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Quando il buono e diligente Hérelle avrà sudato tutte le sue fatiche nella ricerca dei nomi preziosi ed esatti, delle arcaiche verbalità, dei costrutti singolari e speciosi, nel tradurre La Nave, e questa, all'Odéon od alla Renaissance, apparirà alla ribalta collaudata dalle abilità più in voga dell'istrionismo, sotto il nome di Le Navireli; un'altra volta, divo Gabriele onorerà di sua presenza Parigi. Egli vi si crede aspettato con impazienza ed affretta corso alla stagione perché, dopo Trouville, i viaggetti per la Svizzera e la Bretagna, le caccie in Normandia, le vendemie in Provenza, tutta la città torni all'applauso e rinnovi, per lui, li entusiasmi delli snobs ed i sorrisi maligni e reticenti della critica invidiosa.
Starà infatti ad attenderlo la dama illustre, che gli prestò la sua mano, nel fondo di un palchetto semioscuro, feticcio e portebonheur, per tutta la prima rappresentazione di Ville Morte, fiasco sostenuto dalla dizione magica e dal porgere perfetto di Sarah Bernhardt: Lyane de Pougy, che già gli chiese un mimo singolare per sfoggiarvi le preziosità della sua persona, oggi, priva del correttore de' suoi romanzetti, Jean Lorrain, lo inviterà, forse, a occuparne la carica, non facile sinecura, per lasciarsi ripetere il complimento: "Ah, quel joli visage" per permetterle di confidargli la pena, non ancora medicata, della perdita della collana di perle, trecento grosse e tonde ed uguali, ciascuna delle quali rappresentò, per lei, un dolce ed intimo ricordo. E Ricciotto Canudolii, suo banditor di lontano, gonfio di molta loquacità mediterranea, ben stemperata in francese, magnificando a dritta ed a manca la latinità, la grandezza, la possanza, la bellezza dell'unico discepolo di Carducci, battendogli dietro la gran cassa, sul break dipinto, stemmato e dorato del cavadente, gli si affretterà incontro, tutto ossequio, disinvoltura, rispetto ed officiosità; gli offrirà sé stesso e la sua penna scorrente, paraninfo e Barnum in sott'ordine di questo bluff abruzzese, di questo bovarysme epilettico e persuaso.
Troverà pure, tra le accoglienze cortesi e liete, questo piccolo volume: "Les Dieux s'en vont, D'Annunzio reste". F.T. Marinetti glielo ha composto con cura secreta e glielo porge, malizioso, come, dietro il carro del trionfatore è fama, che, in Roma, uno schiavo andasse ramentando vicino al Campidoglio la Rupe Tarpea.
Pamphlet, lo incominciano a dire i giornalisti francesi che se ne occuparono già: pamphlétaire il suo autore, ricco di estro garbato nel consacrare al poeta di Laus Vitae un libriccino ricolmo di misteri, di reticenze, di sottintesi, di graziette apodittiche. Il Marinetti si è compiaciuto di offrire le sue ironie divertenti e le illustrazioni barocche e geniose delliii Valeri, – il quale commenta in sintesi il testo con una sfoggiata e demolitrice caricatura – mentre li Iddii indigeti di Italia, Verdi e Carducci, presiedono alle nostre fortune dalla tomba; lo manda al pubblico d'oltre il Cenisio se vuole comprendere; lo destina al suo eroicomico eroe, mista persona di ingegno e di plagi, di lirica e d'istrionismo, di sincerità incosciente e di inavvertita e spontanea menzogna, se vuole degnarsi di conoscere, a paragone, la sua imagine vera. Fors'anche ha aggiunto un'altra pagina al grosso volume delle ciarlatanerie d'annunziane ch'io intitolo, per l'occasione, Puff. (Pronunciate Peuff all'inglese). Perché il Puff divenne una assoluta necessità e da Londra passò la Manica, le Alpi e venne tra noi; ha conquistato i suoi diplomi di naturalizzazione e di cittadinanza; è la menzogna allo stato di speculazione e alla portata di tutti, moneta corrente, gettone d'inganno, cambiale inesigibile, che circola liberamente perliv la società, pei bisogni dell'industria letteraria e no; è rappresentata da tutte le vanterie, da tutte le pagliacciate, da tutta la falsa sensibilità de' nostri poeti, de' nostri oratori, de' nostri uomini di Stato, ed ha per organo massimo La Réclame, ordigno, machina, velocità d'informazione, stereotipata bugia telegrafica, corruzione del gusto nazionale, scherno insistente, continuo e doloroso alla dignità severa ed alla onesta bellezza della nostra vita moderna.
Fors'anche Marinetti, che incalza la fama colla punta del fioretto alle reni, si valse del puff abruzzese per avvalorare il proprio; poco male, del resto, perché l'opera è coraggiosa e schietta, quand'anche affetti ritrosia e capzioso badaluccare di retorica, per cui le verità meglio appaiono, la critica meglio ferisce, l'omuncolo è, da più largo trespolo, messo in bando sulla piazza affollata e comiziale.
Il libro è dedicato Alle Ombre di Cagliostro e di Casanova, squisitissimi e sorridenti imbroglioni, poi ch'egli parla d'un ineffabile loro discendente e lo rimette al pari, amministratore fuori concorso di gloriola, per la stupefazione sciocca e spalancata de' borghesi, per la prurigine epilettica delli imbecilli, sospesi alle vicende rinnovate della sua vita e della sua poesia camaleontica e vagellante.
"I geni del Mezzogiornolv – scrive Marinetti –, portano sempre, nella loro sacca da viaggio, doni imprevisti di finezza e di astuzia sfacciata, coi quali si giovano anche delle disavventure. D'Annunzio è andato persuadendosi, che, per conservare intatta e salva la riputazione d'artista, doveva indulgere, volta per volta, e concedersi il lusso di frasi, di gesti, di pose eccentriche ed inattese, da mandare in pasto alla curiosità vorace del grosso pubblico. Perciò ha l'abitudine di preparare accuratamente, davanti all'aspettazione di una sua qualunque tragedia, aneddoti imaginarii, indiscrezioni strane, che vengono raccolte e si aumentano nel viaggio per le gazzette, come la valanga, precipitando a valle, si fa enorme strisciando sul nevajo della china. In fondo, romba, come il tuono, ma si liquefa presto.
Il Pescarese ha accettato che parlassero di lui I Presepii d'Annunziani, mandatigli incontro, sino dal 1903, da Garibaldo Bucco con manifesto dileggio; ha ben veduto, che lo stesso Marinetti lo indicasse dal Verde-Azzurro, nella serie delle Nostre celebrità, col D'Annunzio intime, spunto di questo... D'Annunzio reste.
Può dunque ammettere necessario che alcuno lo faccia conoscere a Parigi, dove la sua insopportabile infatuazione sconcerta ed irrita le sue ammiratrici più devote; è logico che alcuno dica là giù donde vengano li spunti capitali delle sue opere, a quanti si numerino i plagi evidenti, dove il Mauclair può trovare una scena della sua Couronne de clarté, dove Paul Claudel un'altra della Tête d'Or; dove Henri Bataille tutto il motivo della sua Lépreuse, senza ripetere il resto, che, a suo tempo, ma senza efficacia, il Thovez aveva già denunciato.
È doveroso, che, colle turibolate delli ignoranti e delli interessati, anche i parigini odano le mirabili virtù di codesto uomo, che, falsando la storia delle origini italiche, ha l'impudenza di offrire a ciascuna regione italiana il poema etnico di sua razza; e vedono come la rinomea dello scrittore, per quanto possa essere solida, declina in queste deplorabili fanciullaggini, colle quali, la sua avidità di commerciante in versi e di postulante in gloria si studia di rendersi universale. Questo processo amministrativo da barbaro, che non rispetta se non il risultato pratico, di Yankee che ha adottato, non l'azione diritta e diretta, ma il bluff e tenderebbe ad imitare lord Byron, con minor grazia, con minore nobiltà, con maggiore soperchieria, ed emulerebbe i peggiori difetti di Victor Hugo, vago di sé stesso e gonfio delli incensi della clientela che lo sfrutta, è quanto ammira, sarcasticamente, da vicino il Marinetti. Egli sa e dice come ne sia composto; – ci mostra i pezzettini del mosaico variamente colorati; sorprende il proprio eroe nel suo paese natale, mentre conciona la sua omelia alessandrina del confine-meeting sfarzoso uccellatore di voti; – l'imposta davanti ai fischi delle platee, contro il suo Brando piccolo e vile assassino; – lo fa ancheggiare sulla bigoncia, se recita La Canzone di Garibaldi, esca ai sovversivi perché lo accettino; – lo segue a rivendicare la morte di Greyhoundlvi, levriere ladro di galline, in pubblica pagliacciata giudiziaria; – lo mette in guardia nel suo primo duellolvii; – lo dettaglia alla prima rappresentazione di La Navelviii.
Marinetti gli gira in torno, lo loda, lo applaude, gli scocca contro un lazzo, lo fa sorridere; due, tre, lo annoia, lo irrita, lo confonde. Il giocattolo, che per interne molle cantava così bene, tace; la macchinetta è scomposta; tanto di filo di ferro, tanto di elastico, tanto di cartone, tanto di pelle, tanto di cera; poi la chiavetta che gira tre volte nella toppa e ricarica il meccanismo delle ruote dentate; quattro ruotine, che si prendono bene sul tamburo; il perno è di bronzo, perché su di lui il maggior sforzo. Ecco il fantoccio: ricomponetelo. E, mentre lo svita, lo apre, ne fa la nomenclatura ridicola e sottile, non cessa di ammirare la perfezione colla quale vennero preparati i dettagli, le parti, i minuti ingredienti: "Come bello! Ottimamente! A meraviglia! Bambino prediletto dalla Gloria e dal Genio!". – Un'altra volta lo snob resta imbarazzato, se debba credere sul serio alla lode, o più tosto, alla insinuazione che sguscia tra le linee e qualche volta trabocca dal periodo: Marinetti lo intrica, lo coglie in fallo, lo rende perplesso. "Puff" – pronunciate all'inglese '"Puff". Codesto è il sigillo profondo che si imprime sulla cera rossa e molle della nostra curiosa, insaziata, malevole ed indifferente società. Volete ingannarvi un'altra volta, e credere all'inganno e venerarlo e stringere nubi, fumo, fiato? "Puff!". Questo vi giovi. Ogni civiltà ha i letterati che si merita; i migliori sferzano la nostra in volto colle verghe che ha porto loro come fossero giunchi da passeggio, o la trascurano, severi racchiusi in loro stessi maravigliosamente incompresi dai contemporanei.
Ecco, perché dopo tutto, Les Dieux s'en vont, D'Annunzio reste è un libro onesto e coraggioso; s'aggiunge, oggi, alla Lettera di Francesco Pastonchilix, insorta l'anno scorso contro il vanto della Prefazione di Più che l'Amore; segue alle generose parole di Arcangelo Ghisleri: Istrionismo e pusillanimità; è necessario sgretolare, o col ridicolo, o coll'invettiva, codesta artefatta cristallizzazione di illustre superiorità mentita; mostrare l'artista e l'uomo nudo alla folla.
Questo è il vostro idoletto! Come amato? Quanto amato? Costui vi riassume e vi fa divertire, perché vi rappresenta. Oh, come piccolo, oh, come povero, oh, come nullo! E tutto qui: bluff e puff:
"Arma la posa e va a gabbare il mondo".
"Illustrissimo signor Pretore,
Domando alla S.V. che si proceda penalmente contro la persona che risulterà colpevole dell'uccisione di un cane levrieri greyhound, che nella mattina del 5 giugno fu trovato in un fossato del podere prossimo alla mia villa, con evidenti traccie della violenza che ne aveva causato la morte.
E poiché io non mi sono astenuto dal far indagini, non esito a dichiarare che per convinzione mia e, credo, anche di coloro che mi hanno aiutato in queste ricerche, è da ritenersi autore del reato Francesco Volpi, e mi sento anche in dovere di esporre le circostanze di fatto sulle quali si fonda il mio convincimento.
Il cane levriero che mi è stato ucciso era uscito dal recinto della villa Capponcina la sera del 4 giugno e non essendovi ritornato alle ore 9, quando la persona preposta a questo servizio (certo Angelo Trapani) riunì tutti i miei cani nel locale ad essi destinato, fu premurosamente ma inutilmente ricercato fino alla mezzanotte in tutti i poderi vicini, e principalmente in quello vicinissimo coltivato dal Volpi, poiché l'assenza in quell'ora di uno dei miei cani costituiva un fatto assolutamente nuovo. Si è saputo che verso le 8 di quella stessa sera il cane fu visto entrare in casa del Volpi da certo Cesare Conticini (lavorante presso i coloni Cortigiani, al podere del marchese Viviani), che non lo vide più uscire da quella casa. Né dopo quel momento, malgrado le attivissime ricerche che furono fatte, fu più veduto da alcuno, di guisa che mi pare necessario credere che a quell'ora e in quel luogo il cane sia stato ucciso. A questi dati di fatto deve aggiungersi che il dottore Ugo Vigiani, eseguendo per mio incarico l'autopsia il 5 giugno, come accertò che la morte era avvenuta per commozione cerebrale al seguito di un violentissimo trauma che aveva prodotto frattura comminuta del cranio, constatò anche che la morte risaliva alla sera precedente. Che brevissima è la distanza tra la casa del Volpi e il fossato nel quale il cadavere del cane era stato deposto in modo che i rovi e le altre piante lo nascondessero completamente a chi non avesse fatto, come furono fatte da me e dai miei incaricati, accuratissime ricerche. Che mentre si estraeva il cane dal fossato, una persona della famiglia Volpi si presentò per dire che il cane doveva essere annegato, e all'osservazione mia che il cane doveva essere stato ucciso da loro, si ritirò senza aggiungere parola. Che, poco tempo prima del 4 giugno, Francesco Volpi, parlando con molte persone, Rocco Pesce alla Villa Capponcina, Giovanni ed Augusto Fringuelli, Angelo Dei e Angelo Mapezzoli, ecc., espose il proposito di uccidere qualunque dei miei cani fosse entrato nel suo podere.
A spiegare, non a giustificare questa frase del Volpi, posso soltanto dire che, circa tre mesi or sono, un altro dei miei cani inseguì e raggiunse senza però uccidere, tre galline di proprietà Volpi. Ma debbo soggiungere che il Volpi per questo fatto reclamò ed ebbe 15 lire d'indennizzo, e che nessun fatto successivo potrebbe aver dato al Volpi un legittimo motivo per l'atto brutale di cui lo ritengo colpevole, perché tutti i miei cani levrieri, sebbene siano dotati di una grande vivacità ed agilità, sono però di mitissima indole, e perciò affatto innocui, e perché il cane che è stato ucciso, essendo anche giovanissimo, meno di qualunque altro poteva rendersi temibile.
Chiedo che, oltre alle persone più sopra nominate, siano interrogati il brigadiere dei reali carabinieri di Rovezzano e un carabiniere che fece con lui le prime constatazioni, perché desidero che i risultati delle mie indagini siano accuratamente controllati nell'interesse della giustizia.
Alle nove di mattina del 31 agosto 1906, s'aperse l'udienza. La causa D'Annunzio-Volpi venne chiesta alle undici e mezzo; diè sentenza il pretore avv.to Francesco Giordani; condannò il contadino Volpi a: dieci giorni di detenzione ed a cinquanta lire di multa, col beneficio della condanna condizionale, più i danni e le spese da liquidarsi in separata sede. Questo è quanto riserbano i codici al coraggioso che si sbarazza dai Corrado Brando a due ed a quattro gambe.
"Una sera al Caffè Aragno, mentre furoreggiava La Nave all'Argentina, un crocchio di giornalisti andava ricordando aneddoti e curiosità d'annunziane. Ciascuno aveva il suo, ben inteso, inedito in cui si rivelavano, qual più qual meno, l'eccentricità ed il funambolismo dell'Abruzzese. Uno solo dei presenti taceva: qualcuno volle scuoterlo, chiedendogli a bruciapelo che ne pensasse della tragedia. – Non posso parlare – rispose. – Mi sono... battuto col Poeta. – Si domandarono spiegazioni e il vecchio raccontò. Il fatto era avvenuto nel '85, nei pressi di Pescara. Segretario all'Intendenza di finanza di Chieti, egli pubblicava e dirigeva in quella città un foglio politico settimanale, l'Abruzzo. Ad una soirée in casa del sindaco di Castellammare Adriatico incontrò D'Annunzio; fra gli invitati erano anche il pittore Michetti, lo scultore Barbella, Scarfoglio, Tosti. Pare che il D'Annunzio arrischiasse nel suo crocchio qualche frase o qualche accenno offensivo pel giornalista. La domenica seguente, l'Abruzzo usciva con un articolo canzonatorio, che destò impressione. D'Annunzio mandò Michetti e Scarfoglio a sfidare il direttore del periodico, il quale nominò i propri rappresentanti e propose uno scontro alla pistola. Questa parve un'arme... troppo pericolosa. Seguirono complicate trattative: intanto nel pubblico, che si interessava vivissimamente alla vertenza, si formavano due campi. Pel direttore dell'Abruzzo, si erano schierati tutti i forestieri che subivano da tempo ogni sorta di angherie senza osare di ribellarsi: la questione personale diventava una questione di nord contro sud! Venne decisa infine la sciabola. La scena sul terreno riuscì strana. D'Annunzio – aveva vent'anni allora, ed al suo attivo non era che un solo volume di versi! – malgrado un colletto alto due palmi ed il davanti della camicia inamidato e lucido come una corazza, fu toccato due volte, assai leggermente, invero. Alla seconda, una venina della fronte, recisa, diede l'impressione di una grave ferita e lo Scarfoglio si pose a gridare come un ossesso che si era ucciso il suo amico ed a ingiuriare l'avversario di questo. Fortunatamente tutto finì in breve. D'Annunzio, in luogo di rientrare in Pescara, preferì recarsi a Chieti, in carrozza, col suo stato maggiore e percorrere tutte le vie della città. Egli aveva ragione, era alla sua prima prova. Poi si agguerrì, e lo provò proprio quando ebbe a misurarsi col suo stesso amico Scarfoglio: si fecero in quell'occasione ben trentacinque assalti ed al trentaseiesimo ai due avversari fu imposto di smettere!".
Indi fu ne' dì successivi una caccia affannosa e prodigiosamente beota all'autografo, e ripete Gabriellino: "Era un andare e venire ininterrotto di amici, di conoscenti e di sconosciuti, tutti smaniosi di avere su la loro copia della Nave una dedica di mano del poeta. E tutti mi mostravano il volume già acquistato, come per dirmi: 'Capirà, ho speso quattro lire... Due righe di dedica, in coscienza, non mi si possono rifiutare...'. – Messo, così, con le spalle al muro, prendevo i volumi e li portavo all'albergo, dove frattanto altri volumi erano arrivati, e biglietti di gente che li mandava con la solita preghiera d'una dedica autografa. Nei pochi minuti di tregua Gabriele d'Annunzio soddisfaceva di suo pugno alle numerose richieste; ma, non bastandogli il tempo, lasciava a me, che imito assai bene la sua scrittura (e mi contento d'imitare soltanto quella), l'onorifico compito di fabbricare degli autografi dannunziani". – Oh Gabriellino degno d'ogni laude per esserti lasciato sfuggire con tanta disinvoltura e noncuranza le belle verità, donde sgusciano l'impertinenza, l'amoralismo, la mancanza assoluta di quanto può chiamarsi ribrezzo morale per il sudiciume! Oh, magnifici dominatori, che si passano la penna l'uno all'altro indifferentemente, per la firma che vale e nella speranza della quale i merli s'impaniano nelle botteghe di librai a spendervi le quattro lire, oh superuomini che non pensano e su cui grava il per cento all'autore; non credono di fare un falso! Oh greggie unto, puzzolente, pecore, per quanto vestite di panno fine e di seta, che davanti alla firma preziosa, cui sfoggiò la sua altissima calligrafia in prima pagina della Nave può chiedersi, oggi, con grinta e sussiego hamletiano: "È o non è... autentica?". Ma sopra tutto che bella impudenza epica... da Basiliola: vantarsene è privilegio di famiglia. Sì che il 27 Aprile, quando venne consegnato con magnifica cerimonia, a Venezia, il manoscritto della Nave, qualcuno avrebbe potuto chiedersi, se, per avventura, non fosse apocrifo, qualora fosse già stato istruito dalla ingenua soperchieria che a cansar fatica al padre si era assunto il figlio in quelle serate romane: "Era il mio lavoro serale. Mi sedevo a tavolino, aprivo i pacchi di libri accatastati dinanzi a me, e su ciascuna copia scrivevo il primo verso della Nave che mi veniva a mente. Ricordo che su un volume – avendo ormai esaurite tutte le frasi più o meno dedicatorie della tragedia e non sapendo più che cosa citare – scrissi con la più bella calligrafia paterna: 'Discingiti! discingiti!': le parole della folla a Basiliola durante la danza; e firmai: Gabriele D'Annunzio". To', gioia, un bacio! Te lo sei guadagnato; è il sangue che parla in te; Gabriellino, sei Gabriele! – In fine, di tutta La Nave non rimase che un bicchierino di bitter, quello che bevono li studenti italiani, quando incapaci a sostenere li esami doverosi, a coonestare la propria ignoranza, si ricordano dell'irredentismo e vanno, all'influsso di droghe pur tedesche – bitter-amaro, a vociar sotto i Consolati muniti di guardie di città e di bersaglieretti, logica difesa dell'aquila di Asburgo. Già; l'Amaro Adriatico, una frase ad effetto che li austriaci presero troppo sul serio, col relativo rialzo delle azioni patriottarde del Poeta; il quale ha sempre bisogno di essere scontato, con fiducia, sopra la pari da che questo vale veramente come un assegnato.