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D'Annunzio
commemora Carducci
(1907)
Ah! se, invece di farlo atterrare, ci si fosse impiccato ad uno dei suoi rami! Oh! quanto quel pino sarebbe stato a cento doppi più utile alla umanità!
Fr. Enotrio Ladenarda, Feticisti Carducciani.
Era ancora calda la salma di Giosuè Carducci, quando l'impazienzaxxx dell'Abruzzese, mirando non solo a porre la sua candidatura, ma ad occupargli direttamente lo stallo del consolato letterario, mandava, per telegrafo, alla vedova di lui codeste parole di condoglianza:
Il più devoto e il più beneficato dei discepoli – (proprio, alla parola beneficato non posso trattenermi dal pensare un'altra volta a Guido Piaccianteo del Pappafico ed alle sue relazioni col Barbagallo), – non osa rivolgere la parola del conforto alla compagna del Maestro, che non patisce il fato comune. Per tale eroe la morte non è fine, ma cominciamento. Questo sentono gli spiriti liberi, che, stanotte, nell'intera Italia, lo veglieranno presente e sperante più che nel pienissimo giorno della sua grande lotta e del suo grande lavoro.
Intanto, in che cosa D'Annunzio dovesse chiamarsi beneficato non so; forse perché l'indifferenza del Carducci per lui, tacendo, gli aveva permesso il libito anche di chiamarlo: suo maestro: e se riflettiamo poi alla supponenza di vegliarlo cogli spiriti liberi, ci par tal cosa da farci stranire, pensando come la libertà d'annunziana consista più tosto nel non tenere alla parola dataxxxi, nel non far onore alla propria firma, nello eludere alle promesse, anche coll'esilio, – ingrata patria! – e più ingrati creditori – che non nel proteggere le ragioni e le azioni per cui si giunge a libertà. Sarà bene, per sincerarsene, dare un'occhiata ai rapporti Carducci-D'Annunzio e dopo sapremo con maggior esattezza perché il primo non possa mai essere il maestro del secondo, ed io vi ajuterò nella prova, più sotto. Il 18 Febbrajo 1907, avvenivano i solenni funebri, in Bologna, del Poeta di Satana. F.T. Marinetti vi era accorso: nelle voci della folla si udivano false designazioni di persona: si domandava dov'era Gabriele D'Annunzio, l'erede, oggi, regnante; uno studente, con intonazione ironica: "Si è fatto sostituire da una rama di pino italico, incravattata da un nastro, su cui sono ricamate le parole: 'Ho colto io stesso questa verde rama sulle colline in fiore, vicino al monte Gabberi, che descrissi nel mio omaggio poetico a Giosuè Carducci, in sul penultimo canto del mio poema Laus Vitae'". Sì che per parlare molto di sé potevasi anche, incidentalmente nominare il defunto. – Si osservava, intanto, una caricatura dell'Abruzzese, che, piccolino, dipinto sopra lunghissimi trampoli, si sforzava di raggiungere il naso dominatore e sprezzatore di un Dante colossale: la vignetta sgargiava coi suoi colori plebei, a richiamo, da ogni mostra ed edicola di giornalai, lungo il percorso della apoteosi. – Ché, anche, e provvidamente, i trampoli con più alti sono e meglio son fragili;... "ed ecco, che, tutto ad un tratto, volgendo il corteo per la Porta Mazzini si accende una colluttazione tra la folla variopinta delli studenti; però che quello di loro, che portava la rama del pino, l'aveva abbandonata nel fango. Volontariamente o no; chi sa?... Comunque, i monelli se ne erano impossessato, ed i carabinieri offembacchiani per assai tempo rimasero a disputar loro, nel parapiglia, il nastro reclamista di Gabriele D'Annunzio" calpestato e sudicio. Era la prima protesta d'imperio già vana, che la santa plebe immacolata giustiziava senz'altro nel capo.
Il 21 Febbraio 1907, il più grande giornale italico, che è però Corriere della Sera, stampava, in prima pagina, in corsivo molto interlineato, l'epinicio "Per la tomba di Giosuè Carducci"; una canzone, che, per grettezza e stiracchiatura di pensieri, precede le più brutte terzine che canteranno l'impresa libica. Qui, vi si trovava del Frugoni, e si leggevano versi di questa fatta:
"che fece il santo Nome a noi più santo"
in cui il vietissimo concettino arcadico è pur genuino nell'ampollosità dell'artificio. (Fa pur tesoro, che, per necessità di rima abbiamo questo elegantissimo participio passato passivo: risplenduto!, una meraviglia di suono e di luce, come vedete). Il componimentino scolastico, affannoso, catarrale, pieno di ansimi e di fatiche, senza commozione, senza entusiasmo, era quel compito che tutt'ora l'Académie Française obbliga all'occupatore del seggio verso chi glielo lasciò vacante, per superstite cortigianeria inutile. Una sola battuta rispondeva al vero desiderio e bisogno d'annunziano; quella che guasconeggia nel troppo noto commiato, dove, confondendo senza nessuna autorità le due parti, egli si accordava senz'altro, sotto l'investitura simbolica di una fiaccola accesa, la successione immediata della dittaturaxxxii, che non gli si riconosce.
Non importa: la canzone gli diè la data certa della presa violenta di possesso del magistero assoluto della poesia italiana; e, nella sorpresa, non vi fu alcuno, che, tratto dall'indignazione fuori dal galateo, non abbia gridato forte: "Abbasso il ciurmatore!".
Che anzi, il successivo 25 Marzo, domenica delle Palme, con faccia di bronzo ed ardire da filibustiere di palcoscenico, Gabriele D'Annunzio si rappresentava al Lirico teatro milanese, nella commemorazione di Giosuè Carducci. Se ne commoveva anche il Guerino: nella Gabriellazione di Giosuè Carduccixxxiii, dava il testo esatto ed unico del Dantunzio: "Ne l'adunazione de i miti pelasgici uno mi piace eleggerne oggi – mentre la città, che colora con li auri di Micene il riso dei suoi conviti, appare mutila e sospesa a 'l mio afflato..."; onde le due opposite caricature esponevano la calvizie dell'allora sindaco di Milano a riflettere il volto del poeta, e, viceversa, quella del primo cantore d'Italia a far da specchio alla grinta del primo magistrato di Paneropoli:
Allo scambiarsi dei salamelecchi,
Nei reciproci crani rilucenti,
Contemplare potran come in ispecchi
Chiari riflessi i proprii lineamenti.
Quale onore! L'assemblea delli snobs, che era accorsa a pagare e ad applaudire il proprio rappresentante, il quale non ne sentiva vergogna, riudì un'altra volta, nell'elogio per Carducci, assolto nella vasta osteria dello stile d'annunziano, il vuoto della sua mente, l'albagia delle parole prese ad imprestito, la glorificazione del piccolissimo io, che si sostituiva, senza giudizio e misura al Maremmano, con arbitrio e violenza da usurpatore. L'avventuriero aveva afferrato l'unico ciuffo della Fortuna a volo; dominava, in una sala da teatro, pubblico da teatri, comediante in fortuna. Non tutta Italia poteva essergli, domani, un prosteso Montecarlo per le sue cupidigie, che variano motivi tra la cocotte in voga e l'equivoco gentiluomo brasiliano? Ma tanto forte, del resto, tenne la ciocca non salda al cranio della vaghissima calva ed incostante, che, per non averla potuto di poi seguire nel pieno volo, i crini gli si svelsero in pugno; per cui, come Icaro, procombette non in mare, ma nella melma di una palude, ancora.
Di quel tempo, l'orgoglio dell'umile sottoscritto, non chiedendo a nessuno il permesso e la facoltà di commemorare Giosuè Carducci – certo il più degno poeta di una Italia, che contrastò a sé stessa, quando si piegò alla servitù regia, per fiacchezza e tornaconto, incapace di eleggere il sacrificio generoso per l'integrale repubblica, di cui non potrà far senza se non vorrà morire, come nazione, in faccia all'Europa –; di quel tempo, uscivano in Varazze, il 5 Marzo 1907, centoventicinque esemplari di Ai Mani gloriosi di Giosuè Carducci, però che mi era doveroso, per l'arte mia, su di lui una parola. Ed oggi, sull'argomento che ci occupa, ne ridò queste quattro pagine che completano la mia opinione sulla indegnità d'annunziana non solo a continuare, ma pur a commemorare l'epico di Ça-ira.
"Un altro, del resto, vien qui a sorgere con tutte le pretese del polledro ben quotato dai book-mackers, ma stanco dalle faticose vittorie riportate e già sfiancato per l'affanno di presentarsi, sopra ogni campo di corsa. Ed è l'Abruzzese dall'erotismo inquieto, che si mise presto in bacheca coi suoi iperuomini da un soldo, che grida e fa gridare a squarciagola il suo nome di successore: colui che meno delli altri può riceverne l'eredità. A lui non giova, nel commiato alla ballata: Per la tomba di Giosuè Carducci, affidarsi:
Canzon, tu vammi ostaggio
ch'io guarderò mia fede a Lui che parte.
La fiaccola, che viva Ei mi commette,
l'agiterò su le più aspre vette.
A lui non profitta, per la buona accoglienza presso i migliori, mandare un ramo di pino, svelto dai monti della Lunigiana, perché buon senso e cordoglio di popolo ne han fatto giustizia e lo han trascinato, lungi dalla bara, ai rifiuti: solo i suoi valletti, che qualche volta gli si ribellano, in urla incomposte di schiavi mal nutriti, possono suscitarlo erede, sulla rinomea dei fogli estemporanei. Noi sorridiamo e lasciamo passare il corteggio carnevalesco, al seguito del più compito istrione dell'attuale letteratura. – Se il Pescarese fosse stato alla scuola di Carducci, avrebbe riformato, collo stile, la vita che gli nuoce, come le sue opere lo svisano. Si sarebbe riserbato sereno, sincero e profondo; non turbolento ed epilettico; non ricercatore di mostri francesi e slavi; non ad accogliere tutte le abberrazioni della moda forestiera; non a vestire di imagini italiane e meridionali, concetti, sostanze non sue, accattate qua e là, nel vagabondaggio estetico, nelle peregrinazioni insoddisfatte. Ed è mancanza di coraggio la sua e d'altri l'aver aspettato, oggi, quando il Maestro non può più scacciarlo, a volerlo panegirista di chi non ha mai né compreso, né ammirato prima. – Stia invece, un po' più grandicello, tra quei minimi che ripullularono al suo fomento, vagellante tra l'estasi prerafaellita e primitiva di Francesco d'Assisi e le perversità ricercate ed anomale del Wilde e del Sacher Masoch. Si unisca alli altri pulcini pascoliani, covati dall'incubatrice artificiale per mancanza di calor naturale della chioccia: ruzzoli al becchime ventilato dalle mani parsimoniose della massaia; e tutti starnazzando le ali accorrano colli occhietti lagrimosi: Arcadi di campagne corrotte dal miasma e dalla pellagra, intenti ad un gorgheggio di uccello, ad un gracidar di rana, speranze pigre, affette da precoce senilità, per accontentarsi di vaghi ideali, di egoismi di pace, di amore e di benessere meschini che sono una vigliaccheria.
Se il presuntuoso compilatore di parlate reboanti non avesse pontificato troppo presto tra la sua corte maggiore, ma si fosse accostato, nelli anni gagliardi, a scuola buona, avrebbe udito ripetere: 'Da mexxxiv non troppe cose avete imparato, ma io ho voluto certo e sempre educarvi a questi concetti: anteporre, nella vita, spogliando i vecchi abiti di una società guasta, l'essere al parere, il dovere al piacere: mirare, nell'arte, anzi alla semplicità che all'artifizio, anzi alla grazia che alla maniera, anzi alla forza che alla pompa, anzi alla verità ed alla giustizia che alla gloria. Questo ho sempre voluto ispirarvi e di questo sento non mancarmi la ferma coscienza. Quanto a ciò che è più speciale officio didattico, io, accettando dalla scienza e dottrina moderna tutto che queste due grandi forze mi danno, ho pur cercato di levarvi all'idealità; ho cercato di conservare in voi, di alimentare e di disotterrare in voi la grande tradizione nazionale della quale un maestro di lettere italiane deve essere difensore e custode'. – Ma questo nessuno glielo mormorò, meritorio disinganno, all'orecchio, né vide Carducci balzare, dopo di aver spiegato un sonetto del Petrarca, battendo un pugno sulla catedra ed esclamare, trasportato dall'ammirazione per la soavissima lettura, alla condanna dell'ambizioso artificio moderno: 'Noi stempriamo in biacca la porca anima nostra!'.
Con più esatte parole non si poteva giudicare e condannare il carattere della letteratura d'annunziana, avventizia confusione, incomposta e strepitosa frenesia, capanna di recente costruita, ma di vetusti e stranieri materiali, sorta in mezzo ad un altro Bosco Parrasio, non già fiorito di pratoline e di violette, né rallegrato da ragli d'asino e da belati d'amore, ma ricco d'orchidee mostruose e sardoniche, tumultuoso di singulti, di risa, di strida, come un giardino di manicomio. Qui farneticano tutti i poveri difetti della mancanza di volontà dove, anche, un grande vizio manca, pel quale, almeno, la superbia luciferina e dispotica avrebbe potuto vantarsi su qualche motivo; ed è da questo luogo, che i quattro industriali speculatori, rappresentativi magistrati, di una tra le massime città d'Italia chiamano, perché concorra a declamare la grande commemorazione, Gabriele D'Annunzio, alla ribalta di un teatro, come gli conviene, bardassa di spettacoli tra ridicoli e deplorati. Accetta, contromanda, tenore meticoloso a cui s'arrochi la voce, attore in dubio e non abbastanza preparato: accorre. Più di tutti illuso, giocondato dalla sua illusione: e vi rimanga smemorato delle passate lezioni, per la vicina sconfitta; la quale tanto più gli sarà completa e dolorosa, in quanto è meno prevista, tra il magnificare del suo supporsi ridicolo ed esautorato".