Gian Pietro Lucini
D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo

...quand'ecco il maestro ridicolo (1908)

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...quand'ecco
il maestro ridicolo
(1908)

Cercai in alto; vidi l'ombra nasuta e torbida di Dante; a, Evoèh dissi, io mieterò a le tue gran vendemmie, su le cime petrose de la tua rinomanza, a le tue aspre vigne distorte tra il macigno e la ghiaccia sapide de 'l ferrame rovente da i succhi sanguigni, scarmigliate da li uragani di Pluto. E a le genti distratte da me vociferai: io sono il Dante novello: "egli l'uno, io il due, egli radice, io la vetta, egli il principio, io la fine". E mi transustanziai...: Dante sono! Dante sono.

Guerino, La Tomba di Dantunzio.

Eravamo in pieno trionfo d'annunziano: l'entusiasmo per lui era traboccato in sulla piazzaxxxv: "mentre le aristocrazie intellettuali abbandonavano sazie l'artista indebolito, il pubblico, che aveva deriso ed oltraggiato anche le Laudi, era venuto a lui unanime": quel pubblico però che ci governa e si addestra con

Guerre, Sgualdrine, Spettacoli e Galere;

proprio la nostra plebe vestita di seta e di fustagno, ingiojellata di brillanti e di ulceri sifilitiche, facilona e sbraitona, che forma il ventre d'Italia, donde si evacuano i proprii legislatori, il proprio Governo, la coda gajetta e degna della monarchia. Su questa pusillanimità di vita e di giudizio, di critica e di compiacimento, D'Annunzio aveva vibrato la propria indignazione dopo la clamorosa caduta di Più che l'amore; buon giuoco istrionesco impune e facile su terga chine e spianate. Indi, si era fatto inalzare in sulli scudi di latta e di carta pesta dei Clipeati di La Nave; e furono in fatti i macellaretti, i fruttivendoli di Trastevere, li equivochi Ciceroni di Piazza Navona e di Piazza San Pietro, i vaghi modelli di nudo delli studii internazionali, i dubii efebi catamiti della capitale d'Italia e dell'orbe cattolico; sì, i Clipeati retti dal maestro di scena in turbolento corpo di ballo promiscuo, i suoi legionarii che lo inalzarono, dallo spolverio della luce elettrica di sul pulverolento palcoscenico, tra i posticci, le quinte ed i trucchi del dietro-scena, al maggior onore della lirica nostrana.

Se non che non tutti, e, fortunatamente, per il piacere della varietà nella specie e per l'onore del carattere umano, non tutti si sentirono di tempra ed insensibile insieme per accondiscendere al desiderio dominatore del Divo; alcuni insorsero. Tra questi è bene notare l'austero e costante repubblicano Arcangelo Ghisleri, che di sulle colonne della Ragione, in un suo numero del Maggio 1908, volle prendersi la responsabilità di non pensarla come la plebe e di dirlo in faccia ai mignoni ed alli interessati, più per ragione di critica politica e sociale, che non per giusta attestazione di critica letteraria. Vi piaccia leggere, qui, l'articolo che risponde perfettamente alle mie vedute sull'argomento e che è bene venga conservato su fogli meno avventurosi all'oblio come quelli di un giornale; tanto più che fu l'elaterio per cui anticipai, rispondendogli sulla stessa gazzetta, alcune pagine del Verso Libero, alla conoscenza pubblica impaziente, come vedrete, di assecondare l'amico nella sua nobile protesta generosa.

Istrionismo e pusillanimità

"Ci pare ormai tempo che si dica pane al pane e pazzo ai pazzi, anche se questi si chiamino Gabriele D'Annunzio. Sono parecchi i cittadini non analfabeti e non illetterati, che con tutta la buona volontà di entusiasmarsi pel divo del giorno, non ci riescono; e i più miti si domandano se sia venuta meno in loro la sensibilità estetica, o la intelligenza, che pur li soccorre nel trovar sempre belle le pagine belle di tanti altri scrittori nostri di ogni secolo.

Noi faremo qui una sola considerazione, la quale raccomandiamo ai dilettanti di critica e di filosofia estetica. Per chiunque non abbia smarrito il cervello e non sia digiuno della storia e letteratura nazionale, il 'genio della nostra stirpe' si caratterizza specialmente per una costante limpidezza di concezione e per un meraviglioso buon senso, che è poi il senso del vero, della misura e della realtà – come nei migliori tempi e nelle loro migliori opere attestarono i Romani antichi e gli italiani del Rinascimento e tutti i grandi scrittori nostri da Dante a Boccaccio sino al Manzoni e al Carducci.

Noi assistiamo invece, da un decennio in qua, a una fenomenologia di aberrazioni appetto alle quali impallidiscono le peggiori follie del seicentismo politico e letterario, quando, smarrito il senso della verità e della dignità personale, l'adulazione e il rococò riempivano di boriose inutilità l'inutilissima vita delle classi più inutili.

Il D'Annunzio, morto il Carducci, è stato acclamato da sé e dai suoi adulatori, il primo, il più gran poeta vivente. Triste constatazione, sarebbe, della povertà e degenerazione intellettuale a cui ci avrebbe ridotti la diseducazione di un regime politico falso, smidollatore e turlupinatore, che non per sole ragioni politiche noi giudichiamo nefasto al carattere, al genio e al destino della nazione.

Ma per quanto dicemmo sopra del carattere vero del genio di nostra stirpe, in nome del buon senso, che è insieme senso del vero, della misura e della realtà, – il quale in estetica si chiama semplicità, nell'etica è sincerità e nella vita pubblica è serietà non istrionismo – noi invitiamo quanti non sono dei pusillanimi a ribellarsi 'in nome appunto del genio di nostra stirpe' a codesto spaccio trionfante di ciarlataneria parolaia, di reminiscenze indigeste, di erudizione ostentata a sproposito e senza costrutto, di egotismo e di sadismo da manicomio, che s'incarna nel signor Gabriele D'Annunzio.

Per un esempio tra mille, eccovi il testo del brindisi col quale egli rispose al saluto dell'assessore Poggi, del professor Morselli e del poeta Ceccardi (il quale disse ornate ma veramente belle cose di circostanza) nel banchetto o maggiolata offertagli a Genova ieri l'altro:

Ringrazio i continuatori diurnali di Caffaro, ringrazio il nuovo console dell'arte, il nobile poeta apuano, il dottore dell'anima sapientissimo ed eloquentissimo e i colleghi e gli amici che così lietamente, su questo promontorio degno di un trofeo, più che di un barbarico kulm, hanno voluto festeggiare l'incontro di San Marco con 'lo beo San Giorgio' come direbbe Biagio Assereto, l'eroe navale di Ponza, il buon popolano fucilatore e imprigionatore di re, la cui grande ombra si alza ora da Rapallo e ci vela il sole. – 'Su questo terreno d'Ulisse, donde la formidabile energia ligure irradiò per le vie del mondo scoprendole e tentandole tutte, fu celebrato stanotte quel mare ove Lamba Doria gittò il baciato cadavere del figlio ché avesse per tomba il luogo della vittoria, come più tardi volle per tomba il luogo della sconfitta Faà Di Bruno invendicato. Da Oriente ad Occidente, per gli spiriti fedeli, tutte le memorie si confusero in un egual cielo glorioso. Ora, quando la forza della stirpe sente che il passato esiste, sente anche vivo e certo nel suo pugno l'avvenire. Io non oso levare il breve calice all'augurio. Mi imagino su questo Mediterraneo, specchio dell'ideale, ove splende in eterno la luce delle tre rivelazioni – ove la Grecia rivelò il Bello, Roma il Giusto, Giudea il Santoimagino il genio della città, simile a Cintraco che giurava sull'anima del popolo, levare in alto la leggendaria coppa smeraldina tolta a Cesarea dall'esploratore Guglielmo Embriaco, e ripetere la semplice rude parola antica: – Cristo ne presta grazia che noi possiamo andare di bene in meglio! – Risponda la nostra fede come il popolo primo dei mercatanti e dei naviganti in Parlamento: 'Fiat! Fiat!'.

Date di questa prosa a modello degli studenti ginnasiali e poi ditemi che razza di rètori alleveremo alla nuova Italia. Si disse tanto male della pedagogia letteraria dei gesuiti, coltivatori di frasi e di parole senza pensiero, dei loro Segneri, Bartoli e simili virtuosi della erudizione e del dizionario: D'Annunzio li ha sorpassati.

Noi sappiamo di molti cittadini italiani non analfabeti e non illetterati, i quali la pensano in proposito come noi, ma sono dei pusillanimi. Con tutto il buon volere di entusiasmarsi per le ultime espettorazioni dell'imaginifico, non ci riescono; ma pur non commovendosi e il più delle volte anzi trovandolo indeterminato, farraginoso e confuso al punto di domandarsi che cosa abbia voluto dire, non osano 'mancar di galateo'. Perché questa specie di Kaiser Guglielmo del Parnaso – anch'esso, come l'altro di Berlino, in perpetua adorazione di sé medesimo, e sempre in cerca di pose che sorprendano o facciano stupire – ha una turba di suoi pretoriani acclamatori; e molti pusillanimi fingono essi pure di andare in visibilio, per non parere degli analfabeti o dei cretini...

Noi li esortiamo ad avere un po' di coraggio. Dicano francamente che non si entusiasmano, che non capiscono, che non trovano da elogiare affatto. Per ragioni letterarie, estetiche ed anche per un sentimento di dignità nazionale noi protestiamo altamente contro codesto istrionismo e barocchismo, giunto all'ultimo stadio.

Protestiamo in nome appunto del 'genio di nostra gente' da Machiavelli a Mazzini, dal Redi al Giusti, dal Galileo al Cattaneo.

A. Ghisleri"

Arcangelo Ghisleri aveva messo il dito sulla piaga senza pietà e vi insisteva, coll'unghia lacerando il guasto e togliendolo da buon chirurgo; ed a me non pareva vero di trovar motivo di parlar prima del tempo, ed anche adesso, perché la piaga continua, per quanto si sia ridotto l'emascolatore al di delle Alpi. Inviai subito i miei periodi all'amico con questa premonizione.

"Caro Ghisleri,

Ottimo il vostro articolo 'Istrionismo e pusillanimità'. Due vizii attuali indicati dal Caso D'Annunzio, e ch'io, se ve ne ricordate, ho già avvisato in sulle quinte colonne della Italia del Popolo, quando vi teneva rubrica letteraria.

Oggi, vi mando sull'argomento queste bozze del mio volume prossimo ad uscire: Il Verso libero; leggetele e fatele leggere, perché almeno, coloro che vogliono intendersene, sappiano che non a tutti i letterati d'Italia fa soperchio l'albagia di questo diminuito Ovidio pescarese, né s'impongono le rinomee sgolate dai moretti interessati del seguito.

Giova ai diurnali considerati dalla pubblica platealità, ed a tutti i ricalcatori della Arcadia, prestarsi ai motivetti della sua retorica; ma se ne sdegna la virilità dell'animo nostro, dentro cui non sviene l'intermittenza erotica, né farnetica la metafora spumante. Quando una Nazione è presa dal miele delli aggettivi troppo ricchi, è vicina a perdere il concetto reale e sicuro del sostantivo di carattere. Pur troppo, oggi, bizantinamente il bluff nord-americano ha trovato qui elementi di vita e fomento di successi. La meridionalità della troppo prolissa loquela se ne avvantaggia; ma è doveroso che il buon senso, l'eleganza nativa, la nostra sincerità si ribellino e facciano riudire, in questo vento di vuota sonorità, in questo delirio di deficienti e d'invertiti, in questa fregola pazzesca di isterismo solleticato, la loro parola che convince, attesta e proclama, sopra la vigliaccheria di coloro che tengono il mercato, l'antico coraggio e la dignitosa franchezza.

Ed a voi, tra i primi ad accusare il pericolo ed il danno, applaudo ed ho nuovo piacere di riconfermare quanto mi siete caro, e come l'opera vostra, in tempi che dissolvono, sia preziosa per nostra repubblicana italianità.

Abbiatevi, con affetto, una stretta di mano del sempre vostro

G.P. Lucini.

Breglia il 19 di maggio 1908".

Oggi, ribatto in riconferma perché mi sembra utilissima cosa ripubblicare l'espressione mia che pochi già lessero anche nel Verso Liberoxxxvi, libro or mai esaurito, ma che pur mi sembra di attiva attualità; tanto più che è proprio verso il D'Annunzio che la gioventù così detta studiosa si rivolge ed è lui che acclama a suo proprio maestro, dopo Pascoli, in Bologna. È lui il superstite indice di un momento storico che fu; momento di scarsa coscienza, di debole ragionamento, di spensierata e gaja impertinenza dedita al piacere del basso ventre; è lui, che incarna la negazione dello spirito del sacrificio, della idealità, che reclamano per istitutore di italiana sapienza e di umana dignità. In fatti, egli rappresentaxxxvii questi giovani che son forse dei nazionalisti e che si lasciano guidare in pubbliche concioni da inquieti professori secondarii, a cui non bastano le opere per farsi luce ma hanno bisogno dello schiamazzo e della cronaca per farsi notare. D'Annunzio è tutt'ora, per questi, il loro massimo professore in quanto essi non hanno sorpassato la crisi che li rende degni di essere liberi e volontariamente despoti delle loro miserie e de' loro bisogni. È adunque ai postremi goliardi, che, col pretesto della patria marinano la scuola, invocando ozio alla ignoranza ed al facile operato, maestro D'Annunzio – il quale ha sempre marinato l'importuna probità così incomoda ad osservarsi, non solo nella vita ma anche nell'arte – ch'io accomando il resto delle pagine in cui si discorre del

maestro ridicolo.

Diavolino di Cartesio, vetro nel vetro di una bottiglietta sperimentale, idromante, trasparente nell'acqua, con cornetti rossi e la coda all'insù, pontuti e lucidi come coralli, calvo il capo e tozzo, apparve, alli occhi de' fanciullini di letteratura, come ai bambini delle piazze, che ammirano la popolare dimostrazione pubblica della pressione sui liquidi e vedono discendere, alla maestria del pollice operatore, sulla gomma della capsula ermetica alla bocca della boccia, o salire, o danzare, l'omuncolo, grottesco. – O, fantoccio formidabile in veste pezzata d'arlecchino, la calvizie inlaurata di frondi posticcie ed incollate, le braccine tese, le mani aperte, le dita divaricate, facendo la faccia feroce, scattò, dal coperchio meccanico di una bomboniera offerta, in giro, alle damine in conversazione sorprendendole e facendole gridare impaurite, per finta, per libidine, o per sciocchezza, quando vociò il quos ego, come il burattino Punch, nel breve recinto di un teatrucolo ambulante. L'udimmo, in fatti, declamare: "Che cosa può significare questa tentata ribellione di schiavi alla mia signoria? E qual re vogliono mettere al mio posto, questi disgraziati che si sfamano coi resti dei miei banchetti, e quei piccoli ladri che mi rubano i frutti del mio giardino? Poi che non mi arrivano alle calcagne i furori di quelli, che, non essendo capaci di avermi per maestro, mi hanno per padrone, recando sulla fronte il mio marchio rosso, che cercano invano di graffiar via"xxxviii.

Illusioni e verità, non per noi, per li altri. In fondo, egli definiva assai bene le diverse operazioni de' plagiari senza riconoscenza; se non che, bazzicando con quelli, veniva ad ignorare tutto quando non è suo meccanismo di conoscitor di lessici: l'essersi poi veduto circondato dai piccolissimi, i quali pendevano dalla sua bocca e lo coprivano di applauso, gli aveva dato una vampata alla testa e v'impazziva dietro, come quei rannocchi, che, col voler gonfiarsi, invidiando i buoi, terminano collo scoppiare. – Già; vi erano e vi sono masnade di indotti strimpellatori, di curvi raccoglitori d'immondizie, di presti cenciajuoli, che gli avevano concesso signoria, ma nessuna assemblea d'uomini liberi e deliberati fu che gli permise mai d'abusare colla sua jattanza, quand'anche lo pretendesse. Come fidare nella sua sincerità, dopo il rimutare inquieto di carattere, di vesti, di intenzioni? Come chiamarlo maestro? – E perché de' fischi plebei e di platea lo costrinsero a guardare in giù, ecco, ad assumere la posa serena dell'olimpico non compromesso, né sdegnato, ma annojato: "Ohi , tacete un poco: lasciatemi digerire in pace!". Maschera impropria di Zeus; pastore e zampognaro Titiro d'Abruzzi tenta solo ed invece accordar la piva al rombo del tuono; a mezzo bestemmia, poi ingiuria; termina collo spezzare il piffero dello strumento sotto la pianta del piede inciociato e ne sventra l'otre tumido di vento: in un sibilo crepa, si svuota, e floscio, raggrinzito, a crespe, a pieghe, membrana sudicia e caprina, si riversa inutile. Codesto Zeus perdeva presto serenità e magistero.

L'avevano messo sopra un plinto di creta cotta al sole, statua di neve, e gli avevano creduto come ad un feticcio; non vollero mai ascoltare coloro che li avvisavano dell'equivoco, mostrandolo intento a scimiottar modi, misure, ragioni, per moda e per vanitàxxxix. Giacché si vanagloriava e si inorgogliva, nelle deplorevoli trasformazioni, massimo modello di impudenza letteraria; e, jeri, si era innamorato delle nudità multicolori, molto-metalliche, molto-gemmate, molto-callipigie delle sue Veneri d'acqua dolce; oggi, faceva l'Anacreonte di alcuni motivetti bacchici, per tornare al San Francesco pargoleggiante; poi, si metteva il frigio in testa e brandiva la fiaccola anarcheggiante; o voleva spacciarsi per l'Omero dei garibaldini, l'iperuomo burbanzoso, o l'innamorato della ghigliottina, continuando a fornicare colla Gioconda; in fine, si rimetteva in bella posa neo-classica, dopo d'aver disturbato Nietzsche, ripreso dalla religione di sé stesso, e dalle sue bellezze, senza pensare ad inconvenienze, in modo, da farsi strofinare e rigirare da torno le donnine del cuor leggiero e di pesante parrucca e col gusto di spampanare le iperboliche virtù del suo bel essere amorino, o Narciso impomatato, che si rimira nello stagno, in cui deve cadere sommerso. Declama col pum-pum e i corruschi, i vocalizzi e le agilità cromatiche lungo il verso: precede in cappa magna e cero acceso, tra i portatori di baldacchino, al Corpus Domini; colla medesima indifferenza, in abito da società, sale le scalette del trivio, scatologico e mistico, tautologico ed ingombrante, sé stesso additando senza alcun riguardo al pudore, tra Il Burchiello e Lo Zibaldone, Antinoo meno parco del vaticanesco e men capelluto, araldo e custode, per amministrazion privata del suo pensiero che vagella, sviene a pause, si rifà e vagisce e si nutre coi proventi della sua rinomata estemporaneità.

Donde il pubblico, che s'era lasciato prendere a gabbo, se lo trova sul collo, e, volendolo scavalcare, si dimena: indi si rimette in pace, lo sente concionar di sopra e a dirgli villania; ode, perché non gli garbò la fischiata di pocanzi, rinfacciargli la debolezza ch'ebbe già per lui e la pochezza del suo senso critico, che lo aveva ingannato sul parere; e pensa che il grande poeta deve essere qualche cosa d'altro e di diverso. – In fatti, creare, produrre nuovi enti a propria simiglianza, significa veramente, prima, rettificare la propria coscienza, mondarla dai depositi delle imitazioni e del conformarsi; poi, esprimere, dal proprio genio, sotto li ambienti richiesti delle attualità, quanto meglio corrisponda al bisogno estetico dell'ora. Egli, invece, tutto spugna, imbevuto di tutto e di tutti, si vanta personale.

Tale questo eccesso esteriorizzato di moltiformi e molteplici letterature e letture; supporsi; bovarismo; triste malattia mentale che gli suggerisce la superstizione di sé stesso in quanto non è; feticismo inutile e crudele, facendogli credere d'essere capace di quanto non può né potrà mai fare: pensar cose grandi e generose, operar virilmente e disinteressatamentexl.

Nel quarto d'ora, che ha incominciato e vogliono chiamare col suo nome e già tramonta, quattro emasculati vanno coltivandolo, permettendogli la grave supposizione: quattro altri cialtroni disoccupati lo bombardano divo, rendendolo ridicolo e grottesco. Lo hanno fatto passeggiare, conducendolo a mano, per tutti li angiporti della suburra letteraria; gli hanno dedicato fervorini, trafiletti, colonne, articoli, pagine, giornali intieri, sì ch'egli fu dentro e fuori la patria a spampanare la sua verbosità. Ed un librajo si valse della ubriacatura; concorse a mescere vino avariato nelle tazze larghe e gratuite, per raggiungere un provento spiccio e sollecito di mercatanzia facilmente vendibile. – Ed ecco, ch'egli, vedendo come gli fosse tollerato tutto, si credè diritto la licenza di impartirci la sua disciplina, di bandire il suo magistero, di recitare la sua pragmatica, di sacrarsi ottimo e massimo: "Riconosco la verità e la purità della mia arte moderna, che cammina col suo passo inimitabile, colla movenza che è propria di lei sola, ma sempre sulla nostra via diritta, segnata dai monumenti dei poeti padri. Per ciò io mi considero maestro legittimo; e voglio essere e sono chi, per gli italiani, riassume, nella dottrina, le tradizioni e le aspirazioni del gran sangue ond'è nato".

No; noi non riconosciamo nulla, non il coraggio della sua paura, non il successo che fu. Si è riserbato troppo, braccheggiò, in sulle prime, con malizia fanciullesca e selvaggia; ha permesso che tutti si sbizzarrissero sopra di lui; accettò qualunque designazione; non si lamentò mai del posto che gli assegnavano, purché fosse al di . Non disse mai come pensava, non ci fece mai vedere come operava; fu chiuso; ci tenne chiusa la mecanica del suo pensiero, se una ne abbia; oggi la nostra mancanza di fiducia in lui, lo priva del nostro rispetto. Non lo crediamo sincero: non si è mai compromesso con parole, che avrebbero potuto ritornargli davanti come un rimorso, riuscito a pascersi alle facili greppie: per ciò ha creduto di poter viaggiare impune in ogni luogo, senza direzione, senza guida, vagabondo, capriccioso. Resisterà al tempo la narrazione di questo suo periplo? È egli di sé stesso un Erodoto od un Marco Polo indimenticabile? La sua piccola Academia si discioglierà con lui: i suoi stessi mignoni gli si rivolgono contro, egli opera saggiamente se li percuote sulle tergaxli; lo hanno fatto tradire e lo hanno tradito. Erano, dietro di lui, in un codazzo insolente, denso, garrulo di voci stridule e male armonizzate; gli facevano un'ombra densa; al di di questa massa amorfa, non poteva veder bene: fu sempre uno straniero tra li uomini che valevano più di lui, ma gli avrebbero insegnato ad essere decoroso come artista: e la sua vita, che si immedesima coll'opera sua, e l'una e l'altra, rimasero senza scheletro, nulle, flacide, e non contano nella esistenza di un popolo; valgono come quella di un tenore applaudito, o di una virtuosissima ballerina dispensatrice di grazie procaci. Egli non eccitò nessuna azione, né buona, né cattiva; non suscitò a paragone gesti di cupidigia, o di rifiuto; non fu né coi vinti, né coi vincitori mai; ha creduto di dominarli, li ha semplicemente divertiti; non ha potuto essere, né fare di più; Saltavit et placuit. Ed il popolo lo ha lasciato solitario, lui frenetico di frastuono e di seguito.

No; noi non lo vogliamo a dettarci questa sua tarda legge; noi lo abbiamo preceduto; abbiamo accolto tutto il ridicolo, tutti li sdegni, tutte le platealità della critica urlante alle nostre piste, mentre egli veniva acclamato, non so come, senza essere compreso; perché, in lui, all'infuori del rumore che fanno le parole per venir parlate, non v'è altro da sapere e da conoscere: e noi soli e deliberati lo abbiamo sorpassato. Nessun ingombro di folla ci limitò l'orizzonte e non abbiamo bisogno del suo programma-fattuccheria per concedergli tregua. Egli non ha dottrina propriaxlii; è incapace di concepire universalmente; tutto quanto ha fatto è monco, frammentario; la sua opera è una serie di piccoli avvenimenti individuali, poetati con garbo da dilettante. La sua mente non può pensare filosoficamente bastarda di molti padri repugnati. Biascica e balbetta esotiche idee colla sua Lettera contro i Catoncelli della critica: vi parla di grande arte dorica, di eterna gioja del divenire, di giorno di trasfigurazione: tutto ciò impresta e non assimila dalla Origine della Tragedia di Nietzsche; non ha digerito bene; i suoi concetti lasciano intravedere il sigillo originale: non lambicca, non distilla, non estrae, dalle mille osservazioni, un principio generale, una verità sua, una legge nuova, particolare: non conosce il senso dei rapporti, delle intercorrenze; il mondo suo è popolato da fenomeni, non è fatto di fenomeni; egli non conosce il mondo.

Noi non lo vogliamo per maestro; lo rifiutiamo. Non può rigovernarci, imporci un suo metodo, se l'ha. I nostri maestri, i grandissimi, non sono più, ma sopravvivono forze eterne; ora, abbiamo una sola insegnatrice, la natura: un solo pedagogo, la nostra mente: un solo riconoscimento pubblico, la espressione dell'opera nostra. I nostri maestri non hanno avuto mai bisogno di pagliacciare ogni due giorni sulle piazze d'Italia, come vendessero specifici miracolosi contro la sifilide; noi non abbiamo bisogno di un zoofilo che fa dell'automobilismo, di chi assiste allo scoppio delle mine del marmo carrarese, e schiva di confessare la propria età.

I nostri maestri non suscitarono la sfacciataggine della rinomea; non misero in pubblico le loro piccole orgie abitudinarie, le loro mecenatesse amiche, le loro illustri amanti generose, i loro disaccordi matrimonialixliii; non ci condussero per mano i loro figli tra li istrioni; non diedero esempio di dissipata e vaneggiante curiosità: i nostri maestri lavorarono serenamente, pensarono, esempio di coraggio, di costanza, di volontà. Ma costui strepita e schiamazza; fa dire di aver creata una nuova poetica: piaggia vizi e virtù a fascio, se il vizio e la virtù gli han rifornito, nella questua pel mondo, sonante scarsella; i nostri maestri furono determinati per un verso, o per l'altro, perciò Eroi, sempre, in ogni modo, in ogni ora della vita loro; caratteri!

Chi lo vuole, dunque, per maestro? Mettiamo all'incanto il maestro della poesia che insegna la necessità dell'eroismo, composta coll'arte demoniacaxliv nel ditirambo delle origini e delle profondità? Chi dispone, nella gara, un obolo di più, ed ancora, per comperarsi, schiavetto, questo grande maestro immortale ed indiscutibile della moderna letteratura italiana? Perché lasciate gridare invano l'Hermes psicopompo, in sul mercato, se offrevi quest'animuccia mascherata, ripetendo la proposta, come un banditore i filosofastri al miglior offerente? E ve lo vendiamo, con tutta la sua dote; colle 75 camicie; le 12 dozzine di paja di calzette d'ogni colore, in filo ed in seta; innumerevoli cappelli; abiti da serata; smokings e giacche e marsine d'ogni foggia; 48 paja di guanti da passeggio, 24 bianchi glacés; 8 ombrelli tutti color viola; 10 parasoli verdi; 20 dozzine di fazzoletti da tasca; 150 cravatte; 10 veste da camera, una più magnifica ed imaginifica dell'altra; 15 paja di scarpe, con 6 paja definitive di pantofole molli, silenziose, impellicciate, orientali, moscovite, chinesi;... e la varietà suntuaria di una cortigiana barbara e celebre.

Volete dunque, per poco, per nulla questo unico e straordinario poeta italiano, troppo vestito per essere sincero? – Va! va! a quanto? xlv. Non vi è dunque arte, professione, mestiere, bisogna, sia pure tra i più umili, pel logico contrapasso, che Italia possa offrire a costui, ritornato alla sua nuda persona? Di che egli è capace? – Di nulla: non ha mai soferto e non ha mai insorto; non ha mai vissuto, né col cuore, né colla mente, frigidità fragile, virilità svampata, egoismo per la gelata fiamma de' suoi sensi; non ha mai veramente amato od odiato. Non ha amato mai l'angoscia e la gioja; non le conobbe, perché è incapace d'ironia, preziosa e moderna virtù che fa sbocciare rose sulle piaghe e le ulceri de' lebbrosi, ed inturgida malignamente di un bubbone violaceo il seno di una vergine: e non amerà mai. Non ha potuto mai né vincersi, né correggersi; non andò a scuola di volontà; non seppe reggere li appetiti, né trasformare i desideri in estetica, né foggiare dalla pura bellezza una pura morale; né domare li spasimi della carne, i morsi e le violenze esasperate della necessità; non si è mai sacrificato per qualche cosa, né meno per attuare epicureamente un piacere maggiore; non seppe farsi un carattere: non ha carattere. A qual uso potremo destinare questo fanciullo, dotato di semplice virtuosità verbale, che non potrà mai essere un uomo, cui l'applauso falso e corruttore ha negato la responsabilità? Chi lo vuole per schiavetto domestico? – Egli ha viaggiato in automobile, a cavallo, a piedi, a vela, a remi pel mare, ed a vapore; ha scoperto l'Acqua Nunzia ed un nuovo sistema di ruote pneumatiche; fa il mitografo. Egli è filosofoxlvi, per aver saccheggiato sulli eucologi e nelle enciclopedie; egli è esteta, perché studiò a memoria i cataloghi delle pinacoteche europee e consulta le raccolte delle fotografie dei quadri famosi; egli è tutt'ora l'inimitabile maestro pifferaro e non volete che egli trovi un posto decente e rimunerativo tra noi?

Ma perché insisterei io a dotarvi di un parassita, di una lussuosità caduca e dannosa? A che portarci in casa un elemento di infezione e di morte? Perché sostare tra i cippi della necropoli, tra i quali, brilla al sole, effigie di poco resistente metallo, ma lucida, un misto plasma di Andrea Sperelli, di Cantelmo, di Corrado Brando, di Stellio Effrena, caprineggiante, interrogativo a strologar le nubi, che si addensano sotto i fuochi del tramonto in sull'orizzonte, per il tempo che farà il vicinissimo domani? Reggerà al freddo di questa notte, sino a domani, la statuetta graziata di dettagli curiosi e minutini e di precisione arcaiche, che mal consuona col calore della nostra modernità? Fuori; la vita è in noi, con noi, ci avvolge, ci fa ministri suoi qualche volta, si fa da noi dominare se lo sappiamo. Importa vivere, vivere, e, col fatto stesso della vita, coll'opera, più che colla parola della critica anatomica, affermarsi e superare. Bisogna saper anche non vedere il più vicino rumoroso, che cerca di distrarci dal nostro compito, per farsi accogliere come il più interessante. Ben altro dobbiamo ascoltare, per ben altro cooperare; vadano a vuoto i richiami del vanitoso e gretto egoista, che si addita come la perfezione, per farsi pagar carissimo: bisogna vivere per noi e per tutti; non indugiare sul corpo morto per notomizzarlo.

Vivere, rituffarsi a ogni minuto nella corrente inesausta e calda dell'universo; vivere da avaro e da prodigo, da egoista e da altruista; vivere, sentire, compartecipare, usare dei sensi, del cuore, della mente, ragionare, produrre, esprimerci con tutte le nostre raffinatezze di esteta, le nostre passioni di uomo primordiale, la nostra logica di filosofo, i nostri vaticinii di poeta ispirato. Agitiamoci per agitare, per urtare, vincere e persistere: sopra tutto, dobbiamo essere il buono ed onesto operaio della sincerità gratuita e pericolosa, e proclamarsene, qualunque siano gli eventi che suscita, responsabile sempre.

 






xxxv G.A. Borgese, op. cit., pag. 116.



xxxvi      Sotto il titolo di D'Annunziana si lessero queste osservazioni in La Ragione di Roma del 24 Maggio 1908: nelle pagine di Il Verso LiberoEdizione di Poesia 1908 – si impressero più complete e con note dalla 505 alla 518, e precisamente in quelle che si intitolano: "Quand'ecco il Maestro ridicolo... – 'Quos ego' dannunzianoTitiro zampognaroIngiustificate rimutazioni dannunziane – L'ignoranza della folla creò il D'AnnunzioQuarto d'ora d'annunziano – Noi in D'Annunzio non riconosciamo nulla – ...ed il Popolo non lo cura – 'Le Laudi' – Non può esserci maestroMetto all'asta il D'Annunzio colla sua guardaroba e per logico contrapassoApoteosi caprineggiante". – Qui altre note ricorrono più opportune che quelle che corredavano, prima, il testo.



xxxvii     Borgese: "Il D'Annunzio è il rappresentante e l'apologeta d'una generazione inferiore, nella quale era decaduto il pensiero, s'era infiacchita la coscienza e l'Italia dilapidava il patrimonio ideale lasciatole in eredità dagli eroi delle congiure e delle guerre". pag. 173. – I giovani guardano a lui ed ai suoi eroi di romanzo con cupidigia ed invidia: "Guadagnano" – quei personaggi – "un sacco di quattrini, piacciono alle belle donne, viaggiano in automobile e in yacht, lavorano poco, e splendono in cospetto del pubblico come un immenso falò di gloria e di fortuna mondana". – pag. 176. – Per arrivare a far cose così piacevoli non c'è che da farsele insegnare da lui: "È più comodo e più economico. Senza dire che è soprattutto elegante: per essere letterato di tipo d'annunziano non è necessario essere pedante, occhialuto, goffo e cencioso come quell'insopportabile professore di letteratura italiana, che sempre cinque ai componimenti d'italiano del futuro poeta. Anzi, è necessario esser proprio il contrario. Molto chic, con un sorrisetto canzonatorio a fior di labbra e una strizzatina di precoce miopia dietro la lucida caramella". pag. 177. – Imbecilli! Vero è che siete la maggioranza; la spessa pegola sociale a ripetere i padri, che hanno suaso al trasformismo del vinattiere di Stradella; che seguirono, con incerta fortuna, la fretta e la confusione crispina; che si imbatterono in Tanlongo e nelle crisi edilizie, nelle quali, forse, incappò un figlio re; che non han fatto la rivoluzione dopo Adua; che hanno lasciato massacrare, pronubi li stati d'assedio, i proprii fratelli nel '98; che si sono mediocremente indignati quando Bresci giustiziò a Monza un Savoja; che son giunti a mettere il collo sotto la minaccia della continua dittatura giolittiana, i polsi alle manette del Centanni, che, quando ha bevuto ed ha i nervi, fucila scioperanti, donne e fanciulli in piazza, magnifico luogo comune di retorica sovversiva. Per tutte queste cose, anche la generazione, che vagella attualmente in sui vent'anni, ha bisogno di Gabriele D'Annunzio; perché, in regresso ed in adorazione, sente che è da lui assommata. Esso, tra l'amara facilità di un successo incompleto e l'obbligata necessità della sua letteratura alimentaria, può insegnarle l'adulterio e lo sbruffo, la petulanza ed il patriottardismo. E però i figli possono vantarsi di essere più serii de' loro padri, ed hanno ragione, poi che quelli, almeno, ebbero vergogna delle loro deficenze e de' loro vizii; questi li usano e li amministrano, con elegante cinismo, per aumentare li scarsi redditi che loro apportano le più tirchie e pigre virtù. – Su via, giovanottini, siategli cortesi, non obbligatelo ad un ufficio ch'egli già recusa perché non potrà mai ottenere. Udite, dal suo foglio delli annunzii ufficialiIl Corriere della Sera, 13 aprile 1912 – l'autentica opinione del Divo, in proposito, sotto il titolo Le oche della Cattedra; oh titolo pieno d'humorismo, che battezza la solita clientela intogata, la quale ha largo campo, ne' giorni ordinarii, sulle vaste e plurime colonne di quel giornale.

            "No. Gabriele D'Annunzio non è fatto per tener lezione tre volte la settimana durante un periodo di sette od otto mesi. No. E neanche Giovanni Pascoli era fatto per questo. E osiamo dire: neanche Giosuè Carducci. I poeti non dovrebbero dedicarsi all'insegnamento, perché un tale officio, quando è accettato con tutta la coscienza del delicato e laborioso e grave còmpito ch'esso rappresenta, toglie troppo della libertà e del vigore e del tempo che le Muse richieggono... Se i paradossi non fossero pericolosi con questo maligno vento di perfidia polemica che tira, aggiungeremmo volentieri che in un paese ben sollecito della propria fortuna artistica ogni professore giunto a dimostrare d'essere eccellente poeta dovrebbe essere allontanato dalla cattedra con pensione intera, subito, perché intera gli fosse anche la libertà di poetare e non ristretta ai ritagli di tempo... Ma ecco che la farmacia italica è a rumore e non si lascia sfuggir l'occasione d'infierire contro il D'Annunzio. Quelli che non gli vogliono dar la cattedra pigliano un tono di gente offesa nella propria dignità; e qualche gazzettiere mal si raffrena dal dare dell'asino a Gabriele D'Annunzio. E tutta questa acerbità meschinella testimonia che l'Italia è sempre il paese dove si offre un banchetto di trecento coperti a un vanesio che scriva illeggibili panzane e si solleva un putiferio grottesco se è accennato un atto di ammirazione e d'omaggio a un grande scrittore".

            Capito? Bene, proprio bene? Non s'invocherebbe una pensione governativa per chi ha tanto amato e fa vedere d'amar tuttora la patria? No? Ed ecco che D'Annunzio non vuol cattedre. Gustatene la prosa telegrafica.

            "Arcachon, 12 aprile. Poiché mi giungono fin qui i segni di un'agitazione che m'è incresciosa e che mi sembra assurda, son costretto a dichiarare di nuovo pubblicamente essere io deliberato di rimanere per sempre nella solitudine che sola mi piace.

            Gabriele D'Annunzio".

            Ed ammirate la sua modestia: libertà va cercando l'ultimo Dante. Oh, ch'egli abbia un campo ed una marra per dissodarlo come Cincinnato;... o, alla moda del De Musset, una capanna ed il tuo cuore!



xxxviii    G. D'annunzio, Prefazione a "Più che l'amore", tragedia.



xxxix      Felice Cameroni: "Chi sa quali paradisiache voluttà avrà suscitato l'edizione definitiva del Canto novo e dell'Intermezzo fra gli adoratori in buona fede, o, per snobismo, dell'iperuomo Gabriele D'Annunzio! Ha cominciato col figurino ultra sensualista ed ultra colorista, a base di nudità metalliche. Mutata la voga, si trasforma d'un tratto in un evangelico rigeneratore Tolstoiano, foderato alla Dostoievsky. Colla stessa mancanza di sincerità artistica e colla stessa aria presuntuosa, l'abilissimo virtuoso della stilistica, da qualche anno coltiva, in mezzo agli applausi, la moda mistico-arcaica. Sarà definitiva questa terza metamorfosi?



xl          Anche lo Scarfoglio è del mio parere, come saprete dalla nota che succederà a questa; eppure, parlando di Carlo Dossi in sul Don Chisciotte, farà un'altra osservazione quasi contradditoria e che potrà venir invocata in ogni momento dal D'Annunzio, non solo ad attenuante generica, ma a discriminante; poiché, basandosi sulla necessità dell'epoca e sul gusto pravo dei contemporanei, può invocarla e soggiungere: "E che? Vi lamentate, ora? Non siete stato voi a volermi così? Non mi avete voi applaudito ed adulato nelle mie opere peggiori? E quand'era sano e diritto nelle mie 'Novelle Pescaresi' ve ne siete accorti? Voi mi avete guastato fino nella radice; ora, la mia pianta vi il frutto marcio che meglio vi gusta: ed io debbo vivere pur troppo del ricavo di questo: se vi dessi ottime poma non me le comperereste". Certo Gabriele D'Annunzio ha ragione, e gli è buon avvocato lo Scarfoglio: "L'organismo della vita spirituale di un popolo, quando l'arte non è più una libera e necessaria emanazione del suo genio, ma una produzione artificiale per diletto estetico o per mezzo di educazione, rassomiglia assai a un gran congegno meccanico; e se non si dirugginiscono e non si ungono tutte le ruote, molta parte dell'energia e del lavoro si disperdono vanamente". Pag. 117. – Ma domani io batterei le mani al poeta delle Laudi, se, in sul limite della sua carriera, ci gridasse in faccia: "Ho fatto di tutto, colla mia letteratura, per campare secondo il mio temperamento, il meno male possibile; vi ho dato, a richiesta vostra, veleno e fumo. Ma, tra tutto questo vi sono delle gemme, che, voi, ottusi bislacchi, non avete accorto a luccicare di virtù propria ed intensamente. Oggi, io le raccolgo: a me spetta fare la mia 'Antologia'". E, s'egli scegliesse quanto io stesso e li altri ben avveduti hanno già scelto per lui infastidendolo, anch'io non tarderei a riconoscerlo tra i grandi. Ma sono certo ch'egli si ignora ancora e che noi abbiamo torto a presupporlo maggiore: sotto la sua penna il buono ed il bello riuscirono inaspettatamente a caso.



xli         Se non che è necessario avere un cervello diversamente costrutto e costituito per poter impunemente assumere la noncuranza in faccia al successo, anzi, il disprezzo. Non certo il giovanottino D'Annunzio, in giro per l'Urbe, diserto scrittore in cinque lingue diverse e pur bocciato alli esami di licenza liceale, sì che rimase, come dicono, – un liceista imperfetto, né meno un bachélier ès lettres, di quelle lettere su cui egli siede princeps; non certo costui, davanti al suo trionfo di persona, non poteva aver la forza ed il coraggio necessario per conservarsi; perché è necessario essere un genio alla ennesima potenza per non annegare nella popolarità e per non esserne ubriachi, per rimanere, cioè, sempre in azione e tensione di trasformatore d'energie singolari e dominatrici, di sensibilità esquisite e preste a determinarsi in fatti estetici, oltre la richiesta della consuetudine. – Egli, invece, piegò troppo presto alle lusinghe della fama; e se ne duole con vero cuor d'amico lo Scarfoglio, che non "gli ha mai risparmiato le ammonizioni e le prediche e i vituperii, quando gli pareva che deviasse dalla grande strada apertagli dal destino, anche a rischio di essere accusato dal dottor Verità, e da altri più bugiardi di lui d'un turpissimo peccato: d'invidia", – op. cit. pag. 147. –Bisogna leggere queste pagine del Don Chisciotte commosse e fraterne per essere sincerati che Tartarin amava di vero affetto il Pescarese. Colli altri ne risente l'effetto prestigioso alla prima veduta "di quel piccolino con la testa ricciuta e gli occhi dolcemente femminili, che mi nominò e nominò sé con un'inflessione di voce anch'essa muliebre". Anche Gennaro Minervini gli stava davanti a guardarlo con occhi spalancati, senza parlare, e Cesare Pascarella, ed Angelo Sommaruga, di cui la faccia incresciosa, al primo aspetto di quel fanciullo, fu rasserenata da un sorriso. "Gabriele ci parve subito un'incarnazione dell'ideale romantico del poeta: adolescente, gentile, bello, nulla gli mancava per rappresentarci alla fantasia il fanciullo sublime salutato da Chateaubriand in Victor Hugo". pag. 147. – Anche Carducci esclamò; anche De Renzis, che molto aveva veduto e fatto! "In Gabriele, era tanto spontaneo il senso della barbarie e tanto curiosamente commisto a una nativa gentilezza di donna, che lo avreste detto una di quelle quercie educate al tempo del barocchismo e potate in guisa da dar la sembianza d'una qualche cosa poco selvatica, educata questa per altro e potata da un meraviglioso artefice che avesse saputo dal taglio far nascere come un nuovo albero vivo e bellissimo". pag. 148. – Quando, dopo il successo del Canto Novo, dopo l'escursione in Sardegna, d'un tratto, ben altro doveva apparire il D'Annunzio. "Una improvvida necessità di assaporare immediatamente tutte le tristi e sterili gioie della popolarità gli si annidò come un canchero nell'organismo e nello spirito. – E prima si ragunò d'intorno una volgare compagnia adulatrice di ragazzacci e d'impiegati; poi, come l'inverno aprì le porte delle grandi case romane, cedette alle lusinghe delle dame. Io non dimenticherò mai lo stupore che mi ferì vedendo la prima volta Gabriele addobbato e azzimato e profumato per una festa. L'anno innanzi non mai lo avevamo potuto indurre a vestirsi altrimenti che d'una giacchetta scura e d'una cravatta di raso bianco: spesso, anzi, dimenticava anche la cravatta". – pag. 151. – "Le dame che forse non avevano letto, certo non avevano inteso, i suoi versi, in conspetto di quel piccolino selvaggio rincivilito, di quel cagnolino con un nastrino di seta al collo, furono prese da una morbosa e romantica ammirazione. Per sei mesi Gabriele passò da una festa di ballo ad un pranzo aristocratico, da una passeggiata a cavallo a una cena in compagnia di qualche cretino blasonato e impomatato, senza aprir mai un libro, senza fermar mai l'intelletto a un pensiero serio. L'arte, che prima era per lui quasi un fattore della vita, divenne un gioco bambinesco per diletto di quelle povere dame, che volevano dei sonetti negli albums e sopra i ventagli così come sulle mensole vogliono delle chincaglierie giapponesi. In questo ambiente, a questo fine, con questi mezzi furono scritti i pochi e poveri versi raccolti di poi col titolo d'Intermezzo di rime" – pag. 152. – Finché il prof. Chiarini gli fabricò, collo scandalo sulla pornografia di questo libercolo (1883) la fama che dura. – Inettissimo ed inopportuno intervento, inspiegabile nel Chiarini, forse un ritorno alla pudibonderia romantica del signor Rizzi, famoso saltimbanco della morale e della castità di quel tempo, battagliatore contro la sbarazzina Farfalla milanese e contro il milanesissimo Dossi; però che quel professore classicheggiante non avrebbe dovuto dimenticare né i sonetti del Franco, né li altri del suo patrono Divin Aretino, né le novelle del Marino, né le altre più recenti dell'abate Casti, né le piacevolezze del Guadagnoli caro ai preti, né le turgenze sessuali del Baffo, cavalier veneziano, più care a Stendhal, né, in fine, lo stipite Giovanni Boccaccio, nomi e opere che doveva egli stesso, Chiarini, ammirare e far ammirare dalle aperte catedre letterarie. L'Intermezzo di Rime d'annunziano è, in alcuni punti, superiore per tono, espressione, plastica ed effetto a quelle classiche composizioni. – Comunque, questa raccolta, certo non inferiore per mecanismo prosodico e più tornito, come speciosità d'eloquio, non piacque neppure allo Scarfoglio; e fu su questo Intermezzo che cominciò ad inciprignire più velenosa la disunione tra i due scrittori meridionali. Sì che giova ripetere un periodo del critico, dove, saggiando la più recente poesia dell'Abruzzese inspirata alla più schietta delle carnalità, ma non espressa in versi barbari, coi quali era stato composto, in massima parte, il Canto Novo, mi pare faccia troppo conto di questo e pochissimo di quello, mentre uscivano tutti e due freschi, freschi da una alacre mente giovanissima, e, per fortuna, non ancora rigovernata dalla diuturnità del facile mestiere: dal canto mio, non so preferire l'uno all'altro, ambo, nel tempo, parnassiani, eccellentemente. Ma sentite lo Scarfoglio: "Confrontate, per un esempio, il Canto Novo con l'Intermezzo di rime: troverete palpitante e alitante di pagina in pagina una bella e viva e fresca smania generatrice; qui troverete gli allettamenti i vellicamenti i puttaneggiamenti onde un collegiale vizioso, insinuata la mano sotto le gonnelle d'una educanda desiderosa mentre tutta l'altra compagnia è intenta a giocare alla tombola, le aizza e le rinfocola la prurigine del peccato. L'accoppiamento sano non può essere afrodisiaco: è semplice, casto, solenne come tutte le più utili e più naturali esplicazioni della vita: la libidine è degli eunuchi, degli ammalati e della gente che, per non obbedire al destino finale dell'amore, cerca sfoghi non consentiti dalla natura. Infatti, nell'Intermezzo di rime l'accoppiamento non pure non è mai descritto; ma è tanto poco accennato, che quasi non appar necessario. O Gabriele, a questo dunque dovevi tu giungere?" – pag. 155. – Se non che l'amico irritato, forse per non essere stato ascoltato ne' suoi buoni consigli, è troppo severo. È per me naturale, invece, che un giovanotto dell'indole di Gabriele D'Annunzio, ventenne, dotato di quell'eccessivo temperamento erotico di cui non ha fatto mai mistero, a corto di quattrini, ma conscio delle sue palesi e recondite virtù, si dovesse manifestare in questa guisa, e, se trovava la viziosetta educanda che lo assecondava, ne approfittasse pei suoi giuochi di mano. Del resto l'Intermezzo di Rime non è meno sincero, nell'ambiente romano, che il Canto Novo, nell'ambiente pescarese. La medesima spavalda ingenuità viziosa impera su l'uno e l'altro volumetto. Più tosto è la seconda edizione di Intermezzo Bideri, Napoli 1894, ch'egli rimaneggiò a trentunanni, come edizione definitiva – e perché non espurgata? – la quale è una prova di falsità e di piccola e melensa tartuferia letteraria. Qui, egli, che pur si sdegnò contro il Chiarini, il quale lo aveva chiamato porcellone, con aggiunte, ommissioni e rifacimenti fa di tutto per ingraziarlo, e con lui tutta la bigotteria delle Gazzette per bene, vergognoso del trascorso troppo palese ed audace della gioventù. Qui, vuol far credere, che questo secondo Intermezzo, ben diverso dal primo, sia proprio anche l'autentico della primavera del 1883anno sommarughiano. Sì che chiunque, leggendolo, deve esclamare: "Perché diavolo il Chiarini si riscaldò, ed a profitto di quale quacchera morale insorse contro il giovane Pescarese, allora?". Di fatti, le parole, le imagini, le carnalità sono tutte abbassate di più toni: il tutto è velato, edulcorato, ripassato colla spugna dei disincrostanti e col cloro efficacie dei pentimenti; le composizioni, che ne son riuscite, sono più sciatte, più vagamente afrodisiache, con intervento di mitologia e di simbolismo, rivedute e corrette, insomma, per metterle in grado di essere l'indice di quella coscienza dolorosa che gitterà poi, nella terribile confessione di Tullio Hermil, il suo grido supremo. Fu un preparare il documento dopo il fatto che si voleva dimostrare appunto con tale documento. L'operazione rientrò sempre nell'ordine del falso. – No, bisogna ritornare, invece, alla Venere d'acqua dolce del 1883, non all'altra del 1894, per avere il piacere di lodare anche il D'Annunzio. Nel 1883, egli non ha bisogno di fare della grand'arte e di disturbare la sua erudizione sulle statue vaticanesche; egli sente la necessità di essere un perfetto verista, secondo la moda e secondo il suo temperamento. Così la sua ottava è precisa, completa e plastica, sincera a rispecchiare il suo desiderio, la sua esasperata carnalità: l'ebefrenia, che trova modo di risciogliersi dall'ambigua pubescenza in aspettativa dell'abbraccio feminile, nel saporosissimo amore di Nara trova il suo sfogo, letterariamente, colla turgida adiposità di versi sonori e polputi, assaporati mentre si scrivono, coll'evidenza plastica delle scene che rievocano. Più che altro in queste ottave risuonava l'eco delle vicinissime altre dello Stecchetti del Guado; era lo stesso

            "odor di carne sana e di salute
che giunge al cuor per vie non conosciute"

            che riempiva del profumo acre di femina sudata la prima Venere d'acqua dolce. – Udite la quarta e quinta ottava della lezione originale:

            "Tu, Nara, dove sei, florida bionda,
da la pelle bronzina di mulatta,
che avevi grigia l'iride profonda,
e una stupenda agilità di gatta?
Tu non più ritta in piedi su la sponda
vedi a l'alba passar me su la chiatta
in mezzo a 'l fiume, tra '1 rabbrividire
de le canne tendenti a rifiorire!
Te non più camminante, tra un fogliame
di cocomeri e zucche aspro ed enorme,
io vedo, con un'anfora di rame
su 'l capo, ne 'l terreno imprimer l'orme
de 'l nudo piè! Tra i fumi de 'l letame
più non vedo vanire le tue forme,
o te diritta emerger fra le piante
de i girasoli, come un fior gigante!".

            Ecco le corrispondenti terza e quarta della seconda edizione:

            "Non mai, Nara, così nitidamente
l'omerica bellezza del tuo rude
corpo si disegnò ne la mia mente
tutte oscurando l'altre forme ignude.
Ben io so la divina tua parente
cui non un bosco ma un palagio chiude.
Levasi di sul plinto, in Vaticano,
radiosa nel suo candor sovrano.
Pur ieri io la guardai, per quelle sale
mute vagando senza compagnia.
Una fresca ombra il gran museo papale
occupava; e il bel popolo dormia
profondato nel suo sogno immortale.
Forse nel cor marmoreo d'Iddia
sognava il giovinetto cacciatore
terrestre e il gelo de le ciprie aurore".

            Quale fiacchezza; subito vi accorgete che il poeta ha rimutato in peggio, senza inspirazione, senza modello vivo davanti. E che giova a noi, ed al nesso del poemetto, l'intervento di quella parente di Nara che si leva di sul plinto, in Vaticano, radiosa del suo candor sovrano? – Ancora: passiamo al secondo canto a mezzo la seconda ottava della prima lezione:

            "Trasalii; ché tra l'erba gigantesca
parve d'un tratto mi recasse il vento
un sentore di carne: il corpo eretto
di Nara, seminudo, a mezzo il petto,
sorgea fuori de l'erba. Ella con mite
fruscìo tendea, strisciando, a la riviera:
le mazze sorde intorno le fiorite
spighe ergevano a lei. Come levriera
ella fiutava il vento, alta: ferite
da la provocatrice primavera
le sue nari vibravano; su 'l dorso
i suoi capelli ribellati a 'l morso
de 'l pettine cadevano. Un antico
di menade frammento era il suo busto
eretto, in quell'inconscio atto impudico.
Giunse a 'l limite: l'acqua ne l'angusto
cerchio stagnava, e fino a l'ombelico
la bagnò frescamente. A l'acre gusto
di quel fresco increspavasi la pelle
e dure si drizzavan le mammelle".

            Voi la vedete, qui, Nara femina campagnola e ferina d'Abruzzi, dominatrice; in essa comprendete il suo ministero di iniziatrice, di inoculatrice del virus d'amore, sempre efficente nel poeta, senza del quale noi mai potremo comprendere l'opera sua. Nara è, nella figurazione poetica d'annunziana e secondo la prima lezione, assolutamente necessaria: è il punto di partenza per cui a tappe si giungerà al Piacere, al Fuoco, al Forse che sì forse che no; è l'imminente: Nara ha plasmato di libidine il suo poeta e lo accompagnerà fino all'ultimo suo respiro, sino all'ultimo suo verso balbettato; è la sua Daimona ispirante e dispotica. Per essere più casto, più accetto, per rendere, alla moda di 1894, D'Annunzio di questa Menade viva fa una statua ambigua:

            "Ma trasalii; poi che un odor novello
parve improvviso mi recasse il vento.
E scorsi fuor de l'erbe il corpo eretto
di Nara, seminudo, a mezzo il petto.
Ella scendeva al fiume ardita e lesta
e simile a la cerva sitibonda.
N'esultava la tenera foresta.
Era negli occhi suoi una profonda
inconsapevolezza; e la sua testa
era così fulvidamente bionda
che certo l'api dovean trarre, come
a un lor miele, a l'inganno de le chiome.
Giunta su 'l margo ella ristette, in forse.
Ma poi le chiomedegne de l'antico
pettine ciprio – su la nuca attorse
e tutta, senza alcun gesto pudico,
la sua bellezza al sole ignuda porse
e a l'acqua, entrando sino a l'ombelico
ne la conca ove tale ella rifulse
qual Prassitele a Cnido e a Coo la sculse".

            Così, più in giù 1'imagine lasciva è attenuata, le parole topiche ed anatomiche necessarie, scompaiono nell'eufemismo, la febre del desiderio, che erompe, che non ha più freni e si deve sfogare, trova delle frasche, dei veli pudichi entro cui nascondersi vergognoso: ed ecco che queste strofe:

            "Ma quando il corpo ella adagiò deterso
a fior de l'acqua e simili a scarlatte
bacche le cime de 'l suo sen riverso
galleggiarono e il ventre suo di latte
palpitò di stanchezza, e de l'emerso
monte tra la pelurie fina attratte
scintillaron le gocce, e ne la grigia
iride scintillò la cupidigia
de 'l piacere, io che in quel riarso letto
d'erbe in silenzio mi torcea, ferito
da un intenso desìo, tale da 'l petto
per non più soffocar misi un bramito,
che con rapido moto ella in sospetto
si volse. Poi, qual cerva che a l'invito
de l'amore fiutando erga la testa
se oda il maschio passar ne la foresta,
la giovine guatò, senza paura,
in attesa di pugna... Oh come, oh come
a l'agguato de 'l sol la sua figura
tutta ne la ricchezza de le chiome
si porse, e in van pugnante a la congiura
dei virgulti e di me rese le dome
braccia!... –":

            si tramutano nell'altre:

            "Ma quando il corpo ella adagiò deterso
a fior de l'acqua e parvero scarlatte
bacche le cime del suo sen riverso
e su 'l ventre brillòsuggel d'intatte
ricchezze – l'ombelico e su l'emerso
pube e ne l'incavato inguine attratte
scintillaron le gocciole tra il crespo
vello come rugiade tra un bel cespo,
io che, nascosto nel profondo letto
verde, in silenzio mi torcea ferito
di crudele desìo, tale dal petto
per non più soffocar misi un bramito,
che con rapido moto ella in sospetto
si volse; e, come cerva che a l'invito
de l'amore pugnace erge la testa
se oda il maschio bramir ne la foresta,
risalendo la sponda con piè fermo
riguardava per entro e la verzura
in van ché la verzura erami schermo
a l'indagine ed era l'ombra oscura.
Tutto taceva in torno, alto su l'ermo
lido il meriggio. – O Pane, l'avventura
di Siringa a la stessa ora fu trista.
Sorte miglior m'ebb'io ne la conquista".

            Sì che D'Annunzio può dire senza preoccupazioni di grande arte, di arte aristocratica, di arte pura nel 1883 congedando Venere d'acqua dolce: molli versi; ma erra, a trentunanni, se muta il molli in larghi: no: quest'ultimi suoi sono i flacidi, poveri, pretenziosi versi senza più nervo, senza più gioventù; una rifrittura, una recidiva nello istesso peccato d'amore, commessa distrattamente, senza passione, senza partecipare; una brutta azione, insomma, poetica, la quale sopprime tutta la feroce ingenuità ebefrenica ad un poemetto, che, in tanto valeva ed era perspicuo appunto per la mancanza vittoriosa di educazione ai bei modi dell'academia e dei salotti dove si fa di peggio, ma non si deve dirlo. Tutto ciò vuol determinare l'anabasi d'annunziana, che precipita in fuga, tanto più il poeta si va facendo maturo e speculatore, – come del resto accadde anche al Tomaseo, che diventa poverissimo e stracco, quando vuol rigovernare i suoi versi giovanili a fior di crusca e colla crusca della senilità: inoltre, stabilisce che il D'Annunzio, anche come critico di sé stesso, è incapace di sentire che sia vergine spontaneità; perché, dove è evidente, colorito, saporito, vero, corre, credendo di correggere, colle cesoje, la lesina, lo spagno, e soatti di peggior qualità, a deturpare. In linea generale, poi, mostrando evidentemente la sua smania di voler sempre essere di moda e per ciò di acconciare, al figurino del mese, le vecchie giacche dentro cui si trovava così bene, taglia, aggiunge, cuce, rappezza, mette i bottoni di un altro colore, e quando se le rimetteva sembrava in maschera. Sempre il difetto puerile è di non accorgersi mai di aver sbagliato strada, di affidarsi al clamore della turba, di presumere, nel suo criterio critico e logico il quale è nullo; di non accorgersi di invecchiare in peggio; nel non sapersi rispettare giovane valente ed allora completo, nel solo modo in cui Gabriele D'Annunzio può essere completo. – Sì che egli in buona fede cercherà di convincersi, mentre si ingannerà ancora, scrivendo allo Scarfoglio, nel 1884, mentre tendeva a salire idealmente al monte di Assisi del Santo Francesco, lungo la verde e gialla Umbria: "Non mi sento ora nel possesso pieno di tutte le mie forze fisiche e intellettuali. Sono indebolito dall'amore e dai piaceri dell'amore e dalla consuetudine della vita orizzontale. Non ho più quella bella sanità gioconda d'una volta: gli occhi mi dànno spesso fastidio, e il fastidio m'impedisce di occuparmi e mi mette nei nervi l'irrequietezza irosa dei piccoli mali. Sai che vorrei? Vorrei qui della gran neve e del gran freddo che mi sforzasse all'esercizio e alle lunghe passeggiate e alle larghe respirazioni dell'aria salutare. Oh, se venisse la neve della Majella o da Montecorno! Verrà; la invocherò con tanta passione di amante, che verrà!". E potrà rimare nel secondo Intermezzo, verso il mare della sua purificazione, dove egli già erasi apparso "il più divino de gli Adolescenti", con impeto ed orgoglio:

            "Ecco l'aroma, ecco il vivace sole
che caccerà da la tua carne trista
l'impuro filtro onde sei fatto schiavo:

            invano! Nara gli starà sempre sul collo: è la sua prima amante; è chi lo ha fatto uomo, fisologicamente deve essergli l'incubo costante; deve sentirsi foggiato per lei, così e non altro; se cercherà di sfuggirle, si muterà in peggio; quand'egli è diritto ed intero, come in alcune liriche delle Laudi, è perché l'ha ribaciata ancora, fa l'amore di nuovo con lei; se evade la sua compagnia, proprio quando cerca di purificarsi e di tramutarsi, – non in bene, soggiunge Carducci – s'incontra col Piacere. Qui, sfoggia le sudicierie da salotti meretrici e nobili, coll'animo di quel supremo dilettante Sperelli; da qui, e non prima come vorrebbe lo Scarfoglio, decorre la fonte reddituaria di un diletto fittizio, fattore di arte miserabile e corruttrice. Ché dopo la prova delle alcove dove si è pagati e si paga, la sanissima lupa Nara rifiutossi ai resti di quelle mense troppo ricche, ma niente sostanziose. – Quand'ecco un altro più maligno di me, che ho al fianco e mi ha lasciato sprecar, come vedete, carta ed inchiostro, con esasperante calma mi tocca il gomito e mi fa osservare: "Benissimo: ma la ragion vera, per cui il D'Annunzio ha sostituito le belle ottave della prima edizione colle sciape della seconda, tu non l'hai detta. Pensa alle origini di Venere d'acqua dolce e ricorri alla Vénus rustique del Maupassant. Nella seconda edizione il Pescarese deve far vedere di saper restituire al suo creditore francese capitale ed interessi da quel ricco che è, secondo il Croce, che, dice, può far senza l'altrui. Di fatti si vede: quando non impiega l'altrui, che sciatteria! Restituisce! Quale povertà di concetti e di forme. Che piccolissima Nara gli riesce!". – "Ed allora i miei elogi al D'Annunzio della prima maniera?" – "Vanno a Guy de Maupassant" – "E Nara, despoina e tiranna della susseguente vita e letteratura d'annunziana?" – "Resta una Nara di seconda... mano, non più vergine; una Nara scozzonata francesamente dall'appetito solido e gagliardo del Normanno ed anche, perché non dirlo? – avariata" – "Di modo che Nara continuerà ad essere nel sangue d'annunziano come la lue, non per l'amore ma per la lussuria ed il veleno organico" – "Precisamente. E poi osserva in linea tecnica che 'si charta cadit, tota scientia vadit': – se non c'è più Maupassant non esiste più il bello del D'Annunzio; il che significa, che, sia giovane o maturi il suo ingegno, se non veste le penne del pavone è un corbaccio negro e bigio disgustoso ed irritante. È un'altra riprova colla quale confermasi la sentenza: 'Tutta la venustà formale e sostanziale d'annunziana è rubata ad altrui, ed egli ne usa impudentemente come fosse sua' – Tu intanto, come Colombo, cercando nuovo viaggio per le Indie, hai trovato anche l'America, il che significa prendere: Due piccioni ad una fava".



xlii        Bisogna leggere i tentativi della sua prosa critica per darmi ragione, e quelli altri che si sanno suoi purché non firmati dalle sue cifre, avendo egli scritto di molto e d'ogni roba su giornali e giornalini sotto la maschera di moltissimi pseudonimi. Accostatevi per maggior prudenza intanto a ciò ch'egli confessa: F.P. Michetti, sulla Tribuna illustrata del 1891: – E. Zola, sulla Tribuna del 1893 nn. 181, 188, 193: – L'armata d'Italia, serie di articoli pubblicati sulla Tribuna e raccolti in volumetti, 1888: – le prefazioni alla: Beata Riva di Angelo Conti, 1900; ed a Studi di letteratura italiana di Enrico Nencioni, 1898: infine, alle filastrocche, che ultimamente apparvero sul Corriere della Sera, racchiuse sotto il titolo complessivo di Le Faville del Maglio; – a Studii ed interludii – a Le Forze e le Forme – a Comoedia Dantis – a Per la morte di due amici; tutta roba, come vedete, memoranda; così egli vuol che sia. Voi non vi trovate nessun fondamento critico, nessun elemento filosofico; però che oggi critica rientra in filosofia; nullo, qui, è il pensiero, gonfio il sentimento che domina, cioè il puro istinto; quello che già ha dilagato, nelle altre sue opere di invenzione, l'istinto frenetico, involuto, perché l'etica non ha saputo raggiungerlo e rigovernarlo, e, senza deviarlo dimostrarlo nella continuità del divenire e del rettificarsi. Noi accorgiamo che, in lui, non è possibile il raziocinare, né il sollevarsi alla generalizzazione, né il formulare una legge dalla osservazione di una serie di fenomeni che ripetono un motivo fondamentale e costitutivo, né descrivere un sistema altrui con proprio sistema, né penetrare nella psiche, nella volontà, nel modo di un artista per sapere e farci sapere, se, con questi suoi elementi, esercitati nel suo ambiente, questi abbia riuscito a rendersi, o sia rimasto monco, od inferiore all'assunto. Per ciò, come deve ogni critico che sia tale, D'Annunzio è incapace di sostituirsi, di assumere la mentalità e le forze dell'autore, che va studiando, di pensare come lui, ma insieme di non confondersi, tenendo vigile il giudizio, il quale appunta le deficenze e segnala l'errore, dicendo: "Con queste doti del nostro artista, qui, ha mancato per questo e questo; ed io, fornito come lui de' suoi proprii mezzi, avrei fatto così e così". Il Pescarese non fu mai, né sarà mai critico – il quale, e ripetomi, significa filosofo, perché vuol essere sempre lui nel suo rappezzo estraneo, nella sua sgargiante arlecchineria alla moda. Manca della facoltà di sentire intellettualmente una emozione, di ricongiungere il proprio sentimento, in quanto brivido soggettivo, alle cause generali, per renderlo un episodio cosmico; causa prima, del resto, non solo d'ogni filosofia ma d'ogni letteratura di vita e di pensiero, essendo il resto virtuosismo naturale od abilità da retore, mestiere da cortigiana, che, se pur rappresenta una spontanea aristocrazia, è tale che forse si ignora, perché non ha la fierezza di donarsi per amore e per affinità, ma il solo bisogno di lasciarsi comperare, per prosperarsi e divertire. – In fatti, lo Scarfoglio subito, e prima d'ogni altro, nota le manchevolezze dell'amico suo quand'egli si esercitò in sul Fanfulla, critico della prima esposizione d'arte nazionale, tenutasi in Roma, se non erro nel 1884; quella tale esposizione per cui Sommaruga, vantando protezioni e credito presso pubblici funzionarii e legislatori – ciò che era vero – si ingraziava artisti che lo sportuleggiavano per la miglior riuscita delle sue raccomandazioni non accette dalle illustri persone che pur ne avevano vantaggio: donde, querele, processi e la generosità dell'autore, che salva dalla bancarotta morale i peggiori complici, i corrotti, oggi, trionfati. Ma lasciamo. – Di quel tempo in sul Fanfulla, dunque, G. D'Annunzio era intervenuto per farsi chiamare nuovo e maraviglioso critico d'arte: sentiamo il parere dello Scarfoglio, op. cit.:

            "Il nostro amico d'Annunzio si è buttato alla critica di botto, come i fantasmi che scorrono la sua lirica si buttano nel mare. Guardate: di quella mirabile tavolozza che abbagliò tutta l'Italia, non gli resta se non qualche vescichetta di verdemare e qualche pezzettino di inchiostro chinese, e la sua prosa, come della trobadoria sicula dice il Carducci, pare il balbettare infantile della decrepitezza. Peccato! – Intanto io, che scrivo queste cose di lui col dispetto doloroso d'uno che vegga traviare un fratello e non giunga a fargli intendere la voce della ragione, leggendo i suoi Ricordi francavillesi ripensavo al padre Bartoli che scrisse una storia della Compagnia di Gesù con una prosa così folta d'immagini e così calda, che quella di Gabriele in confronto è una cosa scialba; e mi persuadevo che la dismisura in prosa, come in poesia, è il maggior segno di povertà. Questa povertà, pur troppo, il d'Annunzio la mostra chiaramente nella critica, ove pare un uomo sprofondato fino al petto in un pantano, che si sforzi vanamente con le braccia e con le gambe di liberarsi dalla melma; e più s'affatica, e più affonda. Dopo aver rimescolato con una rabbia frenetica tutte le vecchie vescichette di colore in un articolo di ricordi francavillesi, ove forse voleva mostrare l'ambiente nel quale l'ingegno del Michetti si maturò, cominciò nel Fanfulla quotidiano e domenicale una serie di articoli, ove invano tentò di coprire, col frascame e co' capricci della fantasia, la miseria dell'analisi e la insufficienza della coltura artistica e la incertezza de' criteri; ove l'abitudine del colore ogni tanto, per necessità, riappare; ove non ci è altra cosa che descrizione, descrizione, descrizione come nelle poesie liriche, come nelle novelle. Ora, nella critica d'arte, la descrizione è forse l'ultima cosa; se ciò non fosse, anch'io farei della critica d'arte; e quando in dodici colonne di giornale non si è riescito a cogliere e a mostrare l'aspetto generale di una esposizione, le varie inclinazioni d'arte che vi appaiono, le connessioni di queste prove con le prove anteriori; quando non si classificano ordinatamente tutte le forze che concorrono a questa mostra, e non si confronta questo momento dell'arte moderna con gli altri momenti dell'arte moderna; quando non si sa risalire dall'ultima manifestazione via via su per la storia generale dell'arte, allora le descrizioni fatte di strofe stemperate nel verdemare, ove le incertezze tecniche si nascondono ne' viluppi della frase, ove l'ignoranza si ripara con le graziette leziose del raccontino, possono piacere alle signore, ma fanno pena a chi per rispetto della critica e dell'arte

            non vuol fare critica d'arte" 45. – pag. 197-198.

            Gli imputa, infine, l'inesperienza tecnica, difetto comune a tutti li orecchianti di critica d'arte passati, presenti e futuri; i quali non conoscono da vicino né la pittura, né la scoltura, né l'architettura sopra cui sbrodolano le loro articolesse, firmate con sussiego, Ugo Ojetti, Vittorio Pica, etc....; mettete quanti nomi volete di vostra più intima conoscenza, che lavorano in genere affine su esposizioni, concorsi, commissioni estetiche, e sarete sempre nell'argomento, com'io vi ho esposto negativo. – Sì; è sempre il caso di invocare la così detta antica sapienza; leggasi Aristotile, libro VIII Polit. cap. 3: "Graecorum plerique liberos suos pingendi artem docebant, ut ne in vasorum et supellectilis emptione decipi possent; potius, quod in pulcritudine corporum cognoscenda sollertiores redderentur". Né pur Nonio Marcello devesi lasciar da parte: "Etenim nulla quae non didicit pingere potest bene indicare quid sit bene pictum a plumario aut textore in pulvinaribus plagis". Così, e per l'alta politica e per la più semplice decorazione estetica giovava il saper dipingere, cosa che i maggiormente interessati, come i critici d'arte moderni, hanno qualche jattanza nel confessar d'ignorare: essi protestano di non saper il mestiere e per ciò di comprendere meglio l'arte. – Ascoltiamo anche il Borgese, che riprova, sopra altro tono, la nostra espressa verità, già stata autenticata dallo Scarfoglio (op. cit., pag. 125-126):

            "Esponendo la sua maniera di conoscimento, abbiamo dato implicito un giudizio delle sue facoltà critiche. Non è critico quegli che, cupido unicamente d'intensificare e di sottolineare la propria individualità, rinuncia ad allargarla, accettando i pensieri discordi e le forme aliene. La famosa interpretazione del Tristano di Wagner (Trionfo della Morte), se, come prosa poetica, rivela una squisita sensibilità, come prosa critica non si allontana dalla convenzionale analisi tematica. È Wagner giudicato da un wagneriano, non da una mente superiore, che intenda Wagner attraverso un'estetica universale e monda di formule settarie. Le frequenti digressioni intorno a sculture della scuola fiorentina, a pitture della scuola veneta, a capolavori michelangioleschi sono deliziose divagazioni e traduzioni letterarie. Anche il d'Annuzio, come la massima parte dei cosiddetti critici d'arte, non può intendere la plastica, se prima non l'ha distillata e volatizzata in poesia. Resterebbe la scienza. Fiorito primamente sotto la costellazione della letteratura positivistica, attratto dalle simpatie del suo temperamento verso un naturalismo materialistico, bisognava che anche il d'Annunzio cadesse nell'agguato che a tutti gli arruffoni tendeva la pedestre scienza parolaia dei suoi tempi:

            E t'inviluppi, germe inviolato,
monade pura, ne 'l riflusso immenso
de la materia che giammai non muore".



xliii        Nell'imminenza di non so più quale drama, tragedia, o romanzo d'annunziani, per aggiungere esca e fomento alla letteratura e richiamar l'attenzione anche dei più indifferenti sull'opera, con un fatto patente di cronaca, ritornarono, sui fogli giornalieri, le chiacchiere ed i pettegolezzi della vita intima del poeta pescarese: si andarono rammentando nozze e divorzi, si disturbarono legulei e codici internazionali. Risponde a battuta l'avvocato Girod di Friburgo, uno delli uomini più affaccendati della terra, patrocinatore della signora D'Annunzio: "Sì, si tratta di divorzio: dei pourparlers: il poeta entra nell'ordine di idee della moglie; stiamo cercando una equa soluzione: bisognerà che i coniugi, che non vogliono essere più tali, si facciano cittadini svizzeri: la cittadinanza si accorda in alcuni cantoni della libera Elvezia repubblicana, facilmente, pagando; come i suoi molti e rispettabili alberghi accordano ospitalità al ben fornito di denaro. Si diventa liberi svizzeri pagando dalle cinquecento alle duemila lire... ecc.". – Ma D'Annunzio a questo prezzo non farà divorzio, fa dire da Roma lui stesso. Egli non chiederà mai la cittadinanza svizzera; il suo patriottismo nazionalista gli impedisce di diminuire l'Italia, quasi rinnegandola, per un affare di alcova, per poter sposare la vedova marchesa Carlotti, figlia di Rudinì. No; niente ripieghi di questa fatta, impossibili per lui, italianissimo. – Nota, che, quando l'affare sarà di borsa, e non più di letto, egli stesso s'affretterà a declamare, riparato a Parigi, la magnifica grandezza della sua patria d'elezione. – Ma, da Parigi, dove abita, la moglie, che desidererebbe riacquistare dopo molti anni di legale divisione l'indipendenza assoluta, fa sapere al corrispondente del Pungolo di Napoli altre notizie interessanti che dal critico, se non dal suo lettore, non debbono essere ignorate. Donna Maria D'Annunzio, duchessa di Gallese, è alta, affabile, biondissima, regalmente: abita un ricco appartamento in rue Andrieux, dove riceve il diurnalista:

            "Già", risponde, "esiste un progetto di divorzio, l'unico mezzo idoneo per regolare questa falsa situazione; da un anno pendono le trattative per renderlo possibile; è necessario che ciascuno di noi riabbia la propria libertà. Il nostro matrimonio, oh! il nostro matrimonio! Ricordi? Una folla. Che cosa strana e curiosa. Pensi: si avvicendò tra due terremoti: un vero cataclisma. Sì, ho sposato Gabriele nel 1883, la vigilia del terremoto che distrusse Casamicciola, e, noti la strana coincidenza, il giorno del terremoto, che ha distrutto la Calabria, ho firmato un atto importantissimo, relativo al nostro divorzio. Lo conobbi al principio della sua carriera artistica, quando l'arte sua cominciava a emergere e quando la sua opera poetica era appena cominciata. Lo ammirai per l'ingegno, per la squisitezza dei modi, e ci amammo immensamente. La mia famiglia si opponeva recisamente a questo matrimonio, ma la nostra volontà fu la più forte e finimmo per sposarci. In quel primi anni, fui tanto felice; e ricordo con tenerezza, quando Gabriele abitava con me una casetta modesta – perché mio padre non aveva voluto darmi la dote, cui avrei avuto diritto – la quale egli ornava con quel gusto raffinato, che è una delle sue più grandi caratteristiche. A lui bastavano pochi pezzi di stoffe, qualche fregio semplice per ornare una parete in una artistica armonia di colori. Dipingeva, talvolta, e cultore appassionato dell'arte, ove toccavano le sue mani, le cose parevano trasformarsi, e io trascorrevo la sua vita amandolo e ammirandolo. Lavoratore costante, egli passava le intere giornate e gran parte della notte al lavoro; leggeva, studiava; indagava, scriveva, e in quell'epoca appunto vennero fuori dalla sua mente lavori poderosi che contribuirono a formare la sua gloria. Di tanto in tanto si dava qualche giorno di assoluto riposo, durante i quali era tutto dedito a me, e trovava nel mio affetto quel riposo necessario alla sua mente, sempre fervida e anelante verso alte fantasie. Ed era tanto cortese, tanto squisiti erano i suoi modi, che la nostra vita era veramente deliziosa. Dalla nostra unione avemmo tre figlioli, ma, passati degli anni, cominciò a distrarsi da me, e le sue peregrinazioni artistiche divennero talvolta lunghe, celando l'infedeltà, finché fummo separati giudiziariamente, sette anni fa, dopo che egli fu querelato per adulterio con la contessa Anguissola a Napoli. Ecco tutto. – Oggi egli convive con una signora, e potrebbe anche darsi che la sposi, ma io non so nulla di preciso. Dall'epoca della nostra separazione, l'ho incontrato varie volte, ma mai da parte sua mi è venuto alcun cenno a divorzio. Ripeto, sono stata io a domandarglielo ed egli ha subito accettato".

            Ora il critico, se non il suo lettore, è ben lieto di sapere tutto ciò.



xliv        Demoniaca? Il solo, in questi ultimi tempi, dopo Byron e Foscolo, che abbia diritto di invocare un demone suo nella letteratura europea, fu Enrico Ibsen. Egli può scrivere ad un amico: "Ho terminato Solness il Costruttore ed il Piccolo Eyolf: ecco delle altre opere di Satana; ancora delle altre opere sataniche". Poi ch'egli

            "... ha lasciato per sempre la pianura,

            in alto con Dio e colla Libertà.

            In fondo li altri strisciano vili".

            Henrik Ibsen, poeta lirico, conferenza privata, tenuta al Circolo Carlo Cattaneo, nella sera dell'8 Febbrajo 1903 in Milano.



xlv         Ricordatevi un'altra volta che questo brano fu scritto nel 1908, due anni prima che avesse luogo l'asta pubblica alla Capponcina. Ciò esprime la facoltà d'antivedere nel critico, cioè di assicurarsi, con elementi psichici positivi e sicuri d'un fatto in fieri necessario a compiere la descrizione di una personalità estetica. Questa virtù poco fa era concessa solo, con molti sorrisi, al profeta ed al poeta: nel primo, perché l'intuizione era sorretta dalla grazia; nel secondo, perché dall'entusiasmo, – scarica di forza nervosaemanavasi il vaticinio: e vates ha il nome con sé. Oggi, può anche concedersi al ragionatore, al filosofo, all'interprete, insomma, al critico; ed i classici della critica sorrideranno di compassione all'annuncio che pure speculazioni rientrino a far parte de' mezzi di una scienza positiva ed esatta. Gli è che, giustamente, l'antica metafisica non esiste più e venne sostituita da una dottrina, che, senza perdere di vista l'universale, si mette vicino alla biologia, alla mecanica ed alla chimica: ... ma quei vecchi signori dotti dicono che ho torto e continuano a ridere; il che significa che sentono di non aver più ragione.



xlvi        Ma torniamo indietro un passo; mentre io andava negando, e raccoglieva per ciò motivi, una qualsiasi attività filosofica e critica al pensiero ed all'opera del D'Annunzio, ecco, che Tommaso Parodi si è sforzato, da buon crociano, ad affermare che il D'Annunzio si è elevato alle pure gioje della spiritualità mistica – e come il Borgese della prima maniera – ad un panismo quasi indianonirwanatrovandogli per entro le frasi e le strofe un tantino di sistema organico. (Vedi nel numero di La Voce, 19 Dicembre 1912La filosofia contemporanea in Italia – "La Filosofia nella letteratura contemporanea"). Così il Parodi, che assai poco conosce il Dossi, per non averne capito a traverso la sua letteratura la sua filosofia, essendosi servito di mezzi monchi, come il terzo delle Note azzurre, ammaniteci, con qualche sproposito, dalla vedova, e niente me, perché, per rintracciarmi, si affida semplicemente all'Ora Topica ed alle Nottole ed i Vasi, senza avermi cercato prima nella Solita Canzone, nel Verso Libero, nel Commiato alla Prima Ora dell'Academia, e, specialmente nelle Lezioni di varia filosofia; il Parodi, di fervidissima imaginazione, può anche costruire una filosofia dal D'Annunzio. Hanno, in fatti, scritto altri La Filosofia della Natura, e la Natura, poveretta, ha lasciato fare muta, ché non sapeva di filosofare. E perché non vi dovrebbe essere anche quella di D'Annunzio; il quale stupirà per il primo della trovata? Mi direte che questo è uno sciente, e che, almeno per far onore al suo nome che deriva da scire, dovrà accorgersi d'essere un filosofo. Lo avesse saputo prima! Ci avrebbe ricamato sopra una favola avventurosa e gli avrebbe reso. – Ma il Parodi si sbaglia facilmente: così, chiama me un sopravissuto utilitarista positivo, quando molti anni prima del Croce inalzai lo stendardo del neo-idealismo italiano – non certo hegeliano per cui non rinnegava la razionalità per affidarmi alla intuizione, né i diritti della mente per sconfessarli davanti alla rivelazione. No; io fui e permasi un simbolista in poesia ed un libertario in filosofia; per queste ragioni direttive d'arte e di vita esercito ancora la mia esistenza in rinuncie e sacrifici, che mi affinano e mi temperano e non mi fanno prosperare né meno al più vicino seggio di consigliere comunale, quando altri è, putacaso, senatore e non è un positivista utilitario, ma un puro e perfetto idealista. Così per difendermi poi dal mio prossimo, idealista alla sua maniera, cresciuto per mangiare alla greppia governativa, ho dovuto indossare, a corazza, l'indifferenza ghiacciata, impugnare, come arme, il sarcasmo e lo sprezzo, per tenermelo lontano come un cholera d'alto garbo cattolico. Perché, parmi, che il Parodi confonda l'idealismo colla teologia – è di moda – e si è dato nelle braccia profonde, dal Croce al Rosmini, del buon Dio. Dio è il Trascendente! Buono! Quale nuova conquista sull'Inconoscibile dello Spencer? Ma il filosofo è divenuto l'asceta, e, per parlare di psicologia, sragionerà ontologicamente; la logica si è fatta stravedere od antivedere: bastano i libri sacri ad ogni occorrenza, anche per la guerra di Tripoli. Benissimo! Ed, allora, si concede di fornicare, rubare, uccidere ed ajutare qualcuno a far qualche cosa di simile perché, in questo modo, come la Bibbia ed il Generale Caneva insegnano, si tende al Primato giobertiano della Italia. Già; noi saremo sopra tutto dei filosofi se andremo a messa e ci confesseremo; perché la religione è tutto e sopra ogni cosa; ma io dubito assai che ciò operando si sia anche un galantuomo. Ottimamente! questo è il pragmatismo – che non è mio –, ma dello James yankee, Parodi! – Prima di classificare senza appello, con sicumera infallibile, Carlo Dossi e Gian Pietro Lucini bisogna conoscerli un po' di più, non gittar parole, che cercano di azzeccar il press'a poco, dove emerge l'error ignorantiae et sollecitudinis morosae: chi ha troppa fretta, produce la catedratica disinvoltura insipiente.



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