Gian Pietro Lucini
D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo

D'Annunzio e l'Humorismo (Sintesi)

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D'Annunzio e l'Humorismo
(Sintesi)

Vi è una serietà accessibile a tutti; però a ben pochi è riserbata quella dell'humorismo (Laune): in quanto che essa richieda unitamente allo spirito poetico, una mente educata alla libertà ed alla filosofia, e quindi, in luogo dell'arido gusto, la più sublime considerazione del mondo.

Gian Paolo Richter

Ma, ora, per quanto, come vedeste, siano rimaste infruttuose tutte le nostre cure alla ricerca di quelle prerogative, per cui si stabilisce la genialità di uno scrittore e dalle quali si afferma l'onestà originale di un autore, non persuasi ancora dell'esito negativo, interroghiamo un'altra volta il carattere estetico d'annunziano, sottoponendolo ad un'altra riprova. Sia nostra pietra di paragone sensibilissima e squisita, sulla quale ogni letteratura stinge parte del suo metallo, perché se ne riconosca il titolo, l'humor: pietra nera e quanto mai simpatica, che impregna la sua superficie della materia di cui si vuol saggiare, offrendola al reagente dell'acido caustico, questa volta la critica, che ne darà il giudizio. Voi avete dunque davanti, in azione, due strumenti: l'opera, che è poi la vita di Gabriele D'Annunzio e l'humorismo; dovete accingervi ad una funzione di rapporto, segnare la preziosità di quella, al contatto di questo.

Vi risparmio i processi mecanici di gabinetto intimo, che vi sarebbero noiosi e che in fondo ripeterebbero il metodo ed il risultato che prima vi esposi ed alla scoperta del quale presenziaste tutti: profanamente, come direbbe un antico ateniese. Intanto, confricai, l'uno dopo l'altro, libri e libri in sequenza d'annunziana, insistetti col Piacere, col Trionfo della Morte, con Le Vergini delle Roccieix, con La Città Morta, con Il Fuoco e via e via. Al tirar della somma, una leggiera sbavatura di metallo apparì alla strofinatura di quella famosa lettera Ai Catoncelli stercorari, dove l'ingiuria poteva anche accettarsi per ironia; ma è da tutti saputo che, ancora, tra ironia ed humorismo, vi è differenza di qualità e quantità.

Comunque, al caso pratico, noi avevamo operato per via di antitesi; di quella antitesix, che fu già per Carlo Cattaneo metodo di psicologia sociale, per me di estetica, secondo il quale uno o più individui, nello sforzarsi a negare un'idea, vengono a percepire un'idea nuova; però che spesso la catena delle antitesi è una serie di analisi parziali, per cui le parti della analisi comune, dividendosi, aspirano a conquistare d'un abbraccio l'intero circolo della sintesi universale, o, almeno, la soluzione di un medesimo problema. All'aspetto generale e completo, importò la conoscenza del fenomeno D'Annunzio a riprova:

I) come individuo, od humorista, negativo:

II) come espression d'arte falsa ed adulterata.

Vediamo. Carlyle mi disse, ed io gli credo senz'altro sulla parola, che non vi ha grande e geniale letterato, poeta, insomma, senza rinvenire nell'opera sua quel lievito eterno ed inesauribile di giovanezza e di commozione che chiamasi: humorismo. Per intanto, a questa pietra di paragone abbiamo saggiato l'opera d'annunziana e non ve ne scoprimmo traccia: ma, voi non ne sareste persuasi se partitamente non vi rendessimo partecipi e delle operazioni particolari e de' loro successivi risultati: non spaventatevi; non trattasi di analizzare sotto questo punto di vista speciale venti e più volumi; ma più tosto di rivelarvi il carattere negativo dell'autore e dell'opera sua in questo campo, di attestarvi che lo scrittore D'Annunzio esiste, ma non esiste il grande poeta che vogliono li altri magnificare. L'humorista è un passeggiatore solitario: è un genere a sé, non ha bisogno di seguito; non chiede dalla folla Seidxi o Gianizzeri; non desidera scuola né far proseliti, né essere per molti responsabile. Egli è un perfetto filosofoxii che vive la filosofia coll'arte emanata da sé; sa quindi qual conto mai far de' proprii così detti simili; non si avventura in loro compagnia, se non premunito o corazzato di aculei e di punte come un istrice e disinfettato con ogni regola dell'antisepsi per non contagiarsi al loro contatto. E però, venne a congedare i plurimi Seid, che sono infusorii pericolosissimi e patogeni di una vera malattia psichica di depressione e di mancanza di volontà; per cui ci si fa ad ostentare false grandezze ed ipocrite virtù, e ci inoculano il virus del capo scuola, del maestro; nomi che hanno in loro sempre un elemento apocrifo di ciurmeria e di ciarlatanesimo.

In vero, non abbisognava, nell'organismo d'annunziano, nato colla predestinazione atavica alli uffici del baladin. È insorto alla sua prima aurora, con grande strepito di tamburi e di trombette da piazza, cavadenti di letteratura: bestemiò, nei giorni dell'accidia e della turbolenza brigantesca l'Energheja; ma preferì, come mi raccontava Carlo Dossi – che in abito di Alberto Pisani e di ministro d'Italia ospitavalo in Atenepreferì i più sicuri fianchi dei piroscafi all'agile schifo del Boggiani. Però quegli ha costruito, nell'imaginario suo viaggio in yacht, molti versi delle Laudi; favoleggiò sulle serenità del mare, sulle sue furie, sullo sciacquio della scia, sullo sbandar della randa, l'inalberarsi della prora, lo sbatter delle vele, il gemere del sartiame, le treccie delle gomene, il vagellar frascheggiando della fiamma, lo stridere rauco delle zagole, lo sporger de' paranchi, la danza del papafico, la nomenclatura de' terzaruoli, il gonfiarsi delle gabbie, il serico lacerar l'onde del tagliamare, la rigidità de' pennoni e di tutto il resto...: però che al maggior albero friniva, come una locusta giallo-bruna, la cicala sacra ai geronti, essendo che la navicella era drizzata verso il Pireo e portava la poesia italiana nell'omarino Abruzzese;... che toccò porto avanti il Boggiani vi arrivasse col suo legnetto troppo leggiero e fragile, ma coraggioso alla corrente ed ai marosi dell'omerico mare.

Tal quale questo viaggio il nostro poeta ricanta il resto delle avventure ideali. Gli servono a pretesto per collocarsi di fronte, per la ciurma de' partiti, o di profilo, o di scorcio, o di sbieco, o deretanamente, secondo a ciascuno di quelli piace: presentasi a blandire i sogni di pigrizia o di ferocia, sa metterli tra la tema e la speranza, la grazia, il rifiuto, l'ammirazione, lo sprezzo: li obbliga a rivolgersi sempre a lui, e con quale barbara fatica, e con quale costante menzognaxiii, nella vita, nella letteratura. Pare che ciascuno sia abbacinato in costui: questi pretende che, senza la sua cooperazione, nulla si possa effettuare in patria: egli è l'uomo grande, indispensabile, unico: ed il popolaccio gocciolone gli batte sotto le mani rappresentativamente. – Quale e quanta deplorata mancanza di dignità nelli uni e nell'altro! Sì; l'humorista può accostarsi allo spettacolo perché è di sua competenza l'osservare le ridicole disonestà, lo sfoggio delle quali avvalora la sua dignitosa probità e lo fanno maggiore: ma l'humorista non vi si presenta attore patico od attivo; sdegna di dire che questa sorta di vita è anche il massimo vivere, il miglior poema. – Batte l'altro il gong; dipinge in rosso ed oro le cifre della leggenda da Tartarin per il seidismo di ogni esagerazione: "Poetare la vita!". Al punto, il vero artista schiatta dalle risa; addita al suo fedele e provato amico la schiera delli auguri versipelli, versicolori, plurinominati; i quali, quanto più strologano e rumoreggiano, tanto meno sono degni di fede. Questa sì è bella e divertente fiera di sciocchezza, in cui si convitano li uomini sinceri e sereni; codesto è il mirabile spunto ironico e piacevolissimo che li avvenimenti ci regalano.

L'humorista è, nella vita sentimentale, l'uomo semplice di buona accoglienza; lo trovate migliore di quanto non appaja nella sua opera, perché, in questa, ama mostrare alquanto della sua naturale malizia, per premunirsi la debolezza affettuosa dalli inganni altrui. Tutto, nell'humorista, traspare lucidamente, senza sotterfugi, senza imbellettature che rendono opaco il volto ed il carattere; egli non posa: va lungi dalli spettacoli artificiali o li frequenta per amor di studio, per scoprire, nella folla, il dolore, nel greggie, l'eroe, per amare di più; dirige ed assomma, dalli spettacoli della natura, la sinfonia universale della orchestra libera e della simpatia, le dissonanze delle avversioni; le tonalizza alle sue personali facoltà, ne è l'interprete più prezioso e più esatto.

Un D'Annunzio, preso in categoria, accettato come esponente di una deformazione letteraria, incomincia ad ingannarsi: "Fa la vita come un'opera d'arte"; perché il suo intendimento su l'arte non è quello per cui l'arte vive; indi sbraita: "È necessario viaggiare, non vivere". E la sua logica – se può mai parlarsi di logica con lui – capovolge –; perché, anche la più plateale delle saggezze antiche ci vuol confortare a: "Prima, vivere, quindi, filosofare".

In queste trasposizioni di perversità, che forse non accorge, o se accorge esercita per jattanza e per stranire come un secentista, coll'atto, la sciocchezza contemporanea, cioè il suo pubblico; – in queste deviazioni del buon senso, egli crede di recitare la maschera o tragica, o erotica, od ascetica della sua letteratura: crede il poeta abruzzese d'essere insieme un qualche cosa di sontuoso, di stravagante, di fatidico, un acuto prosettore di sentimenti e di passioni, sdrajate sulle bianchissime e marmoree tavole della psicologia sperimentale, della necroscopia e della vivisezione; intorno alle quali egli pontifichi la scienza nuova tra il cabalistico, l'officiante liturgico e l'anatomico, tra il professore, l'artista e l'occultista. Egli fa vedere di voler essere tutto questo, dalla posa, dalla intonazione, dalla voce, dal modo di vestire, ma non riesce che a farsi accorgere, pressapoco, così. La sua ambizione d'artista gli ha fatto gomitare e strofinare, vicino a questa meta, la persona; fors'anche vi si abbatté contro; la furia della corsa, – è necessario navigare, non vivere –, lo fece scivolare oltre il segno, fuori di pista, dove non vi è classifica, né di partenza, né di arrivo. Perché più che attendere al capolavoro, coi mezzi vecchi e nuovi di cui dispone un poeta, egli intendeva definire e ripolire a perfezione l'opera d'arte – sé stesso; ciò che è molto più difficile; essendo che la natura stessa si incarica di questa statua animata e magnifica, e, quando la si contraria, come usa fare il D'Annunzio, non solo non ci si perfeziona, ma si sciupano quelle diritte virtù native di cui ci aveva donato, non per scialaquarle o per lasciarle poltrire, ma per usarne a migliore e maggior profitto nostro e d'altrui.

Il poeta delle Laudi può far galleria, ritto sui coturni de' tarsi speronati, Chantecler, sfidando tutti i rimproveri, perché il suo bovarysmo pretende di mostrarlo per quello che vorrebbe essere letterariamente, un quid extra, fuori concorso, fuori del mondo, oltre il ragionamento, nel limbo della intuizione: prigioniero di questo errore di massima del suo orgoglioxiv, attestò sempre e continua ad autenticare, più che l'arte sua colla sua vita, la sua leggenda di perversità, di dissipazione, d'indifferenza superba, di crudele dilettantismo; leggenda che si inostricò sopra la realtà, che l'avvolse di calcare madreperlaceo, e, lucendo, soffocò dentro l'umile e sano mollusco, forse non rispondente in tutto all'imperialismo estetico d'annunziano, ma più utile ed onesto produttore. E codesta trasformazione, o meglio inversione, a cui riuscì, gli impose la necessità di ripetere, nella vita e nell'arte, – perché l'imaginazione umana ha pur un limite, anche per foggiarsi gli hors nature, le eccezionali creature di lussuria e d'isterismo, di inutile egoismo e di incesto – la fanfarona parata del vizioxv; tanto più vizio, in quanto lustra multicolore d'esso, in quanto ancora insincerita.

Se a questo avessero badato i maldestri suoi ammiratori, che cercano di inalzarlo a rappresentante dell'anima poetica di una razza e di un'epoca; se avessero saputo discernere subito quale era la lode ed il successo, cui l'abruzzese desiderava meglio di ogni altro; se avessero inteso il suo coraggio esagerato pel reclamismo e la sua necessità di lavorare per sostenersi, a definirlo non avrebbero scomodato la storia e Dante, la Rinascenza, la psicologia e l'erudizione. Nel ritmo della letteratura italiana, due volte ci imbattemmo in tipi di quasi uguale timbro, ma di valore maggiore: nel divino Aretino, grandissimo per il cinismo e ripieno di quel humorismo cui nego a D'Annunzio, ma che insegnò anche a Carlo Dossi per La Desinenza in A – nel Cavalier Marino. Se oggi, poi, noi ci chiniamo ad osservare il flusso ed il riflusso della letteratura francese – vi si affaccia – e forse sono io il primo che ne cita il nomeJean Lorrain, di cui l'angoscia della lunga agonia riscattò lo snobismo: Jean Lorrain che ha nome più grande del necessario nel Tout-cabot-cosmopolis-littéraire-snobisme – più piccolo del vero, in arte. Quando anche li altri cominceranno a veder bene nel caso D'Annunzio, lasceranno da parte le comparazioni con Eschilo e Shakespeare, con Tolstoi e Dostojewsky, con Dante e Carducci, ché i termini dovranno essere, molto ma molto più rimpiccioliti, riducendosi alla piccola statura caprina e faunesca del tondeggiante e cinquantenne jeune poëte italien, come lo chiamano ad Arcachon: qui, non siamo di fronte ad una divinità, ma ad un gri-gri, a cui l'ignoranza, li interessi plurimi, la malizia, l'orrore alla fatica intellettuale conferirono prerogative e virtù inesistenti, efficacia e scongiuri da porta-fortuna e da mascottexvi. Né, per quanto le occasioni fossero mancate fin qui per dimostrarne li errori, le deficenze e le menzogne; troppo insiste una specie di massoneria di mutuo soccorso intorno a lui, perché, col cessarne il traffico, la verità si scopra così com'è argutamente deforme: l'umile e rozzo ed onesto mollusco dalla piccola chiocciola, dal piccolo ufficio, dalla letteratura regionale e naturalista di Abruzzi, di San Pantaleone e delle Novelle della Pescara, di Terra Vergine, di Canto Novo: e non di più in .

L'humorista è l'uomo lietamente infelice: può chiedersi in ogni momento: "S'io fossi felice sarei più lieto?". E rispondere: "No". Si accontenta del poco? Mai più: egli possiede il massimo; si conosce benissimo e dietro a questa coscienza persuasa di sé stesso giudica li altri: sofre dunque nello stesso momento in cui ha ragione di provarsi la propria superiorità.

D'Annunzio non è un infelice; non riflette sopra sé stesso l'anima collettiva; non può giudicare, perché, nello spirito della folla, ha smarrita la sua, conglobatovisi. In che è egli superiore de' suoi ammiratori? Li ammiratori, storditi dalla sua musica, per cui non possono afferrare ciò che dicono le parole, non lo sorpassano di un pelo: donde ci accorgiamo che a lui mancò la grazia dolorosa di aver soferto più di loro, sì che non ha saputo raffinarsi, nell'angoscia morale, il carattere. Soferenze, le piccole contrarietà della vita? L'appetire ed il comperare quanto le facoltà non permettono? quindi far debiti ed il non poterli pagare? La vendita della Capponcina? Li scandali donneschi? Le liti giudiziarie? – Ma un qualunque disonesto commerciante, od impiegato, può imbattersi in queste disavventure. Il dolore del poeta è un dolore universale come la sua gioja: eccovi Dante e Foscolo a proposito, Lessing e Verlaine, Byron e Rimbaud, Leopardi ed Alfred de Vigny: tanti tipi massimi, tanti massimi dolori che clamarono la propria passione necessaria per loro e per li uomini, che ne sanno comprendere la purificata, angosciosa bellezza.

"Pur troppo l'uomo di genio", ci avvisa Heine, un altro grande mordace e sorridente infelice "tolta di mezzo anche l'altrui malvagità, racchiude in sé il più duro persecutore di sé stesso; ed ecco perché la storia delli uomini grandi è un vero martirologio". Pensate! non poter accordare il proprio altissimo pensiero a quello pigmeo di tutti! Non concordare colla folla, che, pel numero grettissimo, è pur la despoina di tutto, anche della madia del pane? Quando si è in queste circostanze – di non poter essere utili, o di repugnare a divertirediventa logicamente divina anche la morte per fame.

Ma D'Annunzio è scioperato perché scialaquò; ma a lui venne d'ogni parte fortuna, sotto veste di amanti, di ammiratrici, di impresarii, di editori, di folla in palchi, in platea, in piccionaja, cosmopolita: egli ha sempre vissuto più che riccamente anche in miseria; a farlo simpatico gli mancò la grande passione, a non dargli torto la sua sfacciataggine. Vorreste forse farmi comprendere che quelli altri disgusti, gonfiati dalla réclame perché gli rendessero meglio, si possano chiamare: Il Martirologio di G. D'Annunzio? Non basterebbe l'altro del S. Sebastiano?

Può dirsi di lui, per continuare la citazione dell'Heine, come per Lessing: "Mirabile, che, essendo egli in Germania l'uomo più arguto, vi fosse anche il più onesto? xvii Mai non avrebbe transatto colla menzogna qualunque potesse, coll'osarla, come i sapienti dozzinali, agevolare il trionfo della verità. Chi mai badasse, disse un Lessing, ad apportare all'uomo una verità sotto qualsiasi maschera o simulacro potrà ben dirsi di quella il ruffiano non già il vero amante". Ma voi già sapete che D'Annunzio è il tipo del mentitore eroico e che per null'altra ragione io gli muovo contro.

Per forza deve mentire: non è in possesso dei mezzi per cui si raggiunge il vero; non ne detiene l'istrumento razionale e logico, perché è bestemia affermare che la verità non esista, ma è pur tragicamente doloroso, che, col cercarla la si trovi. A che dunque sofrire? Il genio è obbligato alla soferenza, perché non può viver se non cercando la verità: D'Annunzio non trova ciò necessario. La Verità? Nel pozzo, nuda: non deve risorgere terribilmente formidabile per chi la riscopre e per li altri. L'Abruzzese non sa concepire la missione di essere sincero, cioè di vivere bene almeno coll'arte: a che gli gioverebbe? Ma, sopra tutto, sarebbe egli capace di vivere come il genio? Egli non è dunque preso dall'Idea, ma dalla sensualità plastica, formale: egli può dirsi d'essere schiavo della maestria e della formalità. Non può chiamarsi né il rappresentante di un'epoca, né di una razza: l'epoca e la razza hanno procreato intelligenze superiori alla sua, plasmati avvenimenti ch'egli non ha saputo comprendere: la parte più bella del nostro tempo, che è il suo, gli è sfuggita, le pagine più belle e nobili non lette, i sentimenti più cari e più generosi sconosciuti; il coraggio civile del sacrificio ignoto. Che riassume? Il fremere del senso, della cupidigia, della vanagloria; il farneticare del successo immeritato? – Egli potrà far scuola voluttuaria di apparati, non leggerà lezioni in Ateneo, ma darà norme da bottega; egli è orbo d'ogni filosofia e d'ogni amore, perché le sue comode facilità disprezzarono ogni messianismo e risero le sue labra in faccia all'umile ed ispirato pastore Amos, quando si mise a predire dietro la voce: "Or vanne e fammi da profeta!"

D'Annunzio può presumere questo ed altro; può credere che il Gran Pan gli abbia commesso lo spirito e l'organo di manifestarlo alla modernità. Ma che dire, dopo che li altri avevano tutto scoperto? A che pro' vestirsi di battaglia per conquiste già assodate? È questo D'Annunzio il gladiatore forzato a combattere od a perire? Per chi? Per quale cosa? Per quale libertà? Per la sua licenza? Di quali idee foriero? A ricercare, tra le femine ed i maschi, il mecenate che assoldi per singolare e solitaria dilettazione, oggi, che né meno il popolo può sovvenire all'arte; non perché non possa più comprenderla, ma perché tutti li istrioni lo hanno accaparrato, rendendo più folta e più negra la sua ignoranza? Egli ha fatto divorzio tra l'essere ed il parere, tra l'idea ed il fatto; ha contravvenuto alle leggi biologiche della vita e dell'arte; ha separate e capovolte le norme, credendo che testa potesse servire al posto de' piedi e viceversa. Con ciò sperava di far nuovo, in ricerca di valori inediti, come Nietzsche; ma vedremo, come avendolo mal letto lo ha peggio compreso. Un'altra volta, si accorge come il disprezzare ed il non essere capace di considerare sotto un binomio inscindibile Pensiero ed Azione importi una fatale umiliazione nell'artista. In questa forma solo riesce l'umanità a compiere il proprio destino, l'artista a creare totalmente la propria opera; nell'uno, abbiamo la bussola, nell'altra il vento, e, nei reciproci loro rapporti, la franca e libera rotta della nave. – D'Annunzio è solo poeta di azione, – anzi di aggressione; nominalistaxviii impresta da tutti l'idea, quando non sia anche la forma per la fabrica, materiale indispensabile, concetti già battuti e squadrati pronti alla messa in opera cui occorre solamente lavor di cazzuola e mastice di calce, facilmente da lui apprestato coll'ajuto del vocabolario. Egli, quindi, è tagliator d'abiti in istoffe altrui, perché il concetto di quell'abito gli è sempre embrionale, non gli viene mai a maturanza; sì bene nasce quando trova che è già nato in forastiera bottega: donde e di qui le maniche, e di qui i risvolti, e di qui la fodera... etcc.: il guarnello d'Arlecchino è composto. Egli sente in sé palpitare la creatura, un aborto; perché questa veda la luce, deve ricorrere a molte plastiche mammane, ciascuna delle quali del suo: egli non è quindi l'ebro del concepimento, del parto grande; è l'indeciso che teme il nascituro non gli sia un mostro. Questa indecisione, questa paura per farsi ammettere ad operare ricorrono alla menzogna massima: cercano di dar bell'anima a membre composte bene, ma disgregate; domandano le idee ai periodi.

L'artista opera diversamente; sofre il raccapriccio di vedere che il corpo da lui creato vuole a sé imperiosamente un'anima. Ed ecco che la sceglie nella folla confusa e tumultuante che reclama e perseguita: ed è l'unica che può vestirsi delle sue carni: è la assoluta che gli spetta; è il pensiero che pareva assente dalla parola, che indi si rivela e vibra, quando la parola è già un gesto, quando questa parola, che sembrava immobile, ha trovato la vita, e, d'embrione o crisalide, si fa germe sfoggiato, farfalla. Pareva a tutta prima che non esistesse se non il vocabolo: ma dentro lo pervase l'energia: sono dunque nati insieme: è il pensiero che esige, immediatamente, l'azione: ed ecco il Verbo. L'artista, come il Jehova biblico, non fa che pronunciare il proprio concetto affinché il mondo si organizzi, affinché si faccia la luce: il mondo, dice Heine, è la segnatura del verbo. D'Annunzio ha preparato, invece, colla sua espertissima manualità molte lampade veneziane e giapponesi, ben dipinte, bene istoriate, magnifica carta: ma le fiammelle che le ravvivino, dove? Le cattura, all'azzardo di letture, di reminiscenze, pensieri di tutti, stille di fuoco e fuochi d'anime sprizzati altrove, zoofori estranei: li infigge dentro alle sue lampade. La curiosa illuminazione! Rende bujo più della oscurità. Come è confuso il periodo, come è traditore il concetto, come è tenebroso per essenza. Che dice, che vuole? Come mente! Credete a me: ci si accorge subito del parvenu, dalli abiti non suoi che indossa. Non suoi: li ha pur pagati, ma non gli si addicono; e il venturiero, che poteva essere elegantissimo in veste di boucanier, se vuol fare il gentiluomo od il filosofo, vuole mentirsi e mentire; donde un violento, un aggressore che giustifica, colla sua impudenza, la mancanza del diritto di proprietà: egli temeva d'essere sorpreso, grida più di tutti il sacrosanto dovere di difendersi dai pirati. Non credetegli: sa che è in mora, che è in bando, perché non può avvalersi del documento del pensiero suo. Allora urla e squinterna Nietzsche, ed incomoda Stirner; un'altra menzogna: gli gridan tutti "Non è tuo, non è tuo": la malleveria è povera ed inutile. Gli è che D'Annunzio è poeta d'azione semplicemente; ha violentato il binomio sacrosanto Pensiero ed Azione, e, perciò, vivendo male, cioè pensando male e volendo scrivere bene, non può che defraudare altrui di belle vite monde e sincere, per infagottarle nella giornea d'Arlecchino, ricucita da lui, ma stagliata nella stoffa dell'arte non propria: e però egli è l'eroe della menzognaxix.

Coll'essere l'eroe della bugia, non significa esserne il filosofo: anche qui, l'azione importò la mancanza del pensiero. Noi avremmo con piacere ammirato la costruzione architettonica di un sistema, che avrebbe dato sapor d'arte al pragmatismo di americana efficacia. Per D'Annunzio basta agirne le conseguenze: vi ho già parlato in proposito di puff e bluff, e non conviene ripetersi. E pure, altri più acuto di me, ha scoperto che coi suoi gesti muscolari, veramente disordinati, ha foggiato una filosofia: questa è che non assorge oltre il suo ventre, e, dal idealismo nietzsciano, il quale continua nientemeno Platone, estrusse la teoria della santità del delitto. L'humorista prende in parola l'adulatore e lascia cianciar l'adulato.

Ci fermeremo alla sua Lettera contro i Catoncelli ed al relativo Più che l'Amore, a certe pagine del proemio delle Vergini delle Roccie, a certi mal sagomati imparaticci del Trionfo della Morte e via via. Lo sentiremo biascicare e balbettare esotiche parole filosofiche; vi si parlerà di giorno di trasfigurazione, avendo messo a profitto il suo Nietzsche che intende alla rovescia. Nella sua dramatica, due sono ed unici i principii emotivi: la lussuria e la superstizione; le sue facili liriche e prose romanzesche si svolgono con poche varianti su questa trama e dimostrano la pochezza della sua imaginazione; vi troviamo l'incesto, pieno o quasi, ed altre forme di bestialitàbestialitas nel senso della morale teologia. Così, i due fenomeni più rudimentali, più selvaggi della coscienza umana son presi a partito per il suo pathos, non di raffinato, ma di invertito. Se tutto ciò chiamasi suscitar l'emozione di pensiero vi domando che cosa ci farà provare per esempio, L'Elogio alla pazzia di Erasmo.

Ma il peggio si è quando s'abbranca a Zarathustra. La carne bruciata di lussuria di Terra Vergine venne a plasmare il sadico morale Giorgio Aurispa; il disprezzo per il pubblico si ridusse al solitario vizio delle figurazioni, delle pratiche sconclusionate, della ubriacatura di bizzarra facilità. Il delirio declamò esasperate nomenclature: lo scopo apparve: poetar l'esistenza: vivere significò pure uscir dalla legge naturale, compiacersi di un delitto che soddisfaceva l'avidità della fama, essere, ad esempio, Corrado Brando.

Costui trovò in Italia gente di sua taglia che lo approvò: si valevano. Lo pseudonimo di Rastignac influì sulla penna di Vincenzo Morello, ed il suo patriottismo divenne facinoroso e brigantesco. Anche quello del suo gran poeta D'Annunzio. Per allora, egli si compiacque di aggiungere il suo grido al coro delle vere birbe internazionali, dei veri cialtroni nostrani, che, col pretesto di compitare a stento il nome del filosofo tedesco, credevano di metterne in pratica le ragioni. Nietzsche non può coprire colla sua autorità, l'impulsivo che uccide un vecchio usurajo per derubarlo di quanto gli manca onde recarsi a meravigliose avventure colonialiBrando –; e Paul Adam ha ben compreso che non poteva innocentare il suo Chambalot di Mouettes, commesso viaggiatore di prodotti chimici e iperuomo da boulevard. E pure, questi due fratelli uterini, che sono il nero ed il bianco dell'ipotesi nietzsciana, ebbero i medesimi fischi dalla platea romana e parigina: non errò Roma, ma si coperse di ridicolo Parigi: l'Italiano meglio comprese l'atroce parodia che la tragedia, oggi, sopporta e dura: il Francese, più guasto, diede dell'imbecille a Chambalot che si lasciò vincere.

È inutile dire che il filosofo rimase con Paul Adam; che codesto violento distruttore si compiacque di chi aveva saputo rifabricare, dalle sue rovine, attestando che l'iperuomo è colui che si sorpassa, in quanto, come l'autore, stoico, ha vinto le proprie passioni. Nietzsche s'avvia alla santità per il cammino opposto col quale credé avvicinarsi Cristo: il risultato è identico, la moralità umana e naturale scaturiente, perfetta. D'Annunzio, che sarà per tornare a brancicare nelle sanie e nel sangue dilagati dalli in-folio de' Bollandisti, e schiumeggerà la passione del San Sebastiano dopo che quella di Fedra bestiale non lo aveva abbastanza commosso, D'Annunzio credeva che il superarsi in un uomo civile del secolo XX sia l'uccidere un vecchio che non sa difendersi e derubarlo. Ciò è puerile e disgustoso: e come ha fatto a credere che fosse anche bello? Gli sfuggì la frase dalla Gaja Scienza: "amo coloro che non cercano delle ragioni per morire e per offrirsi in sacrificio e li altri che si sacrificano alla terra, perché questa appartenga un giorno all'uomo grande"? È grande un assassino! Questo è grande: "Sii tu il vittorioso, il vittorioso di te stesso, padrone de' tuoi sensi, sovrano dispotico delle tue proprie virtù!". Decisamente, Corrado Brandoxx è un fanciullo vizioso e mal cresciuto: ha confuso il pugno poderoso coll'energia che emana un'idea: tanti altri confondono istessamente, che quegli sia il figlio più caro della psiche d'annunziana.

Non so, allora, se usando di questi successivi procedimenti il nostro autore ci possa convincere, farci propendere al suo giudizio, perché, mi pare, che non abbia potuto commuoverci: le sue parole dicono meno di quanto suonano; sono enormi nell'aspetto tipografico e vocale, ma vuotissime se interrogate dalla logica, dal buon senso e dal sentimento. Per altra via, l'humorista ci punge, il cuore attraverso la mente; ci eccita la mente col carezzarci il cuore: egli sa intonare una semplice, grave, piana e profonda canzone di quelle cui amò Foscolo:

.....Orecchio ama pacato
La Musa e mente arguta e cuor gentile,

però che l'humore, e, lo vedeste, sgorga dalla Filosofia; la quale zampilla dal sentimento; e, per essere efficace, richiede la sicura conoscenza di sé stesso, quando, col suo essere sentimentale e razionale, non si confonda nel mondo esterno, né coi principii generali della ragione, cioè, sia coscienza in sé commossa e riflessiva nello stesso tempo; sappia, insomma, nel momento che va successivamente trasformandosi, il perché si trasformi, così o lo ammetta o lo rifiuti, giudichi e si esponga nel potere e nel fare: Pensiero ed Azione un'altra volta.

Avete mai sentito vibrare dentro di voi, fatto sentimento vostro, un suo verso, una strofe sua, un suo periodo? Avete mai accorto, nell'opera sua, un motivo di melanconica dolcezza, una esclamazione di pura allegrezza divina? Vi può mai, per quante volte lo abbia tentato, ricordare Byron? – Egli ama troppo il presente per far cosa degna della eternità, di cui si dice avido. Ed, al fatto, odia od ama l'uomo? Lo sfrutta. Perché tutto sfoggia ad allettamento; in bacheca più mostra che non abbia dentro; così non ha bisogno di difendere come Byron e Boerne e Gian Paolo e Carlo Dossi il suo tenero cuore sotto una spessa armatura irta d'aculei, impiantati per schermo e biasimo, tal che non possano le bestie avvicinarsegli troppo per morderlo a sangue; D'Annunzio offre a tutti sconciato e flagrante il suo, come Gesù quello sacro in fiamme che palpita pel primo passante perché, inocuamente, dipinto di sopra al camice rosso: tanto è carbone e cenere; e, se distribuito metodicamente in comunione a tutti, si risolverà in nulla, l'autore può viverne senza, perché senza ha sempre vissuto.

Anca el Torototella el fa el poetta,
Ma, ovej, la gent de coo ghe dan la dritta
Pussee che ne al Choléra e a la Boletta,
E i biricchitt ghe saren a la vitta;
"Dai al Strolegh, al Matt; voj, quest l'è sceff!"
E, se 'l vosa, ghe tocca anca del reff.

Sì che egli può accomodarsi, in casa sua ed imposterà, ai cuscini, il motto: "Per non dormire!"

D'Annunzio ha paura del silenzio, della solitudine, del sonno; ha paura sopratutto di riflettere, dell'atto di pensiero e di coscienza che lo piega sopra di lui in meditazione; egli teme di sapersi, perché sa già di trovarsi povero, egli, che si millanta ricco. È il melagrano dai chicchi acidi e scricchiolantisi, dalla buccia coriacea e raggrinzita come un cordovano spagnolo danneggiato dalla vampa; è il frutto asprigno, amaro e che non ci sazia, sterile ed isterico, che ha preso in divisa figurata. Carlo Dossi, invece, il cardo: vi leggerai sotto "Guarda al cuore". –Nel primo, già, non troviamo nulla; nel secondo, tutto è polpa e dolcezza ben difesa.

Ma l'involucro del melagrano è pure a simigliare una armatura dorata e rubricata, è veste di parata di guerra e d'utilità, è difendersi, colle apparenze della ricchezza, della potenza; pretestare, dall'abito sgargiante, la grandezza delle proprie funzioni, che sono minime e brevi. Imagini! E perciò che l'Abruzzese adatta i suoi piccoli gesti alla lussuosità dell'abbigliamento; e ci si mostra sempre in pontificato, sempre in retorica, sempre serio e compreso. Dovete credergli, non sorride maixxi; declama e domina; cioè, crede di dominare; deve sforzarsi a recitar la sua maschera finché si trova in pubblico, finché ha terminato di far sgolare la sua tragedia, di far leggere il suo romanzo nuovo, di far scandere l'ultimo verso della sua ultima canzone. Egli, per non tradirsi, deve sempre esporsi così in mitria e grinta imperiale; non può sorridere con abbandono d'animo, con confidenza in sé e nelli altri, non desidera che di stordirsi e stordirli. È massimo Tartufo, un altro Ipocrito aretinesco, una categoria speciale ed interessantissima; come una ballerina matura, non oserà mai balzare, per nessuna contingenza capitale, né meno per le fiamme che le minacciano la casa, dal letto, seminuda, senza previo rafistolamento cosmetico: più tosto, alla ribalta ben accomodata, mostrerà decolleté e rétroussé; ma non è pelle la sua, è maglia di seta, è belletto, è cipria, è tintura.

Con simili artifici di necessità, tropi inerenti ed organici al suo carattere poetico, come volete che sia D'Annunzio, un humorista, quando l'humorismo è l'abbandono cordiale e passionato della sincerità, del troppo pieno che sofre e gioisce; è la filosofia umana fatta passione e poema? – Egli non ci potrà mostrare che quella arguzia dozzinale, starnuto irritante dell'intelletto, quelle misere rappresentazioni volute a stento, stitiche e meschine, quel riso che suscita "un cane da cacciaxxii che abbaja dietro la propria ombra, una scimmia in giubbetto rosso, che, a bocca aperta, ammirasi tra due specchi; povero humorismo bastardo procreato dalla pazzia e dalla ragione intente, sulla pubblica via, a contendersi il predominio delli allocchi".

Il predominio letterario, poi, che, sotto l'eufemismo dell'arte, mira a conservare il trust del mercato de' libri! Un'altra mancanza di sincerità; parlasi di ideali, dei diritti dell'arte, per conservare i privilegi della borsa, avvantaggiati dalla ignoranza e dalla malizia, covati dalle leghe editoriali, dalle chiacchiere dei follicolarii salariati. Ad altro non para l'Epistola ai Catoncelli: è il ballo della scimmia e dell'orso sul tam-tam: ai lazzi scurrili si raduna folla: è l'humorismo che fa per lei e per D'Annunzio: il quale crede forse d'aver superato Aristofanexxiii "come fu studiato da Platone e dal Crisostomo; e, poi, trovato sotto i loro capezzali, servì ai capezzali delli altri, e, come tale, si a conoscere sempre, quand'anche costoro fossero più sinceri, appalesandosi, ancora una volta, spoglio delle greche costumanze, sempre sé stesso – Aristofane". Eh, sì! L'altro si limita a plagiarexxiv Alfieri, L'Arbre di Paul Claudel, Flaubert, Nietzsche, La Vie de Beethoven, Les lettres d'amour d'une anglaise... e che altro...: e perciò può darsi benissimo che si creda, o lo credano un humorista.

No; non vi è humorismo nell'opera d'annunziana perché non è mai stata passata al lambicco della saggezza e dell'amore, sì bene in quello della di lui vita di fanciullo dissipato e vizioso. Il suo verso e la sua prosa accettano invece e cercano di coonestare tutti i piccoli motivi della sua fragilità, che sarebbe anche simpatica, se si mostrasse nuda e s'egli non se ne vergognasse, portatosi in sull'epica a fare il classico. E però, è nei suoi puri gesti di voluttuoso, di disinvolto, di facilone, di indiscreto, di spregiudicato che si rilevano le tare organiche del suo carattere e della sua letteratura, qualche volta eretizzata al segno di raggiungere la inversione e la immoralità: è, dal feroce contrasto tra la sua enfasi scintillante, che riempie di sonorità le platee, ed il suo vuoto morale, che riesce per il critico-filosofo-humorista la presenza e la persona d'annunziana.

Vana fatica: la sua eccellenza sperimentale ed analittica può giovarsi de' più squisiti strumenti e delle più astruse combinazioni psicologiche; ma l'analisi morale dell'autore, dopo quella glottologica e logica, non darà mai risultati dentro cui si rilevi traccia d'humorismo agito. Tutto manca nel carattere d'annunziano che concorra a sviluppare i necessarii elementi soggettivi ed oggettivi in cui è riposto l'intimo sentire del proprio IO, in rapporto coll'ordine psicologico generale e coi fenomeni avvicendantisi nel mondo; sì che, in gara, la coscienza individuale cozzi e ributti per poterli determinareparte di sé – soggetti, e non si plachi di sentirsene diminuita. Nulla, nel cantore delle "Laudi", manifesta quest'arduo conflitto, per cui la mente attesti anche, nel più umile fatto osservato, l'esistenza della legge universale; il cuore, il proprio partecipato affanno nella gioja e nel dolore; emozione di pensiero, emozione di sentimento, che si fondono nell'humorismo. La frase dell'autore di Forse che sì, forse che no, per quanto ricca, per quanto sonora, per quanto abbagliante, non fa scattare la scintilla, che, illuminando, apporta ovunque la vita e l'amore, il fuoco di Prometeo, lo spirito di Pigmalione. Egli può baccar dionisiacamente, ma Nietzsche, che vanta improprio maestro, gli nega la facoltà di farsi vedere commosso, mentre cerca di commuovere altrui: il mostro Guymplaine è più grande dell'agiografo del San Sebastiano; egli possiede quella virtù che invano impetra il Pescarese; questa virtù d'amore che splende e razza in luce, attira, calamitata, i più discordi elementi; li fonde, ne fa un braciere inestinguibile, ne colora il firmamento, si incurva in sull'arco dell'iride settemplice; è unica e plurima come un mistero teologico; ma riallaccia il cielo alla terra, riaccosta ciò che l'odio e la malvagità hanno disgiunto, ciò che il troppo ed il nulla amare avevano fatto inimici, separati, in apparenza, per sempre. – Lo spirito letterario d'annunziano, crea invece differenze e sospetti, aumenta ed inciprignisce soluzioni sanguinose di continuità.

Se non che il critico-filosofo si mette fuor di tempo e di luogo a sermoneggiare l'artista e l'epoca ed a predire il ridicolo di cui li vestirà la storia: oggi ha torto; ciò non significa scusar tempi ed uomini. Egli può aver riconosciuto come Boerne che "il motivo, per cui vediamo la stoltezza e la volgarità accappararsi i posti migliori, consiste nel fatto che quelle seguono la via che tosto guida alla meta, senza curarsi se sia sudicia e lubrica". Ma davanti al successo immeritato che avvelena l'atmosfera della contemporaneità, come un farmaco mortale lambiccato ad inganno dalle gazzette e raccolto nelle fiale officinali governative, quel critico-filosofo può reagire e proporvi ancora con Boerne e tutti quanti si sentono onesti "che non vi ha altro antidoto che l'orgoglio: Siate orgogliosi; pensate sempre di essere alle prese con persone da voi spregiate, perché di poi sia a loro tolta la facoltà di screditarvi: ma statevene alla lontana. E siccome per farsi credere forte convien farsi udire a ruggire, e, voi ruggite, come leoni e brontolate e non da burla venite alle prese, e graffiate, e mordete se vi si avvicinano. Se vi mostrerete affettuosi; se direte di comprenderli, di scusarli, se li ajuterete a difendersi, siete perduti: incomincerete a dubitare di voi; per amor del prossimo, concederete benignamente menzogne; ed il malizioso disonesto vi divorerà".

È per questo ch'io appajo sempre in pubblico ed in privato nudo, colle armi sole dell'orgoglio a difendermi ed a offendere: sono una sincerità, che si mostra colla testa medusea terribile e magnifica; cui se scopro in faccia ai nemici arrestano ed impietrano. Mi ha più servito in questa occasione, per quanto la mia avventura sia stata negativa; nel cercar l'humorismo, trovammo il semplice epigramma, nel cercar la purezza commossa, che risponde al sentimento del lettore, la vena limpidissima, che scaturisce dal cuore direttamente, ci trovammo in un ampio glossario. D'Annunzio, al posto del cuore, non ha che tomi scompagnati, benevisi dalla Cruscaxxv e capricci da scolaro-prodigio: costui non ci ostende, femina comune, che un sesso slabrato alla avidità del successo rimuneratore; molto produrre a machina, molto vendere, moltissimo ingannare: San Paolo urla "Fornicatore!".

Il critico-filosofo ride e vi consiglia, invece, di accostarvi, un'altra volta, alla sapienza dell'Apicio, che sa imbandir cene degne di Trimalcione. Fatevi con lui alle mense; mangiate e bevete insieme; egli è riconoscente a quelli che gli lodano le portate e li intingoli: non è seduto al banchetto fortunato della vita? Quanti poveri biblici chiedono miche alla porta del ricco Epulone; quanti Cristi da strapazzo della letteratura non hanno confezionato, in versi, bombe anarchiche? E pure, mangiate in compagnia. Pascetevixxvi delle carni succolenti e rosee, ben manipolate, in uno stagno odoroso di pimenti o di conserve, in una dorata rosolatura al forno, in un profumo degno di Brillat-Savarin, leccornie preziose alla mensa borghese, avantgoút di piatti più forti, di creme, di sorbetti alla vainiglia; questa è la prosa e la poesia d'annunziana: come prodotto di culinaria disposto alla ghiottoneria più che alla intelligente golosità; che altro suggeriscono? Per trarne delli elisir di virtù suggestiva e suscitatori d'emozioni di pensiero, bisogna assaggiarli ed interrogarli colla erudizione e la originalità di un Des Esseintes: ma non tutti possono fare l'Huysmans di un D'Annunzio, perché il critico, se fosse di tal fatta prestigioso, penserebbe più tosto a produrre originalmente, non a compiacersi di riveder le buccie ad altrui.

E però, io ho terminato collo stancarmi nell'esercizio raffinato di analizzare la composita cucina, di ricercarne le materie prime, di stillarmi l'imaginazione dietro il leggiero aliare de' loro profumi, per correre lontane avventure d'esotismo erotico; oggi, non amo più la trucolenza adiposa e floscia del comporre, che non sa esprimere, da ogni parola impiegata, il suo spirito vitale, il suo concetto, il suo intimo sapore. E forse, oggi, io mi son uno, che, già distoltomi da Alessandro Manzoni per incompatibilità di carattere filosofico e politico, vi ritorna per gustarne la magnifica prosa schietta, snella, elastica, robusta; e, nel ricordarlo, voglio che lo accettiate come un principe dell'humorismo lombardo, ché tale fu sopra tutto per il suo stile.

Davanti a Manzoni non accorgo più l'autore del Piacere come un qualche cosa di grave e di magnifico, sì bene come uno scheletro gibboso, ripolito e dorato, in teca di cristallo. La macabra visione mi desta un senso penoso che mi spinge a compiangere, che mi piega ad amare, perché nessun altro, peggio del D'Annunzio, si è ingannato sul proprio riguardo. Vedetelo, proprio ora, che, senza compartecipare, cinquantenne fuoroscito, senza aver mai prima saputo amar convenientemente la patria – perché se l'avesse bene amata avrebbe anche potuto meglio riordinar la sua vita – che giunge al parossismo delle scalmane tanto da sembrare un agente provocatore con le famigerate Canzoni della gesta d'oltre mare! Lo ritenete sincero?

Non ha fatto altro che speculare su quanto vi ha di più gretto nell'anima brevemente patriottarda delli italiani, sulle nostre superstizioni storiche, politiche, religiose, generalizzandone le sciocchezze, le trivialità, le ferocie anticivili. E non s'accorge della vecchia gherminella, in cui, volendo invischiare altrui, impecia sé stesso; e non vede, per quanto la consegna produca in sul margine del deserto eroi incoscienti, che vi ci si muore mal volontieri e che l'odio nazionale è la più trista e bassa forma di fobia serbata, nelle secrete e nei caveaux delli arsenali governativi, per degradare l'una con l'altra le nazioni, per far possibile un dispotismo, una teocrazia sia democratica, sia aristocratica, per dar ragione ad una dittatura di classe, quando non sia di uomo. Ed egli ha cantato La Canzone di Caprera, e buon per lui che fu eloquente dopo la Mario, che gli prestò ordito, trama, spola e canovaccio, stoffa e ricamo.

Vi par in queste terzine, che grondano sanie e sangue, acqua santa ed acqua di mare, sabbia e fango, e si riavvoltano nella ferocia immonda del ferreo medioevo, con contorno di Crociate, di Sant'Uffizio e di superstizioni, di ritrovar quel poeta, il quale pretese da Nietzsche d'essere liberato, dopo d'averlo cantato distruttore; colui che confonde l'aristocratica anarchia di questo senza patria, con un Corrado Brando, il lambiccato Tirteo di una aggressione internazionale? In che modo noi lo conciliamo sotto questi plurimi aspetti che repugnano tra di loro? Chi vorrà essere il fidejussore della sua sincerità, almeno della sua coerenza? – Più tosto, un'altra volta, egli ci sfoggia, senza saperlo, dal detto, non dall'opera, l'humorismo che lo dileggia, quando l'omarino si sdraja sopra coperte e guanciali ricamati da "Per non dormire!" xxvii. – Quale assurda pretesa contro la natura, contro la divina animalità, contro la santa fisiologia! Ma dormite, dormite sodo, dodici, ventiquattro ore al ; tanto più dormirete tanto meno saranno le ragioni addotte alla critica per smantellarvi l'opera, per biasimarvi la vita: oh magnifica innocenza che dorme e non conturbata, come l'Eros calamitoso che dormitat conturbatus.

Già, per non dormire: – e si collazionavano mortai officinali di bronzo per le chimiche farmaceutiche del villaggio, con iscrizioni e date, o senza, con, o senza, i relativi pestelli, campane senza, o con, i necessarii batacchi: – e si seguiva, non appena passasse per i confini italici, la moda delli abiti, alla quale apportava i vecchi; onde alle cesoje od alli aghi si accorciassero o s'allungassero falde, si aprissero o si diminuissero sparati, si aggiungessero, o si togliessero bottoni ed occhielli. Mutar foggia, pensiero, intenzione, espressione: ha mai potuto fermarsi, meditare? Udite: "O rimutarsi, o morire!". Lo gridò un giorno in piena Camera; comunque non col suo dar volta al suo dolore scherma, anzi s'appressa con maggiore velocità alla anabasi.

A lui pare che questa coincida con quella d'Italia: se ne fa il rappresentante mentre va colonizzando a Tripoli: eco del nazionalismo chiacchierone e fracassone, frullano ballate d'aquile e di croci, allevate dai fondi secreti, bugiarde e mentitrici, crudeli e smargiasse; onde può darsi ch'egli se ne vanti delegato missionario: ma la patria che lavora, che suda, che si ostina, che produce, che sa dove vuol giungere e lamenta l'intermessa pazzia ebefrenica, o senile, non crede di accordargli i suoi poteri. Non ha egli troppo venduto prima? che può averci riserbato per essere generosi, anche per lui? Contigie, falpalà, frangie, smerli, cenci? Quanti indumenti!

È lecito tornare all'uomo semplice, che ci si presenta nella sua nudità, quand'anche ci possa apparire deforme l'ameremo di più per la sua sincera confessione. Questo sì che ride e piange e geme e sorride e sa guardarsi con occhi veri; ed ha saputo coniare d'ogni sua parola usata monete d'oro e d'argento, pietre preziose e purissime medaglie, verso cui non concorre lo snobismo perché troppo faticherebbe nello scoprirli, nel vederseli trasformati, dal periodo, nel forziere del suo cuore! Lo snobismo è come il rozzissimo ortolano, ricusa di scambiare la propria mercanzia con verghe d'oro non coniate ancora in monete, non importa se tosate o false, senz'altro, ma con arme, effigie, millesimo di corso: lo snob è allucinato dal barbaglio della convenzionalità, dal solecchio della réclame; corre perciò verso le cortigiane in voga e sifilitiche, non si cura della forosetta soda e sana ignorata; non riconosce che terreni esausti ma di grido, e trascura le foreste vergini; ricorre a granai ed a cantine di ditta; non visita le dispense del contadino non avvisate da grida murale, dove potrebbe trovare i doni di Cerere e di Pomona intatti e prelibati: corre al "Qui si vende! – Hic est locanda!" e si imbatte nell'autore nevrastenico, nello scrittore avariato. Per fortuna che quelli che verranno dopo crederanno di più alla loro esperienza, diffideranno delli specifici infallibili, troveranno, mercé la sciocchezza delli snobs e delle snobinettes, in serbo e non sperperate tante ricchezze trascurate per cui l'Epoca, appena defunta, poteva esser ricca se si fosse meno affidata alla svalutazione della critica ufficiale, fosse stata meno oziosamente supponente, ti avesse imposto, col dovere, il piacere delle difficili e fruttuose ricerche.

Così viaggiano, per la gioja e commozione de' venturi, imperatori e miliardari di poesia e di filosofia in incognito, tra noi, quelli di cui ci è ignoto l'imperio e la ricchezza, o vengono stimati un sopracarico, una inutile generosità, od una umiliante originalità per l'altrui ignoranza. Ond'io, per antitesi, ho riconosciuto tra questi alcuno, come venne da Boerne distinto Richter: "Siccome egli da solo era più ricco d'oro purissimo che li altri tutti insieme di stagno, veniva attribuito alla sua vanità, e quindi fatto oggetto di biasimo, il costume ch'egli aveva di sempre, mangiando o bevendo, appigliarsi a vasi d'oro, inverniciati di biacca": ciò che non si direbbe ad esempio di Gabriele D'Annunzio che beve e mangia ed evacua in vasi di creta, è vero... ma dorati di porporina: un'altra serie di atti inavvertiti, dai quali può sorgere, per l'arguzia dell'avvisatore, il lievito di un suo proprio humorismo.

Qui viene ad impiegarsi la sua ricchezza: è tanto ricco che è poverissimo, tutto in esterno ed in facciata ornamentati, come quei palazzetti di poco costo, smilzi per non sprecar area, a pinacoli ciechi, cui non si accede, a gugliette posticcie, a cornicioni in gesso, a modanature, a finestre e finestrette che non servono e non si possono aprire, a stanzuccie basse, anguste, soffocanti di dorature, che appaiono ampie pe' giuochi delli specchi, contro cui, passeggiando nella semi oscurità velata ed ipocrita dei cortinaggi ci si imbatte e si schiaccia il naso. Egli che è tumido e spumante come una spugna zuppa cui, nello spremerla, zampillò tutto di che si è assorbita; è secco, friabile, calcinato come una pomice, e non umore, né lagrime, né sangue. Vi pare che ne gemano i suoi personaggi; ma con essi, egli, il manipolatore avveduto, non ha soferto, non volle mai consentire: sta, freddissimo dilettante che anima di prosodia il vocabolario, non di vita le imagini e le maschere sceniche; perché egli non può allevarsi l'humorismo, un modo d'essere letterario affatto psicologico, cioè: quella rara e squisita manifestazione della virtù la quale usa, per far migliore altrui, espandersi sinceramente da un cuore che ne è ricolmo. Vi prego di sapermi dire dove è la virtù nel carattere d'annunziano ed il cuore, o, quanto meno, quali siano quell'affetto o passione ch'egli usi chiamar fenomeno virtuoso, quale quel muscolo che la pretenda a cuore, scaturigini necessarie, fattive indispensabili di quanto l'arte letteraria possa, in sul vertice della bellezza e della sociale utilità, senza accamparne didattiche e morali direttive officiali. – Inutile volgere in busca da questa parte. E però alcuni, avendomi magnificato l'humorismo di Fogazzaro, volli io pure assaggiarlo e rinvenni il niente: e quando altri delirarono per la magnificenza d'annunziana mi accorsi che era quel niente vestito in gala. Né mi si stia a rimproverare che il niente non porta abito: mai no! esso non è il vuoto, esiste; solamente è: una quantità negativa.

Ora, prendetevi in mano e fate oggetto di studio un periodo una strofe di Gabriele D'Annunzio. Questi non vi riserbano nessuna scoperta, non vi danno mai la gioja di poter aggiungere alcun che del vostro a quanto vi dicono. Gli è che le parole vi vengono impiegate per quel valore e per quella nota che vuole il vocabolario, non impone l'autore. Le parole sono prese, froebelianamente, secondo la nomenclatura fisica, non secondo le intenzioni morali: le parole non vennero passate alla reazione alchimica interiore del sentimento; nessuna trasmutazione hanno subito, per cui, dal minerale grezzo, riesca il metallo lucido; per cui, dal senso comune, acquistino il senso personale ed essoterico su cui fondasi la dote verbale dell'humorismo: queste parole sono ancora bronchi, sterpi, legna secca, non sono poste in movimento, non vivono; sono oppresse dalla maestria dell'operatore, vi si trovano imprigionate a definire sempre ciò che questo vuole secondo la sua tecnica appropriata, ma gretta; è tolto, qui, al nostro linguaggio la divina facoltà di riprodurre dei sentimenti e molti sentimenti, a seconda de' suoi ascoltatori. L'eloquio d'annunziano è preciso ma non suggestivo; è lucido di levigature lapidarie; è secondo la cosmesi classica, ma non è elastico, non si adatta; è opaco all'anima, si rifiuta alla cinetica morale. È lo stile della abilità professionale, della indifferenza dilettante; perché il D'Annunzio per me sarà sempre il signore dilettante, che imparò l'arte e la mise da parte in ajuto dei giorni di carestia e di pressanti necessità. Per ciò solo egli è un ottimo professionista di letteratura, non rovesciando ne' suoi libri di sé che quel tanto cui la folla può gustare, non volendo faticare a confessarvisi intiero, non stimando opportuno di mettere i suoi interessi in piazza. L'artista grande e vero non può rattenersi, non possiede questa forza istintiva; scivola ad aprirci tutto l'animo suo; l'entusiasmo suo lo compromette; e gli fa dire più di quello che non convenga; egli è diventato il servo della sua passione estetica, eccede: per ciò si fa amare ed odiare, ma è lui: D'Annunzio, circospetto nello scegliere, nel ripolire, nel contigiare, ci vuol dilettare di vuote musiche; è il dilettante; lo rivedo a rappresentarmi l'abatino umanista ed erudito della Arcadia, che ingiojella e ribulina un povero anelluccio di sonetti per monaca o per nozze, chino in su quel minuzzolo d'oro che gli uscì dalla breve ispirazione, a caricare ad aggiungere ornamenti, curiosità, sì che, sotto a tal lavoro inutile, anche quel poco di metallo fine scompare ed a noi non resta evidente che la fatica barocca della ferruminazione. Eccolo il signore dilettante, il formalista intarsiatore che crede di essere il rappresentante e la parola eloquente di un popolo moderno: egli ha chiuso porte e finestre per non essere disturbato dai gridi della sua gente, della sua patria; pecca di esagerazione, si esaurisce col rivolgere le ricerche ai mezzi plastici; mentre, se questi si debbono esquisire e perfezionare, non ciò avvenga a detrimento della spontaneità, della freschezza. Forza l'intelligenza in un processo empirico di pura manualità; ne riescono creature come bolle di sapone, specchi effimeri di breve ambiente: se la brezza spira più forte, tutto dilegua, il globo magico col paesaggio riflesso. – Ha egli in fatti mai amato la natura in modo da riprodurla come una viva serie di sentimenti, di passioni; in modo di autenticarla colla sua trasformazione estetica? No: egli se ne serve come di un pretesto: la sua panica gli diventa un passatempo, certo di qualche soddisfazione, ma non di completa dedizione. – È l'orafo egoista: raccoglie per sé stesso una serie di cose disparate da cui non può foggiarsi un sistema, una categoria; alla vista delle quali tu non sai dire come egli la pensi; l'opera sua si dispone in piccoli e ben lavorati scaffaletti, con tanto di vetrina, sotto alla quale, perché non sofrano la polvere, ritrovi in bacheca mille oggettini meticolosi, un bazar di chinoiserie; una fricassea d'anticaglie disparate, per le quali indovini la confusione che è nel suo gusto, nel suo cervello, nella sua vita, e cerchi invano, oltre questa superficialità, il carattere, o per lo meno, la nota fondamentale del suo temperamento.

Non vi pare che le famosissime Laudi siano state connesse così? È il signore dilettante che dotato di qualche sensibilità e di discreta osservazione se ne vale durante l'unica passeggiata che abbia fatto un po' più lunga del solito nella vita: poi, rientrato in casa, non trova diversa conclusione che rimettersi al solitario tavolino e scrivere un poemetto con molte altre aggiunte frammentarie: e ciò sarà l'epica e la lirica del viaggetto cortese. Ma se l'humorista viaggia, altro è il suo risultato: altro assaggia in profondità e valore: noi sappiamo come abbiano vissuto Stendhal, l'Apostoli, De Maistre, Heine, Sterne; qui versi non suonano eccezionali, ma abbonda la poesia: qui, può mancare la chiacchiera scambiata per eloquenza, ma non il carattere ed il coraggio; qui, non è il sonettino, la ballatella, l'odicciuola impastate con quella farina di fior di Crusca, concessa dalla privativa delle academie per istranire la gente, perché, fattone focaccie, si potessero saettare nelle bramose canne dello snobismo latrante, ed inocuo, ad ogni rumore in Parnaso: ma qui si diceva che l'eroismo vissuto risiedeva, principalmente, nell'accorgersi di esistere in un clima d'arte e di morale antietica al suo proprio personale, comunque di valersi da questa sostanziale contradizione per superare sé stesso, e, da un motivo d'umiliazione, di povertà, di dolore, estrarre tanta consolazione filosofica, tanta bellezza di ben stare, contrastando alla contemporaneità, indice di grazia e di virtù anche per i futuri. Portatemi esempi d'annunziani su questo tema; convincetemi ch'egli abbia vissuto come un Cristo e che perciò possa poetare come un Epicuro; ch'egli insomma fu ed è uno scettico soppannato da stoico: allora solo io vi concederò ch'egli sia una genialità.

Con ciò io non vado negando le attitudinixxviii e le prestanze di cui è fornito D'Annunzio; ma vorrei a queste assegnare il posto che loro compete nella estimazione, e, se fosse lecito rivolgersi all'artista, dirgli quanto meglio sarebbero impiegate diversamente, e dove con maggior proprietà si vedrebbero in essere. Egli avrebbe dovuto limitarsi, dato il suo talento puramente formale e naturalista, semplicemente classico – nel senso scolastico – ad essere un compito registro del passato. Ad altri, che non a lui, compete l'ufficio di stendere l'elenco preliminare di quanto in seguito ha da venire: e se D'Annunzio ha creduto di surrogarne il posto vi si è crocifisso impotente. Per ciò egli, rimasto chiarissimo in apparenza nella dizione, vi è intimamente oscuro; cercando di rivolgersi al cuore del lettore per essere compreso non gli parla, mentre chi lo ascolta non può essere che l'erudita memoria: nessuno si sente commosso, nessuno è preso da emulazione a cantare con lui: e voi sapete che il vero poeta è colui invece, che, infiammandoci, ci spinge a portare seco, a superarlo, forse. Quand'egli declama noi lo stiamo ad udire dilettandoci semplicemente, non collaboriamo con lui; è solo coll'humorista che noi ci facciamo inanzi ben accolti dalla sua urbanità, dal suo sorriso; è solo con questo vivo serbatojo di energie passionali e poetiche, messo in attività dalla nostra vicinanza, che si comunicano le lunghe scariche elettriche del sentire e del godere en kinesei, cioè del produrre di nuovo altri fenomeni estetici. Davanti a D'Annunzio noi analizziamo subito; e guai, allora, se la nostra critica non lo trova esatto; da che esattezza significa in arte: sincerità.

Amiamo noi D'Annunzio? Ci diverte. – L'odiamo? Ci ha fatto piacere. Ma lo Sterne, e Foscolo, ed Heine, e Stendhal, e Dossi, e Rimbaud si amano e si odiano nel medesimo tempo; poi si adorano in sintesi, ci si confonde con loro. A Gabriele D'Annunzio non possiamo che rimproverare: "Tu fosti, e sei, un privilegiato e dalla natura e dalla cieca fortuna: tu fosti avaro al mondo delle tue proprie organiche ricchezze, alli uomini del tuo tempo e del tuo affetto. – Tu, che hai avuto il raggio della genialità, perché non ne illuminasti i miserabili ed i pitocchi? O tu stesso eri, e sei, un pitocco morale che va limosinando, dalli applausi, nutrimento? – Tu, che ti sei foggiato un'arme forte e lucida, perché non hai saputo batterla con noncuranza che sul capo de' tuoi osteggiatori, di quelli cioè che hanno in assoluto più ragione di te? – Tu credi che vivrai sempre, e non ti accorgi che hai già vissuto troppoxxix. A te, farneticante imperii, scoperte, capolavori, maraviglie, non giunge il grido animale e sacrosanto di tutti – non l'urlo del sesso, dentro cui spesso affoghi come in un baratro di melma – sì bene il grido della solidarietà, che è il più imperativo, perché congloba tutto l'uomo, sesso, ventre e cervello. E sei rimasto, e rimani, immobile, nella muta indifferenza dell'odio e dell'amore, incapace di risentimento e di riconciliazione; dorme il tuo cuore, fremitano i tuoi nervi continuamente, sì che fai come fossero atassici ed insensibili, perché non conosci differenza tra il desiderio ed il possesso, né sai che sia aspettazione, cioè meritarti il premio. Perciò eleggesti: 'Per non dormire!' – Dell'opera tua non ci hai mai scoperto la fonte cordiale; ma cercato di imparare a tutti un tuo metodo; tutti i fogli ed i fogliacci italiani sono scritti alla d'annunzio; sì che ti sopragiunse presto la parodia col grottesco. – Ma tu dici di godere di una pace imperturbata: sia: non è pregevole come quella che si guadagna dopo la sincera fatica, dopo il dolore: tu non hai mai soferto: ma tu vorresti far credere, e con te li altri Seid, di essere un quid novi, come un Byron redivivo, l'Euforione del Carducci, ipostasi di quello del Goethe, rappreso in anima e in corpo in sull'alba della quarta Italia. Disingannati: stai ancora nel crepuscolo notturno del Rinascimento, senza averne le divine intuizioni filosofiche: Byron, di spirito irrequieto, agitatore, folgorante, ha combattuto, distrutto, rifabricato contro il vecchio universo per il suo mondo; vinse, e, nel vincere, impresse il proprio suggello nella perennità: i vinti si improntarono di lui e rivissero. Tu, vittorioso in apparenza in sui Diarii, demiurgo di chiacchiera giornalistica e vuota, vivrai perché alcun altro, che oggi ha torto, si è chinato sopra di te e si è degnato, per scrupolo di sincerità e per abbondanza di coraggio, qui, nominarti".

Breglia, Settembre 1912

 






ix        È dall'allegra doppiata de Le Vergini delle Roccie che D'Annunzio ha cercato dare una unità alla sua opera romanzesca. Da qui sorgono i Romanzi della Rosa – cioè il Piacere, L'innocente, Il Trionfo della Morte – che razza di Rosa e perché chiamarli della Rosa non so, né saprete: I Romanzi del Giglio, trittico di una portella, per ora, Le Vergini, aspettando La Grazia e L'Annunciazione, parole e parolone.



x           L'Italia, in travaglio difficilissimo di filosofia, per cui tutti li ostetrici e le mammane brevettate concorrono al parto difficile, si lascia infinocchiare dai competenti ad appropriarsi quelle che le elaborano i francesi e li americani, perché pare che li Italiani d'oggi, spaventati dalla Ragione, tornino ad affidarsi alla Rivelazione. Ad ascoltare questa gente, che parla di neo-idealismo e non sa che sia, col favore di Bergson, ci avvieremo ad andare a messa ed a ricostruire le comunità confessionali del medio evo per il gusto di poter proclamare; l'istinto vuol la sua parte. D'accordo: ma, dall'istinto solamente, non conosceremo mai la nostra divinità umana, che, avendo inventato tutti li Dei, ha pur il diritto di infrangerli e di sostituirli. Ma non di questo: voleva avvisare codesti filosofi dell'ultima ora, che, per integrare i metodi ed i mezzi del conoscere non è lecito recarsi ad imprestarli dalli altri, quando poi metafisici; ma sarebbe bastato a guardare un pochino indietro nel tempo ed avanti in intelligenza. Essi hanno qui sciorinata completa e pronta per essere maneggiata, da Carlo Cattaneo lombardo disconosciuto e citato senza essere compreso, una Antitesi delle menti associate come nuova carriera di ricerche: da Giulio Lazzarini un'Etica razionale sconosciutissima, specialmente a Napoli, dove sembra invalsa la mania di germanizzarsi anche secondo la metafisica hegeliana forse per alcune attitudini esotiche oggi comuni tra il Kaiser ed il Lazzarone. Per conoscere, intanto, le opposizioni della patristica mascherata da rosminianesimo contro il Metodo delle Antitesi di Cattaneo sarebbe bene leggere un opuscoletto, tutto fiele, livore ignoranza e cattolicesimo, questo: Pensieri filosofici sopra un Discorso del sig. Dott. Carlo Cattaneo, letto nell'Istituto di Scienze Lettere ed Arti in Milano nell'Adunanza del 12 Novembre 1863. Milano Tipografia e Libreria Arcivescovile MDCCCLXV. Vi divertirete e comprenderete l'importanza capitale e formidabile contro la superstizione – come forma di governo – di questa libera filosofia razionale e repubblicana.



xi          La scoperta del fatto nuovo Seidismo, in letteratura, si deve concedere meritamente ad Alfred de Vigny. Il Seidismo è il risultato dell'abbarbagliamento di ricche e contigiate menzogne, di sfarzi e di inganni estetici e politici sulla folla. A quel raggio falso di più falso sole si avviano le turbe ed eleggono il proprio dio: la povera divinità è fatta di creta, e di carta: riluce per riflesso: "Non saprei ben dire se ai giorni nostri non siasi fatto, per avventura, qualche abuso di codesta scimiottaggine letterariaattitudine sublime, artifiziosamente disposta e penosamente conservata a scapito delle buone inclinazioni naturali; – ma mi pare per altro che Napoleone e Byron abbiano fatto fare non poche smorfie a molti visi innocenti" A. De Vigny, Scene militari contemporanee. – Sì che qui, parlar di d'annunzianesimo è ripetere che Seidismosmorfia su viso innocente – è divenuto una ragion pratica di vivere nell'ambiente artistico attuale. Sulla piazza ben fatta dal Pescarese e ben sfruttata, rimangono alcune altre piccole sciocchezze da ingannarebriciole cadute da tavola o spighette da spigolare, – per cui il mendico o la Ruth, o il Seid può lucrar pasto magro, ma sufficiente alla sua inerzia; mentre, cantando le lodi del ricco Epulone o del Falciatore instancabile, conservasi la facoltà di venirgli dietro come cameriere, o scopatore segreto del Gran lama; il quale, grato de' bassi uffici, lo investe, con privilegio, di quest'ufficio – se non molto dignitoso discretamente reddituario. – Ho citato Vigny e non lo lascio in libertà tanto presto: gli impresto un'altra parola "Comediante"; ch'egli ha scritto, ripetendola dalla viva voce di Papa Pio VII Chiaramonti, proprio udita da lui a Fontainebleau, diretta all'interlocutore Napoleone. È vero che Napoleone balzò allora dalla sua sedia aggirandosi intorno come un leopardo ferito, preso da una delle sue collere gialle: ma Chiaramonti ripeté "Comediante!" – Anch'io: non so che attitudine mi prenderà contro l'altro, perché glielo scocco di lontano: ma son certo, che, l'averlo di passata paragonato al Bonaparte, gli farà piacere e sorriderà. Buon prò. – Quanto a Napoleone dirò ancora che non ha fatto paura che a tre uomini, a tre italiani, quando tutti, dall'imperatore della Russia al fellah d'Egitto, tremavano davanti a lui e lo veneravano. Foscolo, Giuseppe Bossi, il prete Chiaramonti gli guardarono in faccia fisi e le pupille chiare e d'oro del Corso annubilarono e piegarono davanti a quelli sguardi. – Germanicamente il Tugendbund arruotava il pugnale per sopprimerlo: fu meno efficace delli sguardi italiani di un prete, di un poeta, di un pittore repubblicano.



xii         Vi una nuova definizione di Filosofia più semplice, in oggi, che si pregiano le cose difficili ed aggrovigliate: "La Filosofia è l'arte e la scienza per cui alcuno può vivere meglio che può, nell'attrito continuo dell'epoca e delle altre vite, che si strofinano alla sua, in appetito della felicità". Vedete, dunque, che è più una azione che una nozione – più un applicare che un trovare – più un fare che un dire. In fondo la definizione greca: "Amar la scienza significa filosofare" si riduce a "viver bene e bellamente è essere filosofo". Bisogna domandare a Gabriele D'Annunzio, che piuttosto vivere naviga, se si trova soddisfatto della mia umile definizione.



xiii        Non sorvoliamo, fermiamoci, vi prego, a questa accusa d'essere il principe de' bugiardi in letteratura, la massima che possa diminuire l'arte di un artista. Eccovi il primo periodo della Comoedia DantisCorriere della sera, 27 Agosto 1911

            "Nell'anno mirabile della ricordazione e della promissione, è bello che anche la Patria abbia il suo trisagio, come l'Iddio Signore tre volte santo. Dall'altura settentrionale del Colle Capitolino, Roma, celebrando nell'inno di pietra la terza vita d'Italia, sembra battere col piede su l'antichissimo sepolcro del suo Edile repubblicano, il novo ritmo degli intercolonni".

            Scomponiamo. Eh, che vi pare dei due one-one del bel principio? Oltre ad essere cacofonici sono del puro '200. Oh, santo Francesco e quelli altri mentecatti compagni suoi, oh, Feo Belcare, delirante allucinato di continenza e di digiuni! – Trisagio! Che sarà mai l'oscurissima parola? Anch'essa viene dalli Eucologi di pietà: è pessima parola in composto di latino e di greco: Tris ed ἄγιος = santa parola canonicale: ma, per il borghese corrierista e l'allocco snob basta a suscitare la maraviglia. Trisagio! Che bellezza: che coltura, che genio il nostro grande etc... Rivolgetevi allo Janni. – Poi, vi è Iddio Signore tre volte santo: e dovrebbe essere il Padre Eterno: o piuttosto Cristo suo figlio unigenito, che, in fatto di passione, patì come l'Italia? Quindi le tre età d'Italia; le due che sapete, e questa della decadenza, dove i poeti rimbambiscono, perché sono divenuti imbecilli. È logico. – Andiamo avanti: si sul Colle Capitolinoseguitemi, da Jehova, da Cristo, da Feo Belcare si torna alla repubblicana austerità pagana di un Edile al tempo de' Consoli – che capriole, che sgambetti da vero ballerino grottesco: guardatevi il collo ed il coccige! – Vi è, dunque, sul Campidoglio, vi è qualche cosa come la Patria – ma il soggetto è così lontano che si perde nelle nebbie dei tempi ed anche della sintassi – che sembra battere col piede, celebrando nell'inno di pietra, la terza vita d'Italia. – Sì, intendiamoci: la Patria è l'Italia, o qualche cosa di diverso che celebra coll'inno, etc., la terza etc.? Beh! Vi è la Patria che celebra, battendo il piede: il piede, genere maschile, numero singolare: il novo ritmo degli intercolonni. Oh! dunque un piede solo che dovrebbe valere come le molte basi di molte colonne, perché ci sono li interlocolunni. Ma un piede e molte basi di colonne? Coi piedi, caro poeta, con più di quattro piedi, coi diciotto e più piedi, coi mille piediscolopendradicesi in buon meneghin cent péecolle basi delle – lasciatemele contare – 20 colonne, comprese quelle dei due propilei, senza le fondazioni delle lesene relative ecc. –: di modo che i piedi battono, è vero, e fanno il ritmo, perché sono come li accenti di quell'inno di pietra sul sepolcro dell'Edile, e capisco: ma ciò che non capisco si è che il ritmo è formato dagli intercolonni. Che? uno spazio vuoto fa il ritmo? Ma senza l'Arsi l'accento ritmo non v'è. Dunque? Sapete che è l'intercolonnio? L'intercolonnio è quello spazio che separa una colonna dall'altra nella sequenza di un portico: può essere uguale o disuguale, secondo l'ordine dell'architettura e la genialità dell'architetto; ma è ritmo in quanto è postillato e segnato dalla notazione della base delle colonne; le quali solo costituiscono il ritmo. – Essere poeta e non sapere ciò è enorme: in poesia, ciò che conta è l'accento: l'accento ritmico di un portico è segnato dalle basi delle colonne: l'intercolonnio è spazio bianco, afono, ha quella misura – sia in un verso sia in un portico – quella sequenza che gli obbligano li accenti, le colonne. – Concludi: se l'autore di questo periodetto avesse riflesso, cioè fosse rientrato in sé stesso prima di scrivere, avesse pesato il valore preciso d'ogni parola, fosse stato più ossequiente al suo dovere di rispettare anche l'intelligenza de' suoi lettori; i quali hanno i proprii diritti e tra questi quello di sindacare l'opera sua di osservarvi quanto vi è di falso, di affrettato, di inutile, di spavaldo, di irriverente; se l'autore non si fosse affidato, come al solito, alle improvvisazioni, eccitato al gran rumore delle parole: ricordazione = trisagio = sepolcro = l'inno di pietra = nuovo ritmo = intercolonnio = costui avrebbe risparmiato di tradire sé stesso e di ingannare li altri, di scrivere questo periodetto-stitico-diarroico insieme, ma senza senso, senza pregio, senza espressione, quello proprio che occorre ai suoi compatrioti; che hanno, sotto le borse dei mal nutriti in cervello ed in pancia, vestiti della festa, conservato le inclinazioni vecchie, per loro; strettisi in lega nazionalista, stanchi di fare, in privato, il brigante del Lazio, delle Calabrie o di Sicilia, inalzarono questa professione e missione internazionale, e si pregiano di essere, in faccia al mondo, li Apaches della Libia... non d'oro. Perdio! quando si perpetrano di queste imprese, almeno sceglierle con giudizio e con profitto: ma fare li Apaches, così disinteressamente è troppo:... significa mostrare nient'altro che la propria vocazione. – Zitto! Venir da un piede, che è poi una base di colonna, alle vittorie libiche è troppo audace pindarismo, ed il mio autore, coi suoi acoliti, ha ragione ed io ho torto.



xiv         Poi, quando stima che il mercato gli è mal preparato, che li avvisi d'altrui non l'abbiano sufficentemente messo in vedetta, egli stesso interviene. Fu a proposito del Forse che sì, forse che no che i giornali riportarono li auto-elogi del caso. Eccovi uno strataglio del Secolo, 3 Luglio 1912, edificante e tipico: Come si loda D'Annunzio Parigi, 2 mattina. Intervistato da un redattore dell'"Intransigeant", Gabriele D'Annunzio ha così parlato dell'aviazione e degli aviatori:

            "Ammiro, in particolar modo, Beaumont. A mio avviso, è l'eroe più puro della scienza alata. L'avete inteso parlare? È notevole trovare tanta modestia, tanta dolcezza di gesto e di voce, data tanta potente energia ed audacia ragionata, poiché queste due parole si possono accoppiare. Quanto a me, fin dalla prima ora, l'aviazione mi ha conquiso. Ho volato spesso insieme a piloti sicuri, come, per esempio, il conte Lamber. Tuttavia, prima di pubblicare il mio romanzo Forse che sì, forse che no, non ho potuto come avrei desiderato vivere alcune ore in pieno volo, sopra il mare.

            Bague, che l'anno scorso si è perduto nel Mediterraneo, mi venne a trovare dopo la lettura del mio lavoro e non mi nascose il suo entusiasmo per le ultime pagine del volume che aveva potuto realizzare con parecchi voli sopra le onde. L'aviatore mi disse: – Voi avete dimostrato col vostro segno una magnifica prescienza e la più perfetta sensazione di sublime poesia che un essere, fra il cielo e le acque glauche, possa sentire. Voi avete descritto il vero miraggio dei miei occhi, la vibrante tensione dei miei nervi, la grande emozione del mio cuore".



xv         Avvalorò, così, la leggenda che un poeta doveva essere qualche cosa di più e di meno di un uomo; un essere maraviglioso e mostruoso, scintillante di preziosità, pieno di vizii, tutta arte ed eccezionalità, non ricongiunto per nessuna ragione umana alle norme più ovvie della vita e della morale, ricondotto per tutte le ragioni naturali e vittoriose alla perversità della pura bellezza infeconda: Poetare la vita! Ed un povero e grande poeta giovanetto e tisico, morto e mutilato nelle sue opere; che gli sgorgarono dal cuore cantante e lagrimose e pur diritte e serene, dalli amici, i quali de' suoi molti libretti preziosi fecero un centone di Liriche, scegliendo fior da fiore, come i parrucconi; ed anche Sergio Corazzini, il nostro ultimo Leopardi vergine e forte nella sua mestizia, credè a quella fantasima trucolenta, vestita d'oro e di sangue e suppose forse ch'egli non fosse poeta:

         VII

            Io amo la vita semplice delle cose.

            Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

            Per ogni cosa che se ne andava!

            Ma tu non mi comprendi e sorridi.

            E pensi ch'io sia malato.

         VIII

            Oh, io sono, veramente malato!

            E muoio, un poco, ogni giorno.

            Vedi: come le cose.

            Non sono, dunque, un poeta:

            Io so che per essere detto: poeta, conviene

            Vivere ben altra vita!

            Io non so, Dio mio, che morire.

            Amen.

            Piccolo libro inutile, edizione fuori commercio, Desolazione del povero poeta sentimentale.

            Oggi, affido alla memoria di Sergio Corazzini la determinazione della immortalità.



xvi      Mascotte, porta-fortuna: in un veglione scaligero di quest'ultimi anni, si era indetto un premio al migliore mena-bon, cioè porta-fortuna, o contro la jettatura, foggiato in istile nuovo, efficacissimo. Alcuno ha suggerito nel suo dialetto meneghino: "El mena bon: fa cont el stagn, come ona medajetta: e che la sia ona trappa biotta de D'Annunzio; mettegh du corna de voltâa in giò, e poeu on anelin per tacala su a la cadena de l'orologg: e quest l'è el mena-bon". Ma non fu premiato.



xvii        A proposito di onestà; vi è il signor Nicola Checchia che ha questi concetti intorno a quella d'annunziana. Dopo aver confuso Max Stirner, che vuole tutti siano Unici, col Zarathustra, il quale desidererebbe di essere semplicemente il Maestro delli Unici, dice: "Ma la ipocrisia onde si materia la mentalità di questo 'secoletto vil che cristianeggia'...". – Badi, signor Checchia, che G. Carducci fu appunto il poeta della "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo" quel tal patto che non accetta, perché tagliò al re la testa ed ai padri di famiglia; non equivochi, non si contrarii; fu sì, sulle orme della Dichiarazione dei Diritti che si predicò l'eguaglianza morale di colui che rappresenta il tutto con colui che si mantiene il nulla. (Bene): il tutto è nel seguito "D'Annunzio" – "il nulla: il ciabattino evoluto e cosciente che ciancia e blattera di eguaglianza e che so io". – "L'etica di Gabriele D'Annunzio non può essere quella del ciabattino". – Scusi. Anche se D'Annunzio, puta caso, fa becco il Checchia? Depreda il Checchia – sarebbe un degradarsi – ma ha depredato tutti i giornalisti italiani per compilare Le Canzoni del Mare di – di roba sua; periodi, pensieri, concetti? – Sì, signor Checchia? Me ne duole: mi sembra che il suo evangelico procedere coincida col favoreggiamento: se per esempio, "il rullo compressore della signora legge non si abbatterà" su uno di codesti "spiriti grandi che non riconoscevano nessun'altra legge che la propria legge, che sdegnano di essere qualcosa, per mantenersi qualcuno" il signor Checchia, che non è quel D'Annunzio-Bonnot, (è chiaro) non la passerà liscia. No: troppa grazia! codesto è l'anarchismo dei conservatori; i quali previdenti hanno già creato il privilegio per essere autorizzati e franchi a commettere il delitto: perciò si va a Tripoli e si coniano medaglie al valore: medesimamente, l'agente di P.S. parigino revolvera Bonnot. Questa è la contradictio in terminis: perché non D'Annunzio? – l'altro esempio antieteticoabsit iniuria verbis. – Ah, la logica, signor Checchia; ella deve essere un filosofo della intuizione, se ragiona così male: torni a San Tomaso: vi è tornato, per esempio, Max Stirner, che ha tirato in ballo così a sproposito; e vede che opera massiccia di granito, involta nel platino, ci mandò addosso col Das Einzige. – Il signor Checchia ha stampato quelle disgraziate linee, a pag. 459, in un suo articolo: Libri ed autori, dell'Aprutium, Anno ILoreto AprutinoSettembre 1912. Fasc. IX.



xviii       Se ne è accorto a tempo anche Francesco Pastonchi, nella sua nota lettera: "A Gabriele D'Annunzio", ed io, con lui, affermo:

            "Per noi, se la vostra sensibilità è acutissima, il vostro spirito intuitivo si libra sempre alla superficie senza penetrare! Noi vi conosciamo una mente ricca di dottrina pronta ai raccordi più impensati e più numerosi, fervida, agile, infaticabile, sino al portento, una mente che nessuna difficoltà sgomenta, e che la volontà tenace ha reso, con l'esercizio, abile a tutti gli artifizi tanto da dissimularli; ma non vi conosciamo una simile anima. L'anima vostra ci appare oppressa, immiserita, straniera dal vostro fervore intellettuale. Le fibre, che danno i moti primi e sinceri della incoscienza, quelle che vibravano così vive in Leopardi, crediamo che a voi natura non abbia largito molto elastiche. L'opera vostra scarseggia perciò di quelle segrete armonie indefinibili, che producono la commozione e toccano e legano e rimangono. E noi compiangiamo talora, sotto la vostra enorme ricchezza, qualche intima povertà. Talora anche, mentre vi annunziate signore di tutte le forme verbali, mentre ostentate la vostra potenza regale, noi travediamo in voi lo schiavo delle parole, che, trascinato a seguirne certi suoni, deve tanti accoglierne, che, infine, gli pesano, lo ingombrano, lo costringono e ne distruggono ogni impeto vitale. Possedendo voi le qualità tutte che stupiscono, anzi che smemorare, rimanendo sempre come presente innanzi all'arte vostra, con un gesto che la offerisce e ne chiede la giusta ammirazione, essendo voi un disegnatore grandioso alla Bernini, un imaginatore sontuoso, un esecutore minuto di perfezione, uno straordinario ritrovatore di eleganze decorative, noi con assidua curiosità vi seguiamo nell'assiduo lavoro".



xix         Anche il Chiarini, che fu un retore antipatico, ma, contro il D'Annunzio, coraggiosoricorderete le sculacciate che amministrò al mimmo eccezionale e prodigioso per Venere d'acqua dolce – in una lettera che giova qui citare, al Sommaruga, 13 luglio 1883E. Scarfoglio: Il Libro di Don Chisciotteinvocava il dolore per il giovanetto poeta, per cui si purificasse sofrendo, ma non era persuaso che il rovente cauterio gli profittasse.

            "13 luglio '83.

            Preg.mo Signor Sommaruga,

            S'intende che non c'è bisogno del mio permesso per difendere il D'Annunzio nella Letteraria e in qualsiasi altro giornale. Desidero, ma non spero, che la difesa sia tale da farmi pentire e ricredere di quello che ho scritto. Mi dispiace dei dispiaceri del D'Annunzio, che nessuno ha amato e stimato più sinceramente di me; ma più mi dispiace della falsa via nella quale si è messo, falsa moralmente e artisticamente, e del male che fa.

            I dispiaceri, forse, lo ritempreranno e gli faranno aprir gli occhi. Se, così fosse, benedetti quei dispiaceri! Egli è ancora in tempo a diventare quello che io mi prometteva dai suoi principii. Non potrò così presto mandare i due articoli ch'Ella mi chiede; perché sono occupatissimo negli esami, e n'avrò per tutto il mese".



xx         Gli uomini disinvolti dicono che il Brando è uno che ha perso la partita: quand'era mimmo, Gabriele D'Annunzio non la perdeva mai, vinceva sempre La Tombola: udite:

            "La tavolata della tombola allinea teste pensose e cartelle trepide; un mucchio di soldi torreggia; i fagioli ànno coperto numeri a josa or mai, e l'avidità s'appunta negli spiriti. – Homo homini lupus, o Bambino Gesù; e quando verrai, vedrai!... – Set-taan-ta-sèt-tèee!... Barbablù! – Tombola!, tombolàa!!, tombolàaa!!! – Ll'àggiu ditto, ca chisse se magna pure ll'ànema 'e Gesù Bambine!ghigna don Peppino, rimettendo in sella l'occhialino smontato. – Gabriele rovescia le rapaci mani, fulgendo dall'occhio rapace; stringe nei pugni la vincita; va corre si scatena che il diavolo lo manda, intorno a' tavoli, pe' corridoi...".

            Pag. 101 Presepi d'Annunziani, Garibaldo Bucco. Donna Luisa pregava lauri! Vennero cesareamente sulla precocissima calvizie: Corrado Brando fu, per avventura, meno fortunato.



xxi         A dar maggior forza al mio assunto può giovare leggere questi periodi del Borgese che tornano a battuta ed a riprova, pag. 150-151:

            "Osservate ancora un altro sintomo dannunziano: l'impossibilità del riso, l'assenza di gaiezza, d'umorismo, di scherzosa ironia. Da un lato, questa deficienza è connaturata all'ispirazione. Poiché il riso è superiorità spirituale e violenta negazione dell'inferiore, non è possibile che scoppii in un artista, il quale, malgrado tutte le illusioni, deve oscuramente sentire che l'arte sua non celebra un superamento, ma tenta con retorica fiacchezza di negar certi valori morali, i quali, malgrado la negazione, restano superiori alla voluttà e all'istinto. Boccaccio, che sente prevalere la libera cultura sull'astuzia del frate e sulla stupidità del villano, sghignazza; Cervantes, che vede permanere le vecchie fole medievali mentre il feudo si scompone e la monarchia si consolida, ride crudelmente del passato; anche i Padri della Chiesa sbeffeggiavano qualche volta, indignandosi, la superstite idolatria: e Nietzsche, religiosamente persuaso del superuomo, bersaglia di frecce ironiche la morale dell'uomo che scomparirà. Ma il d'Annuzio, se togliete i punti culminanti della Laus Vitae, non raggiunge lo stato religioso. Soffocata, ma pur palpitante, vive in lui la coscienza di Tullio Hermil. Quindi non ha forza di deridere i valori morali che rinnega, e li assalta irosamente ringhiando come nemici troppo odiati e robusti. Perciò non ride pubblicamente: il suo grande avversario, il cuore dell'uomo, non lo sollazza, ma lo esaspera per quella sua cocciuta ostinazione di esistere. Egli maschera dunque la sua inferiorità di un'immobile maschera tragica; e, se una volta sorride, par che vi faccia notare l'eccezionale degnazione, e sorride con una compostezza musona, d'un riso che può contrarre i muscoli faciali ma non vibra nell'intimo. Quasi teme, ridendo, di spogliarsi della sua dignità sacerdotale".

            Ma è un poverissimo e piccolissimo sacerdote dell'autôn, riuscito in malo modo dal Carducci. Seguendo il Croce nella sua critica d'annunziana, – Vol. II La Critica, anno 1904 – noi gli troviamo un temperamento indifferente ad ogni passione, ad ogni accaloramento morale e politico, bensì aperto al flusso e riflusso delle sensazioni. – pag. 8 – Egli non si impensierisce, non ricerca più in , non compiange, non ride, non si sdegna; la sua sola emozione sembra che sia nel non averne nessuna. – pag. 13Codesta è passibilità glaciale; egli è un frigido, patologicamente; e perciò dovrà a freddo scuotersi, con reagenti brutalissimi; ricorrerà al sadismo, si compiacerà di rovesciarsi con spettacoli sanguinosi, malsani e crudeli sulle sue pagine. – Poi ne' che gli sembrano opportuni, fingerà la pietà, l'interessamento sociale; tenterà di capire e di foggiarsi una filosofia: è qui che meglio si imbugiarda e mente: non ha mai però osato tentar due corde che sono troppo da lui lontano, lo sdegno guerriero della ragione feroce, ed il riso, l'agile peltaste del buon senso. – pag. 88 – Ché egli è un patico; egli non sa reagire, battuto, se non colla ingiuria plebea, dimostrando così donde nasce e con chi pratica; la plebe della coltura e della vita, che mal si lascia inverniciar anche dalla più aderente aristocrazia intelettuale. Egli fu e rimarrà sempre un pifferaro in gran sussiego.



xxii  Heine



xxiii  Jean Paul Richter.



xxiv  Vedi: Reminiscenze ed Imitazioni etcc. – Terza aggiunta alle "Fonti d'annunziane". Anno X, Fasc. IV, 20 Luglio 1912, La Critica, L'articolo è di G. BOTTA.



xxv        D'Annunzio ci tiene ad essere considerato cruschevole; è un gusto come un altro e glielo lascio: altri ama amar all'invertita, seguendo le norme della Dzohara cabila e vi si diverte. Ho sempre pensato, invece, ed operato di conseguenza, che il vero creatore, il poeta e letterato operatore non sopporti il già trovato, ma trovi egli stesso il nuovo ed il migliore. Arricchire il vocabolario, dar lavoro ai dotti de' lessici e delle gramatiche, rendere nobile tutto ciò egli dica, sì che la Crusca se ne impadronisca e lo rinserri nei suoi avarissimi forzieri, è opera di Poeta: attingere dai vocabolari a piene secchieRebecca al pozzo – per rovesciarle dentro la prosa, diluendone il magro concetto, è fatica di pedante frigido ed impotente. Ma voi di questa venerazione d'annunziana verso il purismo, che i miei avversarii m'imputano di non avere, potreste dubitare, tacciandomi di esercitar sopra un si dice la mia argomentazione: D'Annunzio stesso ve ne farà persuasi; leggete qui una lettera che sollecita il barone A. Lumbroso – ex stendhaliano, dacché s'innamorò del Pescarese, in modo da rendergli questi reputatissimi e minuti servigi – e divulga dalla sua Rivista di Roma che già, sotto la suggestione dell'ineffabile professor Lanzalone, quacquero e nazionalista della moralità delle strade, accusava il poeta per via della sua carnalità. Ma Lumbroso, libero ora di sé ed agitato dalla stessa incontinenza d'annunziana, ripara e recita il mea culpa: comunque, Dio li fa, li disgiunge e poi li appaja, come, del resto, li adulteri, che, se invecchiano, tornano a coucher avec la femina permessa dal sindaco e dal prete. Ma eccovi li spunti glottologici che il D'Annunzio fa saper d'aver saputo, avendo alcun critico fatto riserve sulla purezza di certi vocaboli usati da lui nelle Canzoni delle geste d'oltre mare:

            "Bramire è registrato dal Tommasèo nel suo Dizionario. Chiomoso è adoperato anche dal Varchi: 'L'esser chiomoso, cioè aver zazzera...', Camòra si trova di frequente negli inventarii estensi; Estuare è registrato dal Tommasèo, che reca appunto nel senso figurato l'esempio Batt. Albert. op. 1, 34: 'Questo sarebbe un perpetuo estuare coll'animo...'. Guisa, per 'foggia di vestiario', è più che legittimo. Il Boccaccio: 'Una roba alla lor guisa saracinesca...'. L'Alamanni: 'Di dieci robe che a lor guisa fanno...'. È difficilissimo, amico mio, cogliermi in fallo. A proposito delle Canzoni, un giovine poeta di molto ingegno, non senza una punta di pedanteria che assai mi piace (– questo giovane poeta deve essere Sem Benelli –), mi accusava di usare il 'dovunque' in forza di 'in ogni luogo'. Ora nelle Vite dei SS. Padri, 2, 166, si trova: 'Lo Monaco... se ricorre a Dio, dovunque può fare dolcezza di buone opere'. Il medesimo mi accusava di aver usato mai senza la negazione. Ora spesso l'usa il Boccaccio: 'Ti priego che mai ad alcuna persona dichi d'avermi veduta'. E il Caro: 'Voglio ben che sappiate che, per non avervi scritto, sono mai però restato d'operare per voi'. Ed egli, toscanissimo, dimenticava anche il linguaggio parlato nel proverbio: 'Cosa fatta e vigna posta, mai si paga quanto costa'. Un altro prova d'infinita leggerezza scrivendo: 'Io non so con quale diritto e con quanta utilità il d'Annunzio possa, a suo piacimento, cambiare il significato dei vocaboli' (!!!). Quando? come? dove? Mi glorio d'essere, tra i cruschevoli, cruschevolissimo".

            Prosit!



xxvi       Sì, bevete e mangiate in questo banchetto insolito e copioso di letteratura, dove il cibreo è il piatto principe e la farcita assomma i sapori di tutti li autori nostrani e stranieri. Mangiatene, ma ricordatevi che il troppo significa indigestione, fors'anche avvelenarsi: ricordate, intanto, anche il nostro Medico-Poeta Raiberti:

            "Pacciada? Sì: la vita l'è on disnà". (L'Avarizia).



xxvii       I saputi vi verranno a dire che la divisa "Per non dormire" fu una trovata in ringraziamento della fortuna, accolta in una notte, da Benuccio Salimbeni, mercante senese; il quale, venuto nel 1388 alla fiera di Senigallia, che si teneva dal 10 luglio al 10 agosto, e nella prima notte del suo arrivo non avendovi trovato dimora, tanto le taverne e l'osterie rigurgitavano di forestieri, la passò all'aperto: così, per ingannare le ore notturne, Benuccio andò facendo incetta di drappi, arazzi, balle di seta, in modo d'essere alla mattina padrone del mercato col suo trust per non aver dormito. – Logico il ringraziamento alla fortuna: per grazia ricevuta: in Siena, ritornatovi, costruì palazzi e fondaci e magazzini, nel chiasso Rinaldini firmandone le colonne, i frontoni, li architravi delle finestre colla sigla del Per non dormire. – Oggi, che il D'Annunzio si creda il despota del mercato librario italiano col suo Treves non nego; ma l'imperatore di poesia nego: perciò non dorma pure, scapiterà in salute. Bisogna dormire invece, perché ogni giorno di sole sia giorno di lavoro proficuo e bello; bisogna sapere l'arte del riposo; e se sforzando la nostra indole noi pur troppo l'abbiamo disimparata dai latini padri imitiamola dalli Inglesi isolari. Emuliamo anche la loro letteratura, che, per quanto romantica, ci fa svergognare dalle ultime classiche stramberie d'ubriachi; cerchiamo di essere liberi e sereni come Orazio e Wordsworth, che mira ad insegnare la savia passività, l'ineffabile compenso dell'arte e della scienza di ben riposare, per cui codesto poeta della saggezza si piega ad accogliere come spunti di universalità, nell'equilibrio dello spirito, le grazie multiple e le mille soddisfazioni delle piccole cose; sì che l'anima distilli il profumo del minimo e se ne compiaccia e ne foggi un motivo pel canto entusiasta e magnifico del massimo: ma un D'Annunzio non dorme.



xxviii      In fatti, alcune volte ci incontriamo, nell'opera d'annunziana, in alcuni risultati di plastica verbale veramente ammirabili e perfetti da farci domandare con insistenza: "Se qui manca, in genere, ciò che dovrebbe essere prodotto dalla ragionata genialità, dallo sforzo proficuo e volontario della intelligenza, come si possono raggiungere queste bellezze?". – Può soccorrere alla nostra maraviglia Descartes, quando parla dell'istinto: "La ragione è uno strumento universale che ci serve ad ogni incontro; li organi de' bruti hanno bisogno di qualche particolare disposizione per ciascuna azione particolare". Potete ammettere, che, per l'azion specifica, – letteratura d'annunziana – il nostro autore sia dotato di organi specialissimi ad hoc: ma, modernamente, non istarò a parlarvi di istinto essendo questo or mai un vocabolo prettamente metafisico, avendosi voluto appunto distinguere con ciò la razionalità dell'animale da quella dell'uomo. Ora, questa differenza di qualità la scienza non più ammette, sì bene l'altra di quantità; ciò ch'io stesso applico, per esempio, rispetto a Foscolo per allontanargli quanto più posso D'Annunzio.



xxix       La morte? La teme, ne è indifferente, la desidera D'Annunzio? Al fatto; non lo si sa. Ma noi sappiamo pure, che, qualche anno fa, egli aveva preordinato al professor Castellucci, architetto dell'opera del Duomo di Firenze, di costruire un'arca per la sua tomba di stile bizantino, ornata da sculture allegoriche, da collocarsi alla foce del fiume Pescara. L'idea è stracca, come del resto ogni idea che papagalleggia il suo cervello. Ma il Guerino milanese lo interrogò: "Maestro, che pensieri melanconici! Lei, il cantore della vita, pensare alla morte?". – E l'altro abboccava: "Lo spirito molteplice pensa tutto: a l'alba livida imagina il tramonto rosso. Un tale pensiero non è funesto, è nitido, e lucido... I miei petali sono virenti; il cesto delle mie foglie è ben fatto e sparto: ecc..., io... E ancora cibo di fama apprestarono la gente a i miei banchetti". – "E poi?" insinua il Guerino. – "Poi, divulgai la voce di consumare sigarette di ottantamila franchi il pacchetto", già furono quelle 80.000 lire che il Divo-Tenore in Poesia aveva rifiutato, ad acque basse, per una tournée in America del Nord, rispondendo, che, tanto, non bastavano per le sue sigarette: – e la morte col relativo sarcofago andava in fumo. – Finché non riapparisse in una intervista, che lasciò scrivere al sig. Ugo Falena, parmi, sul Secolo; nella quale era detto, che un giovane poeta, che vive a Milano, ottimo figliuolo di molto ingegno e, quantunque non cinese, illustre di un nome monosillabico, avrebbe, in un brindisi di fine di mensa, libato alla morte di D'Annunzio. – Si commuove il Sem Benelli, pel monosillabo e corre subito a scolparsi prima d'essere incolpato – ed io che son Gian a non credermi designato. Vero è che a me non offrono banchetti con terminali augurii di brindisi in champagne: comunque Sem – niente Chinese, ma assai Ebraico, parmi – fa pubblicare. Leggete:

            "Ora, siccome io sono poeta (non c'è che dire: è tutto merito mio), son giovane, vivo a Milano, son un ottimo figliuolo (fino a un certo punto), ho molto ingegno, non sono cinese (sebbene adori la filosofia della Gran Muraglia), ed ho un nome monosillabico, non vorrei che i pochissimi amici e i pochi lettori miei mi credessero anche così divertente. Perciò avverto, per mezzo del suo cortese giornale, la mia clientela letteraria che non sono io quello spiritoso banchettatore. Già io non banchetto e non alzo il gomito.

            Se qualcuno poi mi credesse sul serio la causa di questo pettegolezzo letterario (oh, i letterati!) passi da casa mia o mi fermi per la strada. Allora alzerò il gomito.

            E qui bisognerebbe che io augurassi lunga vita al Maestro, quantunque non sia una Madame Hortense. Non ce n'è bisogno: egli sa che io gli sono amico, anche se non sono un d'annunziano: del che mi posso anche vantare.

            Con tante grazie, la saluto devotamente

            Sem Benelli.

            Berthemont – sulle Alpi".

            Persuasi? – Ma, testè, a Parigi, una fattucchiera, o fors'anche l'amico suo Pierre Loti, necromante in belle lettere, non avvisava il D'Annunzio che cinque sole settimane gli rimanevano di vita? – Che fa? non si scompone. Cerca di morire cristianamente poi che si trovava sulla via nuova della santità, come lo aveva scritto al suo conterraneo Paolo Orano; e racimola e spigola sopra sé stesso tutto quanto aveva già foraggiato su quello delli altri: Le Faville del Maglio, cioè le gemme preziose e le scorie che non aveva potuto ancora intarsiare ad un suo mobile completo, come impiallacciatura. Per intanto si abbatte nella Contemplazione della Morte. Gli sovvenne quel antipaticissimo Trionfo della Morte del frigido ed egoista Petrarca, morto vecchio con buon numero di figli naturali ed adulterini, abate beneficiario senza obblighi di pingue canonicato? Si appressò con cuore commosso al giovanile Appressamento alla Morte del Leopardi, terzine rudi e disincantate, di cui il verso non somiglia alla soave semplicità di quello del Passero solitario? Meglio al primo che al secondo: vi portò sua prosa. Oh, miracolo del girellismo poetico! D'Annunzio tornava francescano, suadeva il consiglio di Pascoli. Costui aveva pur detto a Gemma Ferruggia passata per Bologna, e che lo aveva interrogato: "Bisogna ch'egli abbia lezioni di Povertà!" e tendeva alla visitatrice un libretto legato in pergamena: Regola e Testamento del Beato Francesco. Nello spazio tra l'ultima pagina e la copertina, trattenuto da un leggiero filo rosso, era una penna. "Con questa penna vile", disse Pascoli sorridendo, "Gabriele ha scritto una promessa"; da fargli il panegirico post mortem. D'Annunzio si è liberato di un competitore che potea dargli noja, per questi ultimi , in istrioneria. Avete mai notato come Pascoli si era fatto molto D'Annunzio? Oh, li amici dei poeti di moda! – Ma la morte, la teme, ne è indifferente? Ma no; gli giova; sopra una nuova tomba un libretto di più; colla sua firma rende sul mercato.



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