Gian Pietro Lucini
D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo

Biografia 1863 – ?

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Biografia
1863 – ?

En attendant, un sceptre enviable, le sceptre du "raffinement", s'offre aux bonnes volontés. Les générations nouvelles des poétereaux demandent qu'on leur enseigne les belles manières et le to-to, et les complexions distinguées.

L. Tailhade, Imbéciles et gredins – Un Martyr.

Paullo post vidit cinaedum myrtea hornatum gausapa cinguloque succintum, superbum in equo supervenientem. Dixitque: "Nunc reperivi quod diutus mihi desiderium erat: ecce πποπόρνον"

G.P. Lucini, Nota 31 a "Consigli", in Le Nottole ed i Vasi.

È stato ed è norma quasi aristocratica questa, la quale assegna a qualunque ben nato critico – quando voglia discorrere con fondamento, ragioni ed opportunità di un autore, di un artista – la perfetta conoscenza non solo delle opere di lui sì bene anche della sua vita.

Vita ed opere di uno scrittore, esercitate nello stesso tempo, nello stesso ambiente in cui egli produce, si rischiarano a vicenda, si penetrano, si confondono, danno la totalità. Come non si può non conoscere l'epoca in cui tale personaggio si esercita e compie le sue gesta, così non è mai chiara completamente al critico la lirica di un poeta se non ne conosca la fisiologia, spesso, la patologia: ché allo studio integrale di lui giovano e le nozioni di ciò che di più nobile espresse il suo cervello, come quanto di più comune si avvicendò giornalmente nel suo corpo, nella sua casa, nelle sue abitudini.

Tale era la mia intenzione, di seguire cioè e l'una e l'altra indagine nel parlarvi di Gabriele D'Annunzio, e, per primo, mi era accinto alla doverosa biografia; quando m'accorsi, che, per quanto animato d'ogni migliore volontà, ajutato d'ogni più lata referenza, non mi veniva fatto di trovare una logica, un nesso, una sequenza anche nella sua vita, sopra tutto, un ordine che me ne spiegasse le vicende. Forse io era privo di quelle benigne informazioni che provengono sempre dalla fonte più interessata, che ti guidano la mente nel pensare e la mano nello scrivere verso quelle destinazioni laudative che fan tanto piacere alla stessa fonte. Per ciò si comprende subito come l'acqua sua sia sempre ottima alla sete d'altrui. Non era, in fatti, l'individuo il più adatto a ricevere dalla viva voce del personaggio, l'aneddoto capzioso, la barzelletta cortese, il bon-mot elegante, le rettifiche alle curiosità troppo sfacciate dei giornalisti; ad essere, cioè, il porta-parola di severo aspetto, per rivendicazioni, elogi, amplificazioni, apologie. Il mio prossimo passato mi aveva fato immune di queste confidenze e mi faceva ora obbligo di una scienza d'annunziana tutta creata me da me, con fatica di ricerche, sudori di letture, ingratitudini di lavori improficui, disinganni di notizie ad arte falsificate, di cronologie sbagliate a bella posta.

Così, anch'io desidero di essere convinto, per esperienza, nello scandagliarne la vita, della eccellenza e bontà d'annunziana ed avrei fatto eco ben volontieri a queste note parole del Morello: "Tutti coloro i quali, sulle leggende che corrono le vie, si foggiano un d'Annunzio [di maniera, il loro d'Annunzio] cinico e inverecondo, tutto intento a sorprendere per suo particolar gusto e interesse, con le sue mostruose figurazioni, la buona fede del pubblico, non imaginano [e forse] non sospettano neppure, che nell'angolo remoto del suo studio sia un d'Annunzio diverso, e per fortuna il d'Annunzio autentico, cioè l'artista che dell'arte ha fatto la ragione suprema della vita, e un po' anche l'uomo [non estraneo all'umanità, l'uomo] che conosce il dolore che non descrive, forse più delle gioie che descrive troppo!". Ma, per quanto frugassi, codesto autentico D'Annunzio non mi venne fuori; e, se trovai anche, in camera caritatis, delle strida, delle urla e delle lagrime, non dolore rinvenni, perché sempre assente dall'analgesico suo cuorei; perché altro è Leopardi, altro il Pescarese.

Così, anch'io, incalzando da presso la sua opera, quest'arte sua che lo fa vivere, non per cui vive, voleva scoprire, sulle fibre più sensibili e squisite, le cicatrici, postumo di tante sconfitte secrete che in un drama intimo la sua volontà aveva inferto alla sua facilità, perché il poeta si espurgasse, cioè, le traccie di quel drama di cui parla catastroficamente il Gargiulo nel suo studio; ma nessun segno inciprignato mi fu dato osservare.

Se serietà e lavoro paziente ed efficace egli conduce nel suo studio-laboratorio, se drama si avvicendò nella sua opera, per lo svolgimento della sua arte, nello scoprire la diritta via, nell'opporsi ad intrichi ed allettamenti, per farsi sé stesso, sempre; se questi segni, per cui si manifesta l'imperio su sé stesso e nel carattere e nel poema esistono, io non li scorsi; però che, forse, mi mancarono alli occhi quelle lenti, speciale privilegio de' mignoni delli autori, colle quali, telescopicamente, si scoprono le virtù, che sono assenti ad occhio nudo; come le grandi machine de' canocchiali di osservatorio astronomico fanno apparire, nel vuoto cielo notturno, miriadi di stelle sotto il miracolo de' loro obiettivi. Io, adunque, povero mortale e non addentro alle secrete confidenze d'annunziane, non vidi in lui che quanto il mio buon senso mi fece osservare, che quanto la gazzetteria spicciola d'ogni giorno, la quale non fu mai rimproverata di dire il falso, mi aveva fatto leggere sul più interessante del suo conto. E mi muniva delle mie prove; ed andava collezionando testi; permettete ch'io ne distenda un breve catalogo:

Garibaldo Bucco (Albio Frentano), Presepi d'Annunziani, La Poligrafica Milano, 1903: contiene delle interessanti notizie sull'infanzia prodigiosa del nostro poeta, vi conoscerete le sue precoci virtù, che, presto, il tempo svilupperà a maggior favore della poesia italiana.

Vincenzo Morelloii, Gabriele d'Annunzio nella Collezione: I Moderni d'Italia, Società Editrice Nazionale, Roma, 1910. È un inno, una apologia degna di Rastignac = Vincenzo Morello. Egli gliela doveva, almeno, per ringraziare l'imaginifico che gli dedicò Più che l'Amore. Si sa, una mano lava l'altra e tutte e due insieme la faccia. Vi leggerete i primi anni del Poeta, la sua scuola nel Collegio Cicognini di Prato, le sue lettere d'adolescente al padreiii, la sua conquista di Roma, auspice il Sommarugaiv, la superba vittoria del "Canto Novo" – che si riduce a vender molte copie del sudetto; "i sette anni che corrono dal 1882 al 1889, dal Canto Novo al Piacere, quelli dell'esperienze, che danno poco frutto per l'arte, o quel che danno è cenere e tosco", ma preparano il materiale d'arte per l'avvenire, quando, "sedati i tumulti della giovanezza, il poeta si ripiegherà su sé stesso,... etc.".

Francesco Giarelli, Vent’anni di Giornalismo, 1868-1888, Codogno, tipografia editrice A. G. Cairo, 1896: mi aveva regalato una sola notizia, ma pure importantissima; mi aveva fatto conoscere "nella folla dei Farfallini nostrani ed esteri, che aumentava da Augusto Lenzoni a Visentini, da Cesare de-Vittori ad Archimede Scarpetti (Zuanin)" anche nel 1880 Gabriele D'Annunzio, che "presentato, da Filippo Turativ, esordisce sulla Farfalla con due splendidi sonetti" – pag. 288cap. XX.

In sul periodo romano poi, in sull'ascesa d'annunziana, abbondava di carta stampata:

Edoardo Scarfoglio, Il Libro di Don Chisciotte, nuova edizione riveduta dall'autore, con una prefazione e documenti inediti, Firenze, Casa Editrice di A. Quattrini, 1911. Vi aveva attinto informazioni saporosissime e quanto mai sicure, – come in fatti usò anche il Rastignac –, dalla pagina 146 alla 157, dalla 193 alla 202; e non solo, sotto la lucida penna del Tartarin, erano stati fermati li avvenimenti della attualità, ma la sua critica aveva pur intraveduto li svolgimenti successivi dell'arte d'annunziana, più dai difetti che dai pregi, più dalle qualità estrinseche dell'arte, e perciò elementi di successo, che dalle virtù essenziali dell'autore di cui vantava l'intuizione e la celerità del comprendere, ma si lamentava l'assenza del raziocinio, della esattezza, della sincerità.

Davide Besana, Sommaruga occulto e Sommaruga palese: con tanto di epigrafe da sicario: Qui gladio ferit, gladio perit. Roma, presso Giovanni Bracco, Via Banchi S. Spirito, 56, 1885. L'edizione unica è oggi ricercatissima ed introvabile; rischiara il d'annunziano sopra le vicende della Bizantina, della Musa Febea, un giornale, una Musa per davvero, dell'Ezio II, del Don Chisciotte, del retro scena giornalistico d'allora; vi troveremo anche la notizia più esatta sul matrimonio di Gabriele D'Annunzio, che proprio non so resistervi dal citarvi per lungo e disteso in notavi.

In fine, quel bizzarro nostro F.T. Marinetti, col suo francese esatto e scapigliato, turgido di imagini e furbo di insinuazioni, aveva voluto erudire italiani e francesi ad un tempo su le mille ed una curiosità d'annunziane, sì che la fatica di apprenderle non sta che nel piacere di leggere Les Dieux s'en vont, d'Annunzio reste, Dessins à la plume par Valeri, Paris, Bibliothèque internationale d'Editions, E. Sansot, 1908.

A rintoppar le lacune, tra testo e testo, ad infarcire dell'aneddoto corrente, a raccattar la spazzatura della camera da letto, del boudoir, della sala da pranzo, del salotto di gala, della cucina, della stalla, del giardino, dello studio di Gabriele D'Annunzio, una piramide di riviste, giornali, foglietti, fogliacci, d'ogni carta ed inchiostro e colore e malizia mi si era rizzata sul tavolo ad ingombro. Non aveva che immergervi le mani per ritrarle piene di D'Annunzio, in ogni positura, e di sul Guerin Meschino e di sul Corriere della Sera, il quale quando parla di Lui è più humoristico del confratello ebdomadario illustrato. Non c'era che l'imbarazzo della scelta; ché nessun uomo o donna pubblica fu mai servito con maggior sollecitudine, giacché li affari d'annunziani, in genere, sono pur quelli della gazzetteria rappresentativa e promiscua. E bene; con tutta questa esuberanza di informazioni e di documenti, qui, il lettore non potrà avere una Biografia di Gabriele D'Annunzio; ed io dovrò rinunciare, contrariamente al mio desiderio, di essere almeno una volta pedissequo ad una norma aristotelica, di essere ordinato secondo l'ordine dei più. Vi prego di compiangermi: il disordine non provien da me, ma dall'istesso soggetto ch'io voleva trattare.

Sentite un po': per scrivere la vita di alcuno bisogna avere un punto fisso, una data certa, una sicurezza nominativa assoluta; bisogna conoscere esattamente il della sua nascita, avere il documento del come si chiama, nome, cognome, paternità. Aveva tanto sentito discorrere sui diversi nomi d'annunziani, sulle diverse date della sua nascita che non mi raccappezzava più; che temeva sempre, qualunque ricerca avessi fatto e farei in proposito, di incominciare il mio edificio biografico su basi false. Che gusto allora, una volta aver costruito portico, saloni, terrazze e torri, e, sulla maggiore, issata la bandiera della solennità, trovarmi davanti al competente, il quale vi può gridare: "Tutto bene: solamente la prima pietra, il fondamento è su terreno d'alluvione; se viene a piovere e la ghiaja consente, vedrai dove scivola il tuo palazzo". Quest'era l'atroce dubio che mi tormentava.

E or l'uno mi diceva: "Non si chiama D'Annunzio, bensì Rapagnetta!" e l'altro confermava: "È D'Annunzio puro sangue!": quest'altro sosteneva: "È nato sulle tavole di una paranzella al largo di Pescara, proprio poeta del mare, sul mare!". E l'invidioso: "Non credergli, è una panzana!". L'informato veniva a leggermi un foglio su cui si confermava come il D'Annunzio fosse anche Rapagnetta e viceversa; com'eglí avesse lasciato scritto di propria mano la data di sua nascitavii: 7 Giugno 1867, su di un album calendario privato, oggi, divenuto preziosissimo, perché condecorato da molti autografi di celebrità: ed io quasi a credergli. Il contradittore, invece, sosteneva che proprio D'Annunzio, il 31 agosto 1906, aveva affermato nanti alla pretura di Firenze di aver trentanove anni, sicché fatto il calcolo, oggi 1912, dopo sei anni, ne dovrebbe avere quarantacinque; ed io, con tanto lusso di date documentate mi credeva di doverlo smentire. Indi, l'uomo pacifico voleva persuadermi che D'Annunzio certamente era nato in qualche parte d'Italia in quella decina d'anni che corrono, dal 1860 al 1870viii; l'ironico mi eccitava a sperare, per mia pace, che fosse almeno nato nella luna. E sempre io a scervellarmi dietro una cifra, dietro un nome, quand'ecco una illuminazione. Raccontano che l'amico mio grande Paolo Troubetskoi volendo nella sua fanciullezza studiare la storia romana si era munito di un manuale ad hoc: ma lettone le primissime righe l'avesse gittato, ridendo. D'allora in poi ricusò di erudirsi in quella materia. Il manuale, forse il Rollin famoso, portava stampato in primissima pagina: "Le origini di Roma sono oscure ed incerte". Il buon senso del futuro scultore di cavalli, di imperatori, di filosofi e di belle signore s'era ribellato a sprecar tempo e fatica per sapere le avventure di un popolo e di una città di origini oscure ed incerte.

Ma vorrò io distruggere tutti i documenti d'annunziani raccolti con pazienza ed ostinazione per conformarmi al buon gesto dell'amico? Mai no: facendo il mestiere del letterato ne avevo riconosciuta comunque l'utilità e voi li ritroverete in calce alle pagine ed in nota al testo perché se Biografia non diedero, seguita e classica, siano motivi vissuti, postille all'opera criticata; donde l'opera e la vita si penetrino e si confondino in totalità e ne riesca la mia Antidannunziana integrale.

Varazze, il 26 Novembre 1912.

 






i           Il romanziere Jacques Vontade mette nel supplemento letterario del Figaro in bocca a T., ciarliera di professione, cui nulla può far tacere, il seguente ricordo d'annunziano:

            "Io ho visto d'Annunzio una sola volta. Fu in casa della signora Aubernon. Essa aveva dato, per lui, una di quelle colazioni di gloria che erano la felicità della sua vita, povera signora! Nulla più m'ha meravigliato dell'aspetto di quell'ammirabile scrittore. Lo conoscete? Confessate che nessuno somiglia più di lui a una zanzara... una zanzara calva. Era lui il poeta della voluttà? Non potevo credere ai miei occhi... Poi, ho compreso che i lirici si descrivono nelle loro opere piuttosto come vorrebbero essere che non come sono. Mi si fece l'insigne onore di presentarmi a quel grand'uomo; ed egli sopportò pazientemente che io gli esprimessi la mia ammirazione. Egli era fiero, ma cortese. Si capiva che era stanco delle forme che la sua gloria aveva prese in quelle due ore che è stato fra noi. Io facevo come li altri. Gli facevo delle domande assurde: ma egli si degnava di rispondere. In un certo momento, mi arrischiai a dire: 'Vi accade qualche volta di soffrire?'. Egli alzò un poco la fronte, esaminandomi, come Guglielmo Tell esaminò, senza dubbio sulla testa di suo figlio, la mela ch'egli era sicuro di colpire; poi pronunziò con lentezza, affinché le sue parole avessero il tempo d'arrivare fino alla mia comprensione: 'Sì,... ma appena io soffro, mi metto a cercare la forma perfetta con la quale mi esprimerei, e ne attenuo così l'acutezza' ".

            Brava signora T. benemerita di questa nota!



ii          Vincenzo Morello è il giornalista nato fatto per lasciarsi menar la mano e la rispettiva penna dalle intenzioni d'annunziane. Se ne accorge Luigi Ambrosini, con me, quando, recensendo il volume di quello con I commentari di D'Annunzio, un suo articolo apparso nel Secolo del 19 Giugno 1910, nota:

            "Vedetelo – nel libro morelliano – come si prepara il giovanetto D'Annunzio, come si affina, come si educa e si ricerca. Questo ragazzo dai capelli biondi, dalle pupille maravigliosamente pure, come quelle di una vergine fanciulla, esce di casa, lascia sul tavolino della stanza i volumi aperti di Orazio e di Maupassant sui quali ha gustato il valore delle parole, la musica dei periodi, lavorando come un artiere a ridurre una odicina latina od una pagina francese, in un componimento italiano".

            E va pei campi, per conoscerli, per ritrarli; ma quando ne vuol dare i disegni, le imagini, quanto egli sente di loro, torna a ripetere le imagini, i sentimenti, le parole di Orazio e di Maupassant. Questo ci porge davanti il Morello, che per essere troppo ubbidiente in seguire la mano del suo autore, lo pregiudica con troppo zelo, ricopiando da un taccuino del poeta del 1881-82, documenti interessanti: ché da quelle pagine sorge un insegnamento preciso e solido, l'indicazione del carattere d'annunziano, che non potrà mai essere sofisticato e mentito, che sarà pur sempre quello del bugiardo eroico, del bluffista tragico ed enorme. "E per questo", ripete l'Ambrosini, "che il libro di V. Morello è non solo da leggersi con curiosità, ma da meditarsi con attenzione, ed è, senz'altro, un documento di non poca importanza per un critico serio". – Utile anche per conoscere quello, che, fin da allora nell'animo e nella mente del D'Annunzio poco più che ragazzo, non era del tutto sincero, ma già artifiziato, voluto, non profondamente sentito. Il Morello riproduce una lettera di lui, scritta al maestro del collegio di Prato: "La mia prima missione su questa terra è d'insegnare al popolo ad amare il proprio paese e ad essere onesti cittadini". Oggi, c'è di che ridere, ma ridere, ridere! La grossa parola: missione! sotto la penna d'annunziana. Amare il proprio paese? Onesti cittadini? Ma chi ha la missione di insegnare al popolo tutto questo, vive, senz'altro, secondo quest'obbligo morale. Vi è mai qualcuno che possa sospettare, per un momento solo, la possibilità, direi,... metafisica di confondere con Giuseppe Mazzini... Gabriele D'Annunzio; Cristo col Barabba?



iii    Leggimi questa al padre, 25 aprile, 1875: "A quest'ora avrete già lette le mie cinque lettere, scritte in cinque lingue diverse e mi avrete benedetto!" – Che provinciali! in cinque lingue diverse! Pensate; un pescarese, che scrive, a Pescara al proprio padre pescarese: ti ho scritto cinque lettere in cinque lingue diverse! Ma altro che benedirla questa perla di figliuolo. Se questo figliuolo sarà poi Gabriele D'Annunzio possederà egli cinque mezzi acconci e differenti per conoscere il pensiero delli altri e per farsene padrone.



iv          "Anche il d'Annunzio cominciò a lavorare, come gli altri, lietamente, per poche lire, o per una scatola di bonbons, che Angelo Sommaruga sapeva a proposito fargli trovare nella modesta scrivania della modestissima stanza mobigliata, nido di tanti sogni e di tanto avvenire" – pag. 35-36 – Dei bonbons, come ad una cocotte: ma diventerà tra poco un perversosorridi! – "Ma di a poco Gabriele, che tendeva a épater le bourgeois, avrebbe chiesto un gelato di limone con sopra una porzione di caviale!" – pag. 34 – Rassicuratevi; anche questa bizzarria è provincialissima. Più tosto, incominciava a far dei versi, esattissimi poi. E, se è lecito comparare le cose massime alle minime, sarebbe da mettere a paro al favoleggiato Guido Piaccianteo del Pappafico che interessò perfino l'ottava bernesca dell'Atlantide del Rapisardi. Ignorate? Ve le rammento:

            "Ve', ve', quel beccherel che trotta e ruzza
Col roseo sederin fuor dei calzoni?
Lallino egli è, che ancor di latte puzza
E il reuzzo è dei vati e dei mignoni.
Oh, come il poverino il muso aguzza
Per la fatica sua di due ragioni;
Oh, come ei sa con arte aristocratica
Stuzzicar chi lo legge e chi lo pratica!
Quel piccinin dalla capocchia bionda
Come un chicco di grano o di panico,
Che, per darsi aria, le cigliuzza aggronda,
È Guido Piaccianteo del Pappafico.
[...]
Videlo Barbagallo un bel mattino,
E tal pietà non consueta n'ebbe,
Che, tra le falde sue, come un canino,
A bocconcini e a briciole sel crebbe;
Ma, visto che riman sempre piccino,
Svezzarlo tuttavia non lo vorrebbe,
E a rinforzare in lui l'indole fiacca
A un capezzolo suo spesso l'attacca.
Così nutrito, la testina scema
Beccasi Piaccianteo sopra la carta,
E suda e gela e ponza e col sistema
Metrico decimale i versi squarta;
[E con tal cura ed appuntezza estrema]
Distici addoppia e strofe alcaiche inquarta
Che in conto di prodigio ha da tenersi
Che un tal babbeo facciagiusti versi.

            Ricorriamo, dunque, subito al: Saluto al Maestro, pag. 302 di Laus Vitae: cantiamo:

            Enotrio, in memoria dell'ora
santa che versò d'improvviso
il fuoco pugnace de' tuoi
spirti su la mia puerizia
imbelle, alle tue prime cune
io peregrinai santamente".

            Udito? Ho io dunque torto di sentirmi rimar dentro, insospettatamente, automaticamente, Guido Piaccianteo, Barbagallo, con quest'altri nobili poeti? Ah, Rapisardi burlone, che ci ha lasciato tanto da compiere, per lui, le sue più giuste vendette postume!



v           Ditemi un poco; che effetto vi fanno questi due nomi, ed oggi queste due personalità, che si sorreggono a vicenda sulle colonne della sbarazzina Farfalla, non più sommarughiana, ma quel che è peggio, di Enrico Bignami, il primo giornalista socialista italiano con La Plebe, pavese? Vi sono dei casi fortuiti, maravigliosi, che illuminano più di qualsiasi ragionamento filosofico la storia anche contemporanea: bisogna ripetere ancora come un binomio, se lo possiamo, D'Annunzio-Turati! Che razza di suoni anche prosodici n'escono! Ché allora il Turati era poeta, tanto per farsi la mano ed i piedi all'Inno dei Lavoratori; "Filippo Turati, elegante figurina, allora studente di leggi, ma coi nervi in convulsione, onde gli avevano i medici imposta una cura ricostituente ed idroterapica, sicché egli cantava:

            Io credo nell'arrosto onnipotente

            A larga maritato onda di Chianti,

            Nel crudo schiaffo della doccia algente,

            La grande amica degli spirti affranti".

            Venite a leggere i Vent'anni di Giornalismo del Giarelli; farete ad ogni pagina scoperte.



vi          Pag. 252-253-254. Gabriele D'Anunzio e la sua fama – Una passioncella – La duchessina e il prefetto CorteInvitato a nozze. Cap. XXVIJ.

            "Fra i collaboratori più giovani e valenti del Sommaruga fu Gabriele D'Annunzio, il quale avrebbe poggiato certamente ai più erti culmini dell'arte e della fama, se non si fosse lasciato trar fuori di careggiata dagli elogi sperticati di una critica incosciente e solo intesa a scopo di réclame. Di lui, come di qualche suo giovane amico, si può ripetere coll'Alighieri:

            La fama di costoro è color d'erba,

            E viene e va e quei la discolora

            Che fuor la trasse dalla terra acerba.

            Cionullameno il cachet d'originalità, che portava il suo ingegno, la fresca ispirazione dei suoi versi amorosi e sonanti, l'estrema giovinezza, l'aspetto gentile, l'ingenuità sua lo resero presto ben accetto non solo nella consueta società mezzana, ma benanco in quelle più elevate sfere ove le arti, come le passioni si affinano e si confondono colle necessità della vita quotidiana.

            Una giovinetta d'altissimo lignaggio fu presa di lui; sprezzando i pregiudizii di casta, calpestando tutti gli ostacoli sollevati dalle convenienze, volle diventare sua moglie, e per riuscire nell'intento non esitò a sottrarsi dal tetto paterno e a recarsi col suo piccolo poeta a Firenze.

            Il loro arrivo era già stato annunziato al prefetto Corte da un dispaccio, col quale lo si pregava di troncare la romantica fuga, e di rimandare a Roma le due tortore, tubanti il loro primo idillio amoroso, pur trattandole coi maggiori riguardi. Non pria scesero dal vagone, Gabriele e la signorina videro venirsi incontro un gentiluomo, dai modi squisitamente gentili, e dalla persona maestosamente bella, il quale, volgendosi alla vezzosa, quanto nobile donzella, le disse:

            – Duchessina, forse giungo in mal punto per lei, ma non per la missione di cui sono incaricato.

            La duchessina s'inchinò sorridendo e altrettanto fece, sebbene un po' più impacciato, il suo damo.

            – Manco sospetto che vi sia in loro la più piccola intenzione di sottrarsi al fato, che, nella mia qualità di prefetto di Firenze, in questo momento, sono incaricato di rappresentare.

            Nuovo inchino dei due.

            – La signora duchessina dovrà ritornare a Roma, il signor Gabriele può disporre liberamente di sé.

            – Contro il fato non convien dar di cozzomormorò il D'Annunzio, che temeva di peggio. – E fece un terzo inchino. – Generaledisse la duchessina, col piglio più lusinghiero e più sciolto che idear si possa – spero vorrà farci l'onore di assistere ai nostri sponsali.

            E sempre sorridendo, accettò il braccio, che il prefetto Corte le offeriva.

            Questo fatto risaputosi a Roma diede luogo ad un'infinità di commenti. La Cronaca scandalosa vi trovò pascolo abbondante. I maligni esercitarono la loro fantasia nel fabbricarvi frangie e fronzoli.

            La stampa se ne impossessò, e con quel tatto squisito, che in Italia la distingue, ne fece fuori un pettegolezzo ignobile e grossolano, quantunque l'incidente avesse avuto quella soluzione unica che doveva avere, cioè il matrimonio della coppia".



vii       Riviste e giornali Corriere della Sera, 27 Gennaio 1912. "Passa buona parte dell'anno a Roma un ricco svedese, il barone De Platen, il quale, in società ed alle premières, porta sempre seco un albo-calendario, composto di tanti fogli di carta elegantissimi quanti sono i giorni dell'anno, pregando tutte le persone più cospicue nei vari campi a voler segnare, , il proprio nome coll'anno di nascita, nella pagina dell'almanacco che corrisponde al proprio compleanno. – Mi permetteràsoggiunge graziosamente – di rinnovarle ogni anno gli auguri per la sua festa. Ha fatto così una curiosa raccolta, cui rilievo il fatto che parecchi sono quelli che hanno voluto sottacere l'anno di nascita". E chi mente affatto? Voi vi leggete: "Gabriele D'Annunzio 7 Giugno 1867". Quale felicità!



viii        Per avere almeno una illusione di certezza sulla vexata quaestio, leggiamo la Rivista di Roma del 10 Dicembre 1907, in Cronaca di Letteratura, pag. 757. "Esisteva in Pescara una famiglia Rapagnetta composta di molti figli uno dei quali, a nome Francesco, fu legittimato da un signor D'Annunzio anche di Pescara, da cui ebbe il cognome. Francesco fu padre di cinque figli: Gabriele – il poetaAntonio – il fratello ora esule in America ove fa il direttore di orchestra ed al quale è dedicata la Figlia di Jorio – e tre sorelle ('...feconde di figli com'io sono fecondo di libri' lo disse Gabriele al suo amico Giosuè Borsi). Il padre del poeta morì in Pescara il 5 Giugno 1893". – Tanto per il Rapagnetta. Ma per la data esatta di nascita? Ecco:

            "Municipio di Pescara

            Ufficio di Stato Civile

            Estratto dal registro dei nati per l'anno 1863.

            N. 28

            D'Annunzio Gabriele.

            L'anno milleottocentosessantatre il tredici di marzo, alle ore sedici, avanti di Noi Silla De Marinis, Sindaco ed Uffiziale dello Stato Civile di Pescara, Provincia di Abruzzo Citra, è comparso don Camillo Rapagnetta, figlio del fu Carlo Vincenzo, di anni sessantotto, di professione proprietario, domiciliato in Pescara, [il] quale ci ha presentato un maschio, secondo che abbiam[o] ocularinente riconosciuto, ed ha dichiarato che lo stesso è nato da donna Luisa De Benedictis, di anni venticinque, domiciliata in Pescara, e da don Francescopaolo D'Annunzio, di anni venticinque, di professione proprietario, domiciliato in Pescara, nel giorno dodici del suddetto mese, alle ore otto, nella casa di abitazione della puerpera. Lo stesso inoltre ha dichiarato di dare al fanciullo il nome di Gabriele. La presentazione e dichiarazione anzidetta si è fatta alla presenza di don Vincenzo Solari, di anni trentasette, di professione civile, regnicolo domiciliato [in Pescara, e di Emidio Isidoro, di anni venticinque, di professione commerciante, regnicolo domiciliato] pure in Pescara; testimoni intervenuti al presente atto e da esso signor don Camillo Rapagnetta prodotti. Il presente atto è stato letto al dichiarante ed ai testimoni, ed indi si è firmato da noi, dal dichiarante e dai testimoni. – Camillo RapagnettaVincenzo Solari, teste; Emidio Isidoro, teste; – Il Sindaco Silla De Marinis. – Il Segretario, A. Brunetti (l.s.) – Il parroco di San Cetteo ci ha restituito nel quattordici di marzo anno corrente il notamento che gli abbiamo rimesso nel tredici marzo anno suddetto, in pie' del quale ha indicato che il Sacramento del Battesimo è stato amministrato a Gabriele D'Annunzio nel giorno tredici marzo, del quale si è accusato ricezione. – L'Uffiziale dello Stato Civile: De Marinis, SindacoBrunetti, Segretario".

            "Pescara, li ventiquattro gennaio milleottocentottantaquattro. Il controscritto D'Annunzio Gabriele si è unito in matrimonio con Maria Hardouin, giusta atto ricevuto dall'Uffiziale dello Stato Civile del Comune di Roma addì ventotto luglio milleottocentottantatre. – L'Uffiziale dello Stato Civile. T. D'Annunzio.

            Si certifica che la presente copia è conforme all'originale.

            Pescara, 1, dicembre 1906.

            L'Uffiziale di Stato Civile A. Farace".

            Dunque niente poetica nascita in mezzo al mare, niente 7 Giugno 1867, né tanto meno... 1864, come il Croce stampò nello studio sul Pescarese nella Critica, copiando l'errore (sarà errore?) dai correnti dizionarii biografici: niente 39 anni nel 1906, e, cioè, 45, nel 1912. Con tutto ciò l'ultima data è l'esatta? Mi ghigna al fianco F.T. Marinetti: "Desolé de vous dire, mon ami, que je connais au moins vingt-cinq de ces actes de naissance, tous différents l'un de l'autre et également apocryphes... ". Ma il Marinetti esagera!

            Se non che è divertente aggiungere al documento l'aneddoto e la leggenda passati in sui diarii delle commemorazioni e delli anniversari:

            "Quando, cinquant'anni or sono, nacque a Pescara Gabriele d'Annunzio, suo padre, il comm. Francesco D'Annunzio, era sindaco di Pescara. Erano in famiglia il nonno paterno, don Antonio, uomo di mare che col traffico di merci dall'una all'altra sponda dell'Adriatico aveva edificata una buona fortuna; e il nonno materno, don Filippo De Benedictis di Ortona. Don Filippo, quando la levatrice fasciò per la prima volta il neonato volle mettere un suo regalo fra le fasce del bimbo e vi mise quattrocento lire in piastre d'argento... Così Gabriele d'Annunzio entrava nella vita con una buona corazza di scudi. Don Antonio aveva un trabaccolo preferito Lu Gabriele che caricava le spezie della Dalmazia. Gabriele era il nome di un fratello di don Antonio, uomo di mare anch'esso e morto appunto in mare, al lavoro. Don Antonio volle imporre il nome di Gabriele al neonato. Il giorno di San Gabriele era prossimo, il 18 di marzo. E in quel giorno il neonato venne tenuto a battesimo".

            Sì aurogeneta, porfirogenita in tutto: anche la mamma di bellissimo nome ed auguranteAngeladeasoccorseauspice al parto ed alla vita avvenire.

            "Angeladea, raccolse in grembo il bambino che aprì immediatamente gli occhi e fece subito udire la sua voce. Nasceva il sole dal mare Adriatico. Quando donna Rosalba (zia del neonato) corse al fratello e gli gridò vittoriosamente: 'Con salute e figlio maschio!' gli occhi del padre sfavillarono di gioia. Il bambino nacque ben nutrito, sanissimo, col cranio ben formato, ma senza capelli. Angeladea dovette obbedire a don Ciccillo, avvolgere il bimbo in pannilini senza fasce, senza strettoie di sorta; lo lavò per bene, gli pose la cuffietta di seta bianca e lo portò al bacio materno secondo l'antica, sacra costumanza abruzzese. La madre lo baciò e disse queste memorande parole: 'Figlio mio, sei nato di marzo e di venerdì; chi sa che grande cosa tu dovrai essere al mondo!'. Otto giorni dopo, nella carrozza di casa, la levatrice, accompagnata dalla madrina donna Rachele Bucci, portò il bambino al fonte battesimale nella chiesa di San Cetteo. Non ci fu padrino; e la madrina donna Rachele restò notevole per la singolarità del dono: regalò al comparuccio un ricco paio di orecchini di brillanti; né si seppe mai il perché di questo dono muliebre. Gabriele fu nutrito col solo latte materno; e donna Luisetta, gentile e delicata, non mostrò nessun deperimento per l'allattamento della prole".



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