu omai crescesti, e omai co’ tanti pregi
Onde se’ ricco, l’anime seguaci
D’ognun ti rendi, e degli eguai lo stuolo
Te sua delizia, te suo fregio appella;
Nè molto andrà che a più soavi affetti,
Benchè costanti meno, esca porgendo,
Su te vedrai le cupide pupille
Volgere o calda verginella o sposa,
Di sè troppo secura; ed or loquaci
Sogghigni, or lagrimuccie industrïose,
Or cari sdegni mal mentiti ad arte,
Or sospir tronchi i tuoi trofei saranno.26
Veramente il Buratti non avea manco la lontana idea di ammogliarsi, perchè, ripeto, le avventure galanti gli fioccavano da ogni parte, ed egli non sapea comprendere il matrimonio che come una giubilazione, un forzato ritiro dalla scena del mondo. E pensava: perchè non godere largamente la vita finchè si può, perchè non raccogliere i suoi pochi fiori fin che sono freschi? Già gli anni incalzano, e la triste vecchiaia ne sta sospesa sul capo come la spada di Damocle. Godiamo, e quando la natura impigrita risponderà male all’audacia del desiderio, e sarà prossima l’ora di scontare i vecchi peccati, rifugiamoci nella pace del matrimonio; così, vissuti per la donna, potremo dire di conoscerla intieramente: negli anni belli gaia ministra d’amore, nei brutti angelo di carità. Bisogna essere giovani per apprezzarla nella prima maniera; bisogna essere logorati, o molto maturi, o vecchi, per comprenderla nella seconda.
Non frequentava le conversazioni, che in quel tempo numerose fiorivano, perchè in un salotto, fra gente ammodo, si annoiava cordialmente. Ciò non gl’impediva per altro di conoscere e di avvicinare le dame più note per spirito o per bellezza, e se gli andavano a genio, di corteggiarle e d’amarle. Il Ridotto, la maschera, i casini, i caffè, si prestavano a maraviglia a questi incontri felici. Diventò cavalier servente della contessa Teresa Porzìa, e la chiamava dama incerta perchè avea una gamba più corta dell’altra. Godette l’intimità della contessa V... nata M... e si recava sovente a visitarla nella sua villa sul Brenta. Le chiacchiere andarono fuori, perchè già queste cose non stanno celate — pare impossibile! — che ai mariti, e la famiglia Buratti se ne impensieriva, e temeva d’incontrare una volta o l’altra, per cagione di Pietro, qualche gran guaio. Il padre lo prese un giorno a quattr’occhi, lo informò delle voci che correvano, gli fece un gran predicozzo, e gl’intimò di lasciar su due piedi la contessa V... del cui marito voleva rimanere amico.
— Se altro non volete, caro padre — gli rispose imperterrito Pietro — sappiate che la contessa non l’amo più...
— Come? non sei suo cicisbeo?
— Lo ero!
Per lui mutar d’amante o d’abito era lo stesso.
Il padre lo rimandò, riserbandosi ad assumere informazioni. E seppe infine che il figlio, stanco del primo pomo, ronzava intorno ad un altro più fresco e saporito, in figura di certa Vittorina, seconda moglie del nobil uomo Jacopo Foscarini. Montò sulle furie: quel diavolo di figliuolo andava a scegliere proprio le mogli dei più cari amici di lui! Che fare? Comunicò la cosa alla signora Vittoria, la quale, inorridita, invocò la Madonna dei sette dolori, e per salvare l’anima del suo Pierino, lo mandò a Conegliano. Era sul principio d’autunno. Gli amici di colà gli saltarono intorno.
— Oh Buratti! Che buon vento vi porta?
— Son venuto quì a far la cura dell’uva!
Infatti, trabalzato così repentinamente dalla romorosa e spensierata Venezia a questa vita coneglianese, vita d’acqua palustre, altro non seppe trovare di bello e di buono che i grappoli d’uva.
Finalmente al cadere delle prime foglie ebbe il permesso di tornare a Venezia, e d’ora innanzi quando incontrava un amico per via che si querelava di essere innamorato, gli suggeriva subito la cura di Conegliano; e perchè tutti gl’innamorati di professione potessero usare il portentoso rimedio, diffuse in rima lo stesso consiglio:
Lo provo adesso
mi che parto san
Per dir a tutti i mii compagni: andè
A guarir da l’amor a Conegian.
Bel complimento codesto per le donne coneglianesi! Ma le donne di allora non sono quelle di adesso, gentili e belle — quantunque più gentili e belle sarebbero senza quel ridicolo e goffo sussiego di provincia che, con voce sbagliata, i campagnoli chiamano aristocrazia. Oggi aristocratici non ne esistono, e l’aroma della bellezza è lo spirito, la semplicità.
Riannodate le antiche amicizie, il Buratti cadde nelle reti di Vittoria Mondini. Cominciò col tenerle al fonte un bambino, e finì coll’averne uno da lei. Questa signora, rimasta vedova, sposò in seconde nozze il nobil uomo Andrea Da Mosto, grandissimo ammiratore del Buratti e raccoglitore delle sue poesie. Anzi è lui che ci narra quest’avventura in una delle note apposte ai versi dell’amico, e ce la narra, son sue parole: «perchè i posteri non debbano nulla ignorare.» Il Da Mosto era anch’egli poeta in dialetto, e non dei peggiori; ma trovata nemica la fortuna, e convinto che gli uomini del suo tempo non gli avrebbero mai conceduta una corona d’alloro, ebbe il peregrino pensiero di raccomandare alla memoria dei posteri la corona regalatagli dalla moglie. Sia fatta dunque la sua volontà.
Seguire passo passo il Buratti nella via degli amori, sarebbe cosa da pazzi; sarebbe come contare gli astri del cielo, i fili d’erba d’un prato. Questo solo noto, che anche in amore non sapea por freno all’impaziente loquacità, non sapea serbare quel verecondo mistero che nobilita il gaudio e lo rende più saporito. Una volta, per dirne una, la contessa Fanny S... gli diede convegno poetico in una gondola. Fosse emozione o che, sul più bello fece un fiasco vergognoso, e se il mare in quel momento si fosse aperto per ingoiarlo, gli avrebbe fatto un grande piacere. La contessa, non abituata certo a patire simili affronti, confidò l’accaduto all’indiscreta discrezione di qualche amica, magari con qualche fronzolo, onde rilevarne maggiormente il ridicolo, e così di amica in amica, venne a saperlo anche il Buratti. Figurarsi lui! Come una folgore lanciò sulla poco educata contessa un sonetto così pepato e salato, che a me, che non c’entro, scorrendolo semplicemente mi si drizzano i capelli sul capo. Tutta Venezia seppe lo scandalo; nei caffè, nei salotti non si parlava d’altro; la signora non uscì più di casa; e che altro le potè rimanere se non recarsi in campagna a pigliare una boccata fresca di aria, molto fresca, perchè il sole entrava in acquario e il termometro segnava due gradi sotto zero, temperatura del sangue di lei quando lesse il su ricordato sonetto? Un’altra volta, per dirne una seconda, il nostro Pietro — malgrado sempre i pietosi consigli della madre, che facea dir delle messe per l’anima sua — legò amicizia con Lucietta V... moglie del nobil uomo conte Battista C... Un giorno il marito, anticipando il suo ritorno a casa, scoprì il poeta in atto di dare una lezione di fisica sperimentale alla moglie. Il sangue, invece di montargli alla testa, gli discese tutto alle calcagna, e tale fu l’impeto della discesa, che il pover’uomo, incapace di tenersi ritto e di profferir verbo, si pose a sedere... e ad ammirare! Il Buratti se ne andò tranquillamente pei fatti suoi. All’indomani a San Marco trova il nobil uomo. Servitor suo, gli fa questi levandosi tanto di cappello; venga a casa mia che mi farà sempre un piacere. Ma non era un piacere pel Buratti, come non lo sarebbe per nessuno, corteggiare la donna di un altro col suo permesso, e sta bene; se però questi era stato prudente e non avea voluto ricorrere alle armi, perchè con le armi si può farsi male ed anche ammazzare, si doveva ricambiarlo almeno con un pudico silenzio. Signor no: la novità del caso parve al Buratti così strana e piccante, che non fu tranquillo fin che non la narrò in pieno caffè agli amici, i quali, naturalmente, ne fecero le più crasse risa del mondo. E lui si pavoneggiava in mezzo ad essi, e si compiaceva come d’una gran bella cosa. Ma l’indomani, impensierito della gran diffusione dell’aneddoto, più per la donna compromessa che per le conseguenze che ne potevano derivare, si pentì della sua indiscretezza, e fece serio proponimento a sè stesso di correggere il brutto difetto. Ma sì! A quarant’anni confessava in un brindisi:
M’ò volesto mò
provar
Se capace son de far
Un’azion in vita mia
Senza dirlo a chi che sia.
Son po ancora zovenoto,
Posso torme sto difeto;
Oto lustri no xe in fondo
Oto secoli de mondo;
No me vogio desperar,
Posso un omo deventar.
Passò la vita rinnovando ogni tanto il proponimento medesimo, e morì senz’averlo mai messo in pratica.