Gian Pietro Lucini
D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo

"Puff" e "Bluff" con "Polemichetta" (1908)

Osservazione

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Osservazione

Non è recente il "Puff" e "Bluff", come il volume che me lo promosse; era, allora, appena uscito Les Dieux s'en vont, D'Annunzio reste di F.T. Marinetti, che soventi volte vi ho citato, e ne dava sollecita notizia su La Ragione, Roma 13 agosto 1908 con questo articoletto: recentissime invece le Note e ve ne accorgerete. Così, alcuno che voglia, oggi, fare il sottile, con domande capziose, ma non importune, vorrà chiedermi: "Dopo l'avvento del 'Futurismo' tu accordi tutto il tuo credito a Marinetti? E questa insurrezione contro il dannunzianesimo, che fa qui e tu lodi, sei certo che gli uscirebbe tal quale l'altro ? – Non trovi nulla da aggiungere e da spiegare sul carattere di questo libretto e del suo autore?". – Al fatto; egli mi farebbe sovvenire, che, se non l'opuscolo e Marinetti, certo le mie intenzioni ed il mio proprio giudizio del 1908 debbono aver bisogno di aggiunte e spiegazioni, perché, anch'io, nel 1912 non le accetto se non con opportuni distinguo. L'essere cioè intercorso 'Il Futurismo' tra queste due date; l'aver illuminato me sulle precise direttive marinettiane; l'aver allontanato lui dalla mia strada: intervenne, dunque, una maggior chiarezza di rapporti ad aumentare la sicurezza de' concetti e la sincerità delle opinioni; delle quali maggiori prerogative mi servo per non tenere in sospeso i lettori anche sul conto delle lodi tributate, nel 1908, a Les Dieux s'en vont, le quali non accrebbero, nel 1912, per il D'Annunzio reste.

Subito, intanto, la seconda parte del volume, come critica letteraria è poco profonda, mentre è piacente e spigliata come pamphlet; ché il carattere fondamentale stesso del suo autore, il quale è bello nella sua illogicità, non poteva darcelo diversamente. Qui, noi troveremo quelli elementi humoristici che possono impepare una critica profonda e sicura per dottrina, esperienza e filosofia, non già quei concetti, che, dalli aneddoti, dal dettaglio, dal piccolo motivo, risalgono alle ragioni generali, alle cause prime e li fanno considerare, nel tutto, non solo pertinenti, ma essenziali sintomi ed indici di un organismo, di una funzione, di un carattere. È questa, del resto, la solita deficenza di F.T. Marinetti, fornito di altre doti di costanza e di spontaneità; questa di non saper ragionare a tono, nello svolgere le conseguenze delle premesse: ed attualmente, nel regno della cosidetta intuizione, si può credere tale insufficenza una virtù, le operazioni della quale avvicinino e contribuiscano alla conoscenza della verità. Dal canto mio nego: è di contro esponente e sintomo puramente lirico, cioè disordinato e delirante: altre vie passeggia la ragione; la quale guida anche la critica; essa non fabrica il Futurismo; e non crede d'aver la dimestichezza, né coll'opera di D'Annunzio, né con quella invero superiore, per quanto meno contenuta e purgata, di F.T. Marinetti.

Anzi, se mi volete lasciar parlare a mio modo, vi confesserò che tutti e due li credo di parentela maggiore ch'io non lo sia mai stato con loro; e sostengo, con qualche opportunità contro l'opinione comune, che dall'autore del Fuoco più che da quello di Revolverate nasca il germe, – cui Marinetti svolse – del Futurismo. E mi è logico, per quanto imprudente e pericoloso, poi che tornano in onore le aggressioni a mano armata e le forche in Tripolitania, il declinarne ogni responsabilità; da che i Futuristi se ne credono li autori, almeno per interposta persona, e ne menano vanto, come per gloria.

No; quando Silvio Benco, di sul Piccolo triestino del 9 Gennaio 1910, convocava per l'indomani il pubblico al Politeama Rossetti, perché venisse a presenziare e ad applaudire declamazioni di versi di poeti antietetici, raccoltisi sotto la novissima etichetta marinettiana, errava nel farmi stipite di costoro: "Gian Pietro Lucini, un poeta lombardo, che da più di vent'anni vive in continuo rigurgito del pensiero ed in indefesso fermento, e che ha scritto tra dieci libri, in una forma di versi inventata da lui, un fervido caleidoscopio, poema di evocazioni del settecento filosofico e lussurioso: 'La Prima Ora dell'Academia'. Egli, per vero, si schermisce dall'essere futurista'; ma i 'futuristi' dicono che è loro padre. Già, ogni futuro ha un passato".

Mi schermiva e mi schermisco: perché non è col compromettermi in loro compagnia – mentr'essi, dal fatto stesso dei loro codici e decaloghi e dalle loro opere, mostrarono di non aver compreso il mio Verso Libero che è il mio testo e la mia norma fatta espressamente da me per me – ch'io vorrò acconsentire alle loro avventure, sotto ogni punto di vista repugnanti, quando sotto specie di libertà, si concedono i privilegi della ferocia e del brigantaggio, e, colle fisime della maggiore virilità di carattere, si insulta la donna, e, col pretesto della patria, fanno l'Italia croata, e col sofisma della gloria, instaurano il dispotismo, e, colle parvenze del far nuovo, interrompono l'equilibrio; equilibrio che produce, che si fa poesia ed arte, ma rispetta conoscenze ed azioni. Sì che il mio silenzioxlvii riguardoso sulla questione, forse male interpretato come accondiscendenza, ora si muta in pubblica e definita avversione, che troverà modo, in sede più adatta, di ragionarsi e di ragionarvi. Per la qual cosa, meglio la pensò G.A. Borgese ne Gli allegri poeti di Milano, di su La Stampa del 8 Marzo 1910Torino, giudicando il Futurismo così: "Giacché, che cos'altro ha voluto fare il Marinetti, se non la parodia della celebrità?... Simile, almeno in questo, a Victor Hugo fanciullo, che disse: 'Io voglio essere Chateaubriand'; Marinetti si propose di diventar celebre come Gabriele D'AnnunzioScrisse tra l'altro: un opuscolo 'D'Annunzio intime', e, più tardi, un libro intiero: 'Les Dieux s'en vont D'Annunzio reste'; ove la curiosità dello scrittore, eliminando quasi tutti gli altri fattori del complicatissimo fenomeno dannunziano, si ferma sul clamore di pubblico richiamo che ha accompagnato l'opera dannunziana, nel diffondersi pel mondo. Alla grandezza, alla gloria (mi si permetta di porre?? assai, a queste supposizioni del Borgese) di quell'arte, Marinetti restava insensibile: quel che gli importava era la sua celebrità. E parve fin d'allora aver fissato una bizzarra scommessa con sé medesimo: la celebrità? Vi farò vedere come si conquista. Da quel geniale dilettante ed epicureo, che era, non istette nemmeno un istante a pensare s'egli non avesse per avventura i mezzi di conquistare la gloria. Purché si facesse del frastuono intorno al suo nome! Ed inventò il futurismo".

Non so quale smorfia mi farà il Borgese, se si udrà prendere per testimonio, e su queste parole, per mallevarmi la frase seguente: "E però il futurismo è l'esasperazione del dannunzianesimo; e F.T. Marinetti, futurista, nasce da Gabriele D'Annunzio". Dal D'Annunzio il Marinetti imparò le Cento maniere di preparare i contorni per l'Arte, abbondando d'arte, per suo conto, nel suo piatto, mentre il maestro era splendido di fumo e profumi senz'arrosto. Non si dee dunque credere che il Futurismo sia nato per una reazione al dannunzianesimo, che, anzi, col costringerlo a dichiararsi pubblicamente sino alla parodia, fu un intervenire a continuarlo sino all'esasperazione. Dalle gesta confuse o facinorose dei Futuristi, che variano dalla scioaneria all'espropriazione anarchica, che comprendono così il San Francesco pascoliano ed il Bonnot d'annunziano, e danno in grande la imagine completa del vario autore di Corrado Brando e della Contemplazione della Morte, dovevasi subito presumere che il Verso Liberoxlviii era assente, ed un giuoco doveva essere quello di mettermi a porta bandiera dei loro appetiti disordinati alla conquista dell'impero letterario.

Io non desiderai, né desidero di aumentare il mio dominio perché già tutto possiedo, essendo padrone di me stesso, la più difficile impresa a cui l'uomo si accinga. Non necessito, quindi, di alleati per guerre e non intendo promettermi in alleanza colli altri, che possono abusarsene. Le gesta, poi, di piazza su cui si ammirano, si avvicendano applausi, fischi, colluttazioni; in cui il buono e cattivo gusto son pretesto per far del teppismo a pugni; in cui si proclamano assurdità estetiche per l'imbecille folla, cui si va irritando per accalappiare meglio, – assurdità estetiche che non trovano le uguali se non nelle politiche ed economiche assurdità de' socialisti di politica, di affare –; questo gran fracasso di voci, di pugni, di sciocchezze mi irritano espressamente e mi allontanano sempre più.

Quello, invece, è il gesto topico e trionfante di Gabriele D'Annunzio: al poeta di Pescara, che incominciò la rovina, colla lussuria, delle lettere italiane contemporanee, sia imputabile la loro distruzione totale, colla violenza frenastenica futurista; al poeta di Pescara, solleticato e punto insieme sul libretto marinettiano, sia la responsabilità di questo crudele secentismo durato una stagione, ma con fortuna inciprignita; non a me, che incomincio a gustar il mio libro quando so che può essere piaciuto da solo dieci lettori; non a me, che preferisco la miseria, libero, alla ricchezza, schiavo: è al D'Annunzio, che fa volare i proprii eroi, i Wilbur Wright ed i Blériot, sul Forse che sì, forse che no; che si abbassa a descrivere e cantare machine e tormenti di guerra, per eserciti ed armate; è a lui, che applaude il dispregio alla donna come la condizione vitale dell'eroe modernoxlix; a questi, che debbono rivolgersi li occhi riconoscenti le braccia tese all'amplesso, il desiderio di sempre più imitarlo. Nelle Canzoni delle Gesta d'Oltre Mare si è confusa la Battaglia di Tripoli marinettiana; sì che i due autori non si differenziano più.

Avrà conservato per ciò il D'Annunzio reste, lodato allora, oggi, la eguale efficacia di verità, l'identica sincerità? Se vi è evidente, e la si sente acidula, quella piccola punta d'invidia, che rialza il tono al periodo, pur tolto via il dubbiol che l'antagonismo marinettiano abbia caricate le tinte al volumetto, il suo valore mi rimase immutato: e cioè: I) essendo una serie d'immagini d'annunziane riflesse da uno specchio simpatico ed affine sono quelle più esatte e più vive; II) concorrendo il Marinetti a quel vertice, su cui il D'Annunzio poggia, la foga e la passione di raggiungerlo lo faranno più audace, e, letterariamente, più spontaneo. Poi, se sull'uno e sull'altro, regnando il trucco, si ingannano a vicenda e nol confessano come li Auguri romani inchinandosi, non è cosa che ci riguarda. Non vedete sgargiare rosso ed oro l'insegna Puff e Bluff? Siamo noi che vi abbiamo dipinte le parole: le quali solo non uccellano e danneggiano coloro che sono rimasti dopo, ingenuamente candidi, a rimirarle senza suadere al loro invito, quelli che son classificati dall'altri, furbi, provati e gabellati, con dileggio: "Sciocchi!". Sì, che a loro servì la soprafina astuzia!

Se non che il Marinetti, anche considerato come il creatore del Futurismo, è qui al proprio posto e la critica sui generis ch'egli ha dedicato al D'Annunzianesimo, in genere, ed al D'Annunzio, in ispecie, non ha smuntato: chi mai più di lui doveva saperlo, come l'altro, sacrificatore e vittima nello stesso tempo di quella religione di cui il rito più essenziale, sostanzioso e sacrosanto è il fumo!

Per ciò io acconsento ad unire in Antidannunziana anche queste altre poche pagine, che vi fanno vedere il proprio D'Annunzio, spiegato da un suo rivale, la persona di lui compresa da un suo riflesso, con questa differenza che il rivale ed il riflesso hanno mostrato, in altre occasioni, quando non pretendevano a soverchiare, attitudini, capacità ed opere superiori.

Varazze, 27 Novembre 1912.





xlvii       Non tanto silenzio: puoi leggere "Del 'Futurismo'" su La Ragione, Roma 14 marzo 1909, in cui pregava la critica benevola e maligna di non confondermi a posta colli altri che volevano essere i miei fratelli.



xlviii      A pensarci bene posso anche assolvere della confusione i Futuristi, che affondarono Il Verso Libero come loro assisi, col riguardare alla oscurità e alla originalità del medesimo, per cui tutte le esegesi, anche le opposte e contradittorie, si possono tener buone, al dir de' critici di quel volume. Ciò sarebbe a mio vantaggio, assicurandomi aver io fatto opera di vita più che di letteratura; cioè aver io dato assetto ad una tendenza universale, come universale fu quella del romanticismo, sotto cui si denominarono Chateaubriand e Victor Hugo. Ma mi è doveroso insistere, che, se la mia esistenza ed il mio carattere diedero Il Verso Libero, un libro le cui continuità verranno riassunte e comprese nel secolo venturo, il XXJ – come capitò all'opera di Stendhal – da questo libro i Futuristi non estrassero che parole male armonizzate, e cioè i loro manifesti tecnici, in cui è difficile comprendere qualche cosa che viva oltre la sera di quest'oggi.



xlix        Mi vengono a dire che la condizione vitale dell'Eroe moderno stà nel dispregio alla donna: una illusione, espressa con una calunnia verso sé stesso –come uomo–, con una bestemia, verso la donna. Condizione vitale dell'Eroe è intensificare l'umanità, la quale si esprime, in germe, biologicamente, dal coito. Volete voi sopprimere il secondo termine dall'amplesso? Provatevi a procreare senza fornice ed utero: anche l'umana divinità non vuole l'assurdo: dunque: calunnia e bestemia. Nel caso specialissimo, sentir dire da D'Annunzio: "Dispregio alla donna" è ridicolamente assurdo; perché egli, al posto del cervello ha tutt'ora il sesso, e tutto quanto ha voluto fare si è per l'appetito disordinato del medesimo, per essere un Don Juan modernissimo della carnalità decadente. E mi soggiungerete: "E però oggi va formulando una nuova teoria della santità". Benissimo; ciò riprova il mio assunto: che è l'ascetismo se non la lussuria in tensione ed in potenza, cerebrata? Che significano le sante Caterine, le sante Terese, le sante Marie Alacoque, se non delle eccellentissime erotiche, deviate dall'azione pandemia sessuale, per essersi dedicate alla abberrazione singolare della verginità isterica a profitto del nulla, cioè, dell'imagine di un idolo? Se allo psichiatra chiederete le affinità mentali e patologiche delle sante, egli dovrà additarvi quelle che ha riscontrato nelle grandi cortigiane: e perciò sia l'una che l'altra categoria è benemerita della letteratura, la quale ne abusò.



l           Ma bisogna aggiungervi il senso d'ammirazione che ne prova il Marinetti nel rimirarlo:

            "Quante volte io ho presa la penna, per esercitare la mia ironia sull'opera di Gabriele D'Annunzio, ed altrettanto mi è scivolata furbamente tra le dita allo spettacolo incantatore e sempre divertente della sua vita colorata arlecchinescamente da tutti i raggi della fortuna. Di fatti, al solo vederlo ti disarma la satira ed il sarcasmo, tu fossi il nemico, il detrattore sistematico e senza pietà. No, io non son tra questi; io non posso salutare l'autore del Fuoco senza adorare, con voluttà, il misterioso profumo di inconscia fortuna e di voluta furberia che sorge dal suo gesto feminile. Subito, al primo conoscerlo, fui penetrato dall'incanto che emana il suo corpo vibrante ed onduloso, dalle infantili elasticità di giovane arbusto primaverile; dal suo corpo acido di eterno adolescente, cui la scintillante calvizie ed il rossiccio delle guancie asciutte, i sei peli de' suoi mustacchi ed i tre crin fulvi della barbetta non fanno mai invecchiare". – Pag. 183-84 –.

            Marinetti col suo gusto impertinente, direi quasi di omosessualità, può compiacersi di questo omarino: io vi trovo qualche cosa di vipereo, di troppo agile saettatore che si storce e riesce, comunque, se pur l'hai ghermito, a morderti la mano avvelenandotela: può essere ciò una dote eccezionale che fa dell'Imaginifico anche un unico operatore di voluttà, per cui le dame si smemorano in lui, succhiandogli il quadruplice spasimo fantasiato: ma questo troppo, questo eccesso, che persiste anche nella sua lettura, è però idiosincratico colla mia secchezza, col mio poco fremere, ed assai ragionare, donde repugno.



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