Gian Pietro Lucini
D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo

"Puff" e "Bluff" con "Polemichetta" (1908)

"Puff" e "Bluff"

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"Puff" e "Bluff"

Quando il buono e diligente Hérelle avrà sudato tutte le sue fatiche nella ricerca dei nomi preziosi ed esatti, delle arcaiche verbalità, dei costrutti singolari e speciosi, nel tradurre La Nave, e questa, all'Odéon od alla Renaissance, apparirà alla ribalta collaudata dalle abilità più in voga dell'istrionismo, sotto il nome di Le Navireli; un'altra volta, divo Gabriele onorerà di sua presenza Parigi. Egli vi si crede aspettato con impazienza ed affretta corso alla stagione perché, dopo Trouville, i viaggetti per la Svizzera e la Bretagna, le caccie in Normandia, le vendemie in Provenza, tutta la città torni all'applauso e rinnovi, per lui, li entusiasmi delli snobs ed i sorrisi maligni e reticenti della critica invidiosa.

Starà infatti ad attenderlo la dama illustre, che gli prestò la sua mano, nel fondo di un palchetto semioscuro, feticcio e portebonheur, per tutta la prima rappresentazione di Ville Morte, fiasco sostenuto dalla dizione magica e dal porgere perfetto di Sarah Bernhardt: Lyane de Pougy, che già gli chiese un mimo singolare per sfoggiarvi le preziosità della sua persona, oggi, priva del correttore de' suoi romanzetti, Jean Lorrain, lo inviterà, forse, a occuparne la carica, non facile sinecura, per lasciarsi ripetere il complimento: "Ah, quel joli visage" per permetterle di confidargli la pena, non ancora medicata, della perdita della collana di perle, trecento grosse e tonde ed uguali, ciascuna delle quali rappresentò, per lei, un dolce ed intimo ricordo. E Ricciotto Canudolii, suo banditor di lontano, gonfio di molta loquacità mediterranea, ben stemperata in francese, magnificando a dritta ed a manca la latinità, la grandezza, la possanza, la bellezza dell'unico discepolo di Carducci, battendogli dietro la gran cassa, sul break dipinto, stemmato e dorato del cavadente, gli si affretterà incontro, tutto ossequio, disinvoltura, rispetto ed officiosità; gli offrirà sé stesso e la sua penna scorrente, paraninfo e Barnum in sott'ordine di questo bluff abruzzese, di questo bovarysme epilettico e persuaso.

Troverà pure, tra le accoglienze cortesi e liete, questo piccolo volume: "Les Dieux s'en vont, D'Annunzio reste". F.T. Marinetti glielo ha composto con cura secreta e glielo porge, malizioso, come, dietro il carro del trionfatore è fama, che, in Roma, uno schiavo andasse ramentando vicino al la Rupe Tarpea.

Pamphlet, lo incominciano a dire i giornalisti francesi che se ne occuparono già: pamphlétaire il suo autore, ricco di estro garbato nel consacrare al poeta di Laus Vitae un libriccino ricolmo di misteri, di reticenze, di sottintesi, di graziette apodittiche. Il Marinetti si è compiaciuto di offrire le sue ironie divertenti e le illustrazioni barocche e geniose delliii Valeri, – il quale commenta in sintesi il testo con una sfoggiata e demolitrice caricatura – mentre li Iddii indigeti di Italia, Verdi e Carducci, presiedono alle nostre fortune dalla tomba; lo manda al pubblico d'oltre il Cenisio se vuole comprendere; lo destina al suo eroicomico eroe, mista persona di ingegno e di plagi, di lirica e d'istrionismo, di sincerità incosciente e di inavvertita e spontanea menzogna, se vuole degnarsi di conoscere, a paragone, la sua imagine vera. Fors'anche ha aggiunto un'altra pagina al grosso volume delle ciarlatanerie d'annunziane ch'io intitolo, per l'occasione, Puff. (Pronunciate Peuff all'inglese). Perché il Puff divenne una assoluta necessità e da Londra passò la Manica, le Alpi e venne tra noi; ha conquistato i suoi diplomi di naturalizzazione e di cittadinanza; è la menzogna allo stato di speculazione e alla portata di tutti, moneta corrente, gettone d'inganno, cambiale inesigibile, che circola liberamente perliv la società, pei bisogni dell'industria letteraria e no; è rappresentata da tutte le vanterie, da tutte le pagliacciate, da tutta la falsa sensibilità de' nostri poeti, de' nostri oratori, de' nostri uomini di Stato, ed ha per organo massimo La Réclame, ordigno, machina, velocità d'informazione, stereotipata bugia telegrafica, corruzione del gusto nazionale, scherno insistente, continuo e doloroso alla dignità severa ed alla onesta bellezza della nostra vita moderna.

Fors'anche Marinetti, che incalza la fama colla punta del fioretto alle reni, si valse del puff abruzzese per avvalorare il proprio; poco male, del resto, perché l'opera è coraggiosa e schietta, quand'anche affetti ritrosia e capzioso badaluccare di retorica, per cui le verità meglio appaiono, la critica meglio ferisce, l'omuncolo è, da più largo trespolo, messo in bando sulla piazza affollata e comiziale.

Il libro è dedicato Alle Ombre di Cagliostro e di Casanova, squisitissimi e sorridenti imbroglioni, poi ch'egli parla d'un ineffabile loro discendente e lo rimette al pari, amministratore fuori concorso di gloriola, per la stupefazione sciocca e spalancata de' borghesi, per la prurigine epilettica delli imbecilli, sospesi alle vicende rinnovate della sua vita e della sua poesia camaleontica e vagellante.

"I geni del Mezzogiornolvscrive Marinetti –, portano sempre, nella loro sacca da viaggio, doni imprevisti di finezza e di astuzia sfacciata, coi quali si giovano anche delle disavventure. D'Annunzio è andato persuadendosi, che, per conservare intatta e salva la riputazione d'artista, doveva indulgere, volta per volta, e concedersi il lusso di frasi, di gesti, di pose eccentriche ed inattese, da mandare in pasto alla curiosità vorace del grosso pubblico. Perciò ha l'abitudine di preparare accuratamente, davanti all'aspettazione di una sua qualunque tragedia, aneddoti imaginarii, indiscrezioni strane, che vengono raccolte e si aumentano nel viaggio per le gazzette, come la valanga, precipitando a valle, si fa enorme strisciando sul nevajo della china. In fondo, romba, come il tuono, ma si liquefa presto.

Il Pescarese ha accettato che parlassero di lui I Presepii d'Annunziani, mandatigli incontro, sino dal 1903, da Garibaldo Bucco con manifesto dileggio; ha ben veduto, che lo stesso Marinetti lo indicasse dal Verde-Azzurro, nella serie delle Nostre celebrità, col D'Annunzio intime, spunto di questo... D'Annunzio reste.

Può dunque ammettere necessario che alcuno lo faccia conoscere a Parigi, dove la sua insopportabile infatuazione sconcerta ed irrita le sue ammiratrici più devote; è logico che alcuno dica giù donde vengano li spunti capitali delle sue opere, a quanti si numerino i plagi evidenti, dove il Mauclair può trovare una scena della sua Couronne de clarté, dove Paul Claudel un'altra della Tête d'Or; dove Henri Bataille tutto il motivo della sua Lépreuse, senza ripetere il resto, che, a suo tempo, ma senza efficacia, il Thovez aveva già denunciato.

È doveroso, che, colle turibolate delli ignoranti e delli interessati, anche i parigini odano le mirabili virtù di codesto uomo, che, falsando la storia delle origini italiche, ha l'impudenza di offrire a ciascuna regione italiana il poema etnico di sua razza; e vedono come la rinomea dello scrittore, per quanto possa essere solida, declina in queste deplorabili fanciullaggini, colle quali, la sua avidità di commerciante in versi e di postulante in gloria si studia di rendersi universale. Questo processo amministrativo da barbaro, che non rispetta se non il risultato pratico, di Yankee che ha adottato, non l'azione diritta e diretta, ma il bluff e tenderebbe ad imitare lord Byron, con minor grazia, con minore nobiltà, con maggiore soperchieria, ed emulerebbe i peggiori difetti di Victor Hugo, vago di sé stesso e gonfio delli incensi della clientela che lo sfrutta, è quanto ammira, sarcasticamente, da vicino il Marinetti. Egli sa e dice come ne sia composto; – ci mostra i pezzettini del mosaico variamente colorati; sorprende il proprio eroe nel suo paese natale, mentre conciona la sua omelia alessandrina del confine-meeting sfarzoso uccellatore di voti; – l'imposta davanti ai fischi delle platee, contro il suo Brando piccolo e vile assassino; – lo fa ancheggiare sulla bigoncia, se recita La Canzone di Garibaldi, esca ai sovversivi perché lo accettino; – lo segue a rivendicare la morte di Greyhoundlvi, levriere ladro di galline, in pubblica pagliacciata giudiziaria; – lo mette in guardia nel suo primo duellolvii; – lo dettaglia alla prima rappresentazione di La Navelviii.

Marinetti gli gira in torno, lo loda, lo applaude, gli scocca contro un lazzo, lo fa sorridere; due, tre, lo annoia, lo irrita, lo confonde. Il giocattolo, che per interne molle cantava così bene, tace; la macchinetta è scomposta; tanto di filo di ferro, tanto di elastico, tanto di cartone, tanto di pelle, tanto di cera; poi la chiavetta che gira tre volte nella toppa e ricarica il meccanismo delle ruote dentate; quattro ruotine, che si prendono bene sul tamburo; il perno è di bronzo, perché su di lui il maggior sforzo. Ecco il fantoccio: ricomponetelo. E, mentre lo svita, lo apre, ne fa la nomenclatura ridicola e sottile, non cessa di ammirare la perfezione colla quale vennero preparati i dettagli, le parti, i minuti ingredienti: "Come bello! Ottimamente! A meraviglia! Bambino prediletto dalla Gloria e dal Genio!". – Un'altra volta lo snob resta imbarazzato, se debba credere sul serio alla lode, o più tosto, alla insinuazione che sguscia tra le linee e qualche volta trabocca dal periodo: Marinetti lo intrica, lo coglie in fallo, lo rende perplesso. "Puff" – pronunciate all'inglese '"Puff". Codesto è il sigillo profondo che si imprime sulla cera rossa e molle della nostra curiosa, insaziata, malevole ed indifferente società. Volete ingannarvi un'altra volta, e credere all'inganno e venerarlo e stringere nubi, fumo, fiato? "Puff!". Questo vi giovi. Ogni civiltà ha i letterati che si merita; i migliori sferzano la nostra in volto colle verghe che ha porto loro come fossero giunchi da passeggio, o la trascurano, severi racchiusi in loro stessi maravigliosamente incompresi dai contemporanei.

Ecco, perché dopo tutto, Les Dieux s'en vont, D'Annunzio reste è un libro onesto e coraggioso; s'aggiunge, oggi, alla Lettera di Francesco Pastonchilix, insorta l'anno scorso contro il vanto della Prefazione di Più che l'Amore; segue alle generose parole di Arcangelo Ghisleri: Istrionismo e pusillanimità; è necessario sgretolare, o col ridicolo, o coll'invettiva, codesta artefatta cristallizzazione di illustre superiorità mentita; mostrare l'artista e l'uomo nudo alla folla.

Questo è il vostro idoletto! Come amato? Quanto amato? Costui vi riassume e vi fa divertire, perché vi rappresenta. Oh, come piccolo, oh, come povero, oh, come nullo! E tutto qui: bluff e puff:

"Arma la posa e va a gabbare il mondo".





li    



lii          Errata-corrige: Il buon Hérelle non fu mai l'ingegnere navale, su cantier francese di Le Navire, ché non vi venne mai imposto. Più tosto, mentre si aspettava a Parigi un San Sebastiano, ci fecero sapere che Ricciotto Canudo, il giovane letterato italiano che vive da parecchi anni a Parigi collaborando nel Mercure de FranceLettres italiennes – proprio con pochissima attitudine e conoscenza delle su dette e facendosi l'apostolo della coltura mediterranea, ha tradotto in francese La Nave, ed in versi liberi, sotto il titolo di La Nef Latine. Ma fin'ora il Teatro dell'Arte, a cui si diceva fosse stata promessa, non aperse il suo posto ospitalmente ad accoglierla. Noi, intanto, andiamo già in solluchero, pensando alla magnificenza della traduzione dal solo titolo. Ma che Navire prosaico e mercantile, Nef, arcaica, poetica, imaginosa, col pericolo di confonderla con una navata di chiesa gotica: e per ciò subito soccorre l'aggettivo formoso, specialissimo, nazionalista latine: donde il risultato: La Nef Latine. Eh, che sapore, che timbro, che magnificenza d'annunziana, conservata anche in francese dal mediterraneo Ricciotto Canudo!



liii   



liv         Qui, i periodi occupano il posto logico e seguito, che l'impaginatore del giornale, nell'articolo, ha sconvolto. Ciò, per avvisare al primo capoverso della mia lettera, in Polemichetta, che vi allude.



lv          Sì; codesti genii esuberanti meridionali, che vivono dalla ribalta e dalli affiches, e diventano i celebri Voussavez della pretenziosa fannullaggine internazionale, finiscono a disgustare, non solo la gente seria, ma anche quella che pur prestando fede, per le loro faccende quotidiane ai giornali di loro confidenza, terminano per l'insistenza dimostrata da questi nel magnificare tali portenti, ad esserne annojata. "= Voussavez sta per fare un romanzo parigino sopra una grande maison de Modes-nouveautés-manteaux. Serve già, in sala, come mannequin. = Voussavez minaccia l'Europa di farsi trappista, per non poter più reggere alle molte interviste giornaliere che lo sformano. = Voussavez, cadendo dalle scale di una maison Tellier, si è fatto una lussazione al dito mignolo. Ha subito ricorso al cerotto x.y.z. Provare per credere! = Voussavez sta istruendo un cagnolo barbone, e, nel medesimo tempo, una piccola negra di Haiti; indi, con questi elementi si produrrà...". Ma sì, ma sì, abbiamo capito: Voussavez è la più fortunata delle celebrità moderne passate e future: ma abbiamo capito, capito, capito: e così lo vogliono i suoi intermediarii più sicuri e più accreditati: intermediari, procuratori, proxeneti, come volete, parassiti sempre. Può guadagnare Voussavez la somma infinita; ma deve mantenere, oltre ai suoi vizii, anche la caterva di coloro che glieli favoriscono; potrà vendere scuderie di cavalli, mute di cani, mobili di ville, ipotecar i suoi drami e romanzi avvenire, e, fors'anche, se l'avesse, sua moglie; ma per dio! non riuscirebbe mai a mettersi da parte quel tanto che gli basterebbe per vivere la vecchiaja. – Ma Voussavez giuoca anche coi debiti: "Si dice che Voussavez, avendo contratto una obbligazione di centomila lire presso un ebreo di... Verona, gli abbia dato in pegno il secreto per cui divenne calvo; essendo che la calvizie, nelli uomini di lettere moderni, costituisce senz'altro l'indice più perspicuo ed evidente, non solo della celebrità, ma anche della genialità. In fatti, discorrendo un Voussavez con l'intimo suo Carabin, oggi, professore di patologia e senatore...". – Ho capito, ho capito, ho capito... Ah! chi ci libererà di Voussavez, de' suoi mignoni, de' suoi procuratori, dei suoi parassiti; chi ci libererà della Stampa-Voussavez e Compagni, con annesso Café-chantant di Redazione?



lvi         Fu per l'amore di Greyhound, e per vendicarne l'uccisione incontrata nell'ultima sua avventura alla Brando per i pollai altrui, andatagli male, che il Poeta, presentatosi al magistrato, mise a mal partito il segreto della sua età, quando interrogato dal pretore dovette evadere con un paradosso che può essere anche accolto come una definizione di Lui stesso: "Per l'età, non la so. Alle donne ed agli artisti non la si domanda. Però confesso 39 anni, e faccio l'uomo di lettere". Padronissimo: ma, scusate, non tutti li artisti sono... quelle donne e non trovano per ciò nessun inconveniente a mostrare, senz'altro, la loro fede di nascita. Miserie: lasciamo. Non vorrò privarvi invece di una curiosa e curialesca prosa d'annunziana poco nota, la denunzia deposta nella cancelleria della pretura urbana di Firenze per aver legalmente soddisfazione della morte del suo levriere. Gustatela:

            "Illustrissimo signor Pretore,

            Domando alla S.V. che si proceda penalmente contro la persona che risulterà colpevole dell'uccisione di un cane levrieri greyhound, che nella mattina del 5 giugno fu trovato in un fossato del podere prossimo alla mia villa, con evidenti traccie della violenza che ne aveva causato la morte.

            E poiché io non mi sono astenuto dal far indagini, non esito a dichiarare che per convinzione mia e, credo, anche di coloro che mi hanno aiutato in queste ricerche, è da ritenersi autore del reato Francesco Volpi, e mi sento anche in dovere di esporre le circostanze di fatto sulle quali si fonda il mio convincimento.

            Il cane levriero che mi è stato ucciso era uscito dal recinto della villa Capponcina la sera del 4 giugno e non essendovi ritornato alle ore 9, quando la persona preposta a questo servizio (certo Angelo Trapani) riunì tutti i miei cani nel locale ad essi destinato, fu premurosamente ma inutilmente ricercato fino alla mezzanotte in tutti i poderi vicini, e principalmente in quello vicinissimo coltivato dal Volpi, poiché l'assenza in quell'ora di uno dei miei cani costituiva un fatto assolutamente nuovo. Si è saputo che verso le 8 di quella stessa sera il cane fu visto entrare in casa del Volpi da certo Cesare Conticini (lavorante presso i coloni Cortigiani, al podere del marchese Viviani), che non lo vide più uscire da quella casa. Né dopo quel momento, malgrado le attivissime ricerche che furono fatte, fu più veduto da alcuno, di guisa che mi pare necessario credere che a quell'ora e in quel luogo il cane sia stato ucciso. A questi dati di fatto deve aggiungersi che il dottore Ugo Vigiani, eseguendo per mio incarico l'autopsia il 5 giugno, come accertò che la morte era avvenuta per commozione cerebrale al seguito di un violentissimo trauma che aveva prodotto frattura comminuta del cranio, constatò anche che la morte risaliva alla sera precedente. Che brevissima è la distanza tra la casa del Volpi e il fossato nel quale il cadavere del cane era stato deposto in modo che i rovi e le altre piante lo nascondessero completamente a chi non avesse fatto, come furono fatte da me e dai miei incaricati, accuratissime ricerche. Che mentre si estraeva il cane dal fossato, una persona della famiglia Volpi si presentò per dire che il cane doveva essere annegato, e all'osservazione mia che il cane doveva essere stato ucciso da loro, si ritirò senza aggiungere parola. Che, poco tempo prima del 4 giugno, Francesco Volpi, parlando con molte persone, Rocco Pesce alla Villa Capponcina, Giovanni ed Augusto Fringuelli, Angelo Dei e Angelo Mapezzoli, ecc., espose il proposito di uccidere qualunque dei miei cani fosse entrato nel suo podere.

            A spiegare, non a giustificare questa frase del Volpi, posso soltanto dire che, circa tre mesi or sono, un altro dei miei cani inseguì e raggiunse senza però uccidere, tre galline di proprietà Volpi. Ma debbo soggiungere che il Volpi per questo fatto reclamò ed ebbe 15 lire d'indennizzo, e che nessun fatto successivo potrebbe aver dato al Volpi un legittimo motivo per l'atto brutale di cui lo ritengo colpevole, perché tutti i miei cani levrieri, sebbene siano dotati di una grande vivacità ed agilità, sono però di mitissima indole, e perciò affatto innocui, e perché il cane che è stato ucciso, essendo anche giovanissimo, meno di qualunque altro poteva rendersi temibile.

            Chiedo che, oltre alle persone più sopra nominate, siano interrogati il brigadiere dei reali carabinieri di Rovezzano e un carabiniere che fece con lui le prime constatazioni, perché desidero che i risultati delle mie indagini siano accuratamente controllati nell'interesse della giustizia.

            20 giugno 1906.

            Gabriele D'Annunzio

            Alle nove di mattina del 31 agosto 1906, s'aperse l'udienza. La causa D'Annunzio-Volpi venne chiesta alle undici e mezzo; diè sentenza il pretore avv.to Francesco Giordani; condannò il contadino Volpi a: dieci giorni di detenzione ed a cinquanta lire di multa, col beneficio della condanna condizionale, più i danni e le spese da liquidarsi in separata sede. Questo è quanto riserbano i codici al coraggioso che si sbarazza dai Corrado Brando a due ed a quattro gambe.



lvii        Bisogna leggere le esilarantissime pagine di D'Annunzio reste, su Le premier duel de D'Annunzio, le quali un redattore del Momento riassume per me e per risparmiarmi la noja di tradurre:

            "Una sera al Caffè Aragno, mentre furoreggiava La Nave all'Argentina, un crocchio di giornalisti andava ricordando aneddoti e curiosità d'annunziane. Ciascuno aveva il suo, ben inteso, inedito in cui si rivelavano, qual più qual meno, l'eccentricità ed il funambolismo dell'Abruzzese. Uno solo dei presenti taceva: qualcuno volle scuoterlo, chiedendogli a bruciapelo che ne pensasse della tragedia. – Non posso parlarerispose. – Mi sono... battuto col Poeta. – Si domandarono spiegazioni e il vecchio raccontò. Il fatto era avvenuto nel '85, nei pressi di Pescara. Segretario all'Intendenza di finanza di Chieti, egli pubblicava e dirigeva in quella città un foglio politico settimanale, l'Abruzzo. Ad una soirée in casa del sindaco di Castellammare Adriatico incontrò D'Annunzio; fra gli invitati erano anche il pittore Michetti, lo scultore Barbella, Scarfoglio, Tosti. Pare che il D'Annunzio arrischiasse nel suo crocchio qualche frase o qualche accenno offensivo pel giornalista. La domenica seguente, l'Abruzzo usciva con un articolo canzonatorio, che destò impressione. D'Annunzio mandò Michetti e Scarfoglio a sfidare il direttore del periodico, il quale nominò i propri rappresentanti e propose uno scontro alla pistola. Questa parve un'arme... troppo pericolosa. Seguirono complicate trattative: intanto nel pubblico, che si interessava vivissimamente alla vertenza, si formavano due campi. Pel direttore dell'Abruzzo, si erano schierati tutti i forestieri che subivano da tempo ogni sorta di angherie senza osare di ribellarsi: la questione personale diventava una questione di nord contro sud! Venne decisa infine la sciabola. La scena sul terreno riuscì strana. D'Annunzio – aveva vent'anni allora, ed al suo attivo non era che un solo volume di versi! – malgrado un colletto alto due palmi ed il davanti della camicia inamidato e lucido come una corazza, fu toccato due volte, assai leggermente, invero. Alla seconda, una venina della fronte, recisa, diede l'impressione di una grave ferita e lo Scarfoglio si pose a gridare come un ossesso che si era ucciso il suo amico ed a ingiuriare l'avversario di questo. Fortunatamente tutto finì in breve. D'Annunzio, in luogo di rientrare in Pescara, preferì recarsi a Chieti, in carrozza, col suo stato maggiore e percorrere tutte le vie della città. Egli aveva ragione, era alla sua prima prova. Poi si agguerrì, e lo provò proprio quando ebbe a misurarsi col suo stesso amico Scarfoglio: si fecero in quell'occasione ben trentacinque assalti ed al trentaseiesimo ai due avversari fu imposto di smettere!".



lviii        Borgese: "Prima a germogliare dalla sua mente stracca fu l'idea della Nave, laida sorella della Francesca da Rimini, perché anch'essa è la celebrazione d'una città del silenzio. Ma laida, perché la celebrazione, non esteticamente disinteressata, si pavoneggia di falsi furori patriottici". pag. 109 – "Per d'Annunzio il popolo è sinonimo di folla... Padrone il d'Annunzio di non vedere altro nel popolo; ma pessimo artista, quando s'illude di rappresentare con un branco di facchini contaminati di lussuria estetica la sostanza di una nazione destinata a dominare il mondo". – pag. 111 – Gargiulo: "La Nave voleva essere una tragedia di popolo; ma si osservi bene il popolo, che vocifera sempre, inerte, immobile, enumeratore talvolta di oggetti, usurpatore della didascalia. – L'avere egli innestato le più alte aspirazioni della Patria sopra un tronco di lussuria e di ferocia (inesistenti, d'altra parte, perché astratte), mostra fino a che punto la superumanità lo rendesse cieco: egli credette all'eroismo e alla nobiltà di Basiliola e di Marco. La cecità invincibile del poeta, in questa tragedia, è troppo sconcertante, opprimente e dolorosa". – pag. 336Basiliola è la superfemina; quest'altra tremenda bellezza è più nota della sua maggior sorella Pantea del Sogno di un Tramonto d'Autunno ambo disgustosamente detestabili. – Il critico dell'extrablatt: "Li effetti di questa tragedia acquatica non ci preoccupano,... ma un buon poeta dovrebbe insegnare: padroneggiar sé stesso prima di voler padroneggiare sui mari". In fatti, D'Annunzio per lui, – e per noi non è vero, ma pur troppo il suo gridar forte ed il suo lasciarsi gridar falso alla leggenda menzognera la parvenza della verità; avendoci bollato col suo suggello che noi non volemmo mai in vista di tutta Europa; – D'Annunzio è un comediante e noi, italiani, siamo il degno pubblico di tanto poeta. "Quello che al popolo italiano manca sopratutto è la stoffa del pensatore; la lingua italiana è troppo facile, scorrevole, troppo musicale, troppo obbligata al ritmo; sì che per suaderla ci manca il tempo di pensare". Gli si può rispondere che erra e citargli mille nomi già pronti sulla lingua a convincerlo di menzogna; ma egli non ha torto perché noi tutti abbiamo desiderato che li Europei ci vedessero in gloria attraverso il dannunzianesimo: e la vergogna è nostra che non abbiamo saputo sconfessare l'istrione che abusa del torpore, in cui ci ha sdrajato, dopo di averci oppressi della sua voluttà; oh, Figlia di Jorio, oh, Pantea, oh, Basiliola, oh Fedra! – Il critico del times: "La produzione di un nuovo lavoro di D'Annunzio è un avvenimento paragonabile alla venuta di un Circo equestre in una città di provincia. Vi è lo stesso strombettare e stamburellare che precede la prima rappresentazione. La stampa prepara l'ambiente pubblicando ghiotte indiscrezioni sull'argomento dell'opera, frammenti di scene, biografie dell'autore; il pubblico viene informato confidenzialmente dei veri scopi e del significato dell'intreccio; e gli viene presentato il maestro Pizzetti, ribattezzato sonoramente col nome di Ildebrando da Parma per volere di D'Annunzio. – Finalmente, quando il circo si apre, il pubblico, che si attendeva maraviglie, assiste a uno spettacolo ordinario, imbastito con elementi triti e ritriti. Vi è però una differenza essenziale fra un circo equestre e l'opera di D'Annunzio. Nel primo, si vede come le bestie possano agire a guisa di uomini; nella seconda, come esseri umani possano agire a guisa di bestie. Se vi è un significato nelle tragedie del D'Annunzio, è questo: dimostrare quanta larga parte abbia la bestialità nella condotta degli uomini. Questo almeno è il significato più ovvio; il resto è avvolto nella nebbia dei sogni, fatto di idee confuse, fuggevoli. – Certo D'Annunzio parte da una grandiosa concezione: ma sia perché la concezione è troppo grande, sia perché la sua fertile, indomabile immaginazione lo trascina, il fatto è che il risultato produce sempre l'impressione di un'opera mancata. – Né la recitazione, talvolta veramente magnifica, né la musica, né la superba messa in scena possono dissimulare la reale povertà di risorse. Il maestro vuole colpirci ovvero scandalizzarci con scene licenziose, far palpitare i nostri cuori con la profondità della sua passione: ma il terrore nelle sue mani diventa grottesco, le sue scene ardite causano solo stupore misto a lieve disgusto, i suoi sforzi per suscitarci pietà cadono disgraziatamente nel ridicolo. D'Annunzio mostra soltanto come un autore possa rimpolpare di forti parole violente l'azione delle deità della tragedia, senza però giungere mai all'altezza dei loro troni. – Ma non basta: i personaggi della Nave li conosciamo di già: Basiliola è un'altra figlia di Jorio: le stesse belve feroci compiono anche qui l'ufficio della folla: Marco, Sergio, la madre sono già apparse sul teatro d'annunziano. Come Wagner egli ha tentato questa volta di fondere gli effetti complessi della musica, della poesia e della danza. Il tentativo può dirsi riuscito solo in quanto ha salvato la tragedia dal pericolo di essere eccessivamente tediosa". – Di modo ch'io incominciai a chiamar Basiliola la bestiola, in aspettazione della maggior Minotaura pazza del suo Caval-di-sasso-Ippolito di Teseo. – Luigi Lucatelli, in un articolo del Secolo, 12 gennaio: "D'Annunzio finisce col cadere in una specie di incubo tormentoso, in una specie di raccapriccio dei suoi simili, come se l'umanità uscisse tutta da un quadro del Goya, da un racconto del De Sade, o da uno studio del Krafft-Ebing. Questa specie di psicopatia scenica si spiegava ancora nella Fiaccola sotto il moggio, ma non qui; e l'unico vantaggio di questa iperestesia drammatica è che, in essa, ci si perde, come in un ambiente di sogno in cui l'illogismo si ammette a priori, la continua impossibilità delle situazioni e la stranezza del linguaggio tutto ad imagini acquatiche e navali, come se vivere sulla laguna avesse già soppresso ogni visione della vicinissima terra". Anche il Morello fu poco contento della Nave; in compenso, gongolando, ci ricorda ampiamente il successo. "Il pubblico l'accolse con un entusiasmo che, per la sua intensità, si può ben dire, non abbia esempio nelle cronache del teatro italiano". Incominciò a priori a mettersi in orgasmo e ad ossessionarvi, prima che aprissero i battenti dell'Argentina, fuori del Caffè Faraglia dove si commensava, D'Annunzio e socií. Un cronista ci volle trasmettere quelle voci diverse e d'ogni genere, quando attraverso le vetrate, la folla guardava e commentava le vicende dell'episodio e l'entrata delle personalità invitate. "Dall'esterno. – La folla esterna, intanto, attraverso le vetrate guarda e commenta le vicende dell'episodio e l'entrata dei personaggi. – Guarda, c'è anche Trilussa! – Dice che sta traducendo la Nave in sonetti romaneschiC'è pure Pascarella – È vero che la Nave è rubata dalla Scoperta dell'America? – Quello che entra ora non è l'attore che faceva da Orso Faledro? – Ma che! È il ministro Rava... – Chi è quello che parla con Barzilai? – È un commendatore suo cliente. – Guarda il rettore Tonelli che si alla pazza gioia! L'altra sera lo hanno visto nel camerino di Basiliola; da che lo hanno portato consigliere, si è messo su una brutta china! Finirà per scrivere una commedia anche lui! – Entra Rastignac... Ho sentito dire che farà tradurre la Flotta in versi martelliani da quel principe romano che fa le poesie dopo aver perduto al baccarat. Occhio alle 'ciste!' – Con chi parla Giulio Orsini? – Col Papa. – Che c'entra il papa? – Ma sì è una tragedia cattolica: e poi è il marito della Paoli. – Io vorebbe conosce l'autore der Quo vadise... sta? – Deve esse quello grasso con quelle farde... – E levete! Quello è er direttore der Messaggero – Qual è Gabriele? – Quello , biondo... – Biondo? Non vedo nessun biondo. – Ma sì eccolo con San Martino, quello coi garofani all'occhiello – Ah, è vero, non gli vedevo la barba! – E quello chi è? – Teneroni. – Chi è Teneroni? – Uno zelatore della fede... – Ahè! Stateve fermo co' le mano! – Quello dovrebbe essere un critico – Ma no è Faraglia... – Ma tutta sta gente so' poeti? – Pare! – Ammazzeli quanti ce ne stanno!... – Mentre i commenti continuano, i commensali si scelgono il loro posto. Cominciano a circolare le prime tazze di consomè. Il menu è scritto in francese, ma ha un carattere spiccatamente navale e trionfale. C'è del pesce bollito in 'salsa veneziana', dei filetti di bue 'triomphe', un pasticcio di pollo intitolato 'La Nave', del 'Succès', e altre cibarie parimenti commemorative. – Sui cartoncini, sotto una prora sormontata da una Vittoria e posta fra due coppe bizantine, è stampato il fatidico verso: Arma la prora, ecc.". – Da ciò si può supporre il trionfo della serata: racconta Gabriellino: "Sul palcoscenico, si accalcava una vera folla, fra attori, comparse, macchinisti, servi di scena, portieri, maschere: più di duecento persone, che acclamavano ed urlavano freneticamente, insieme con gli spettatori. Il poeta, solo nel mezzo, aspettava che il delirio si placasse. Fu quella la prima volta che lo vidi impallidire di commozione e perdere per un poco la sua abituale serenità. – Un gruppo di poeti condotti da un giovine chiomato sacerdote delle Muse irruppe su le scene, gridando: – Al Campidoglio! Al Campidoglio! – Volevano in quella notte stessa condurre l'autore della Nave sul Colle capitolino ed incoronarlo della fronda penéia. E il palcoscenico era aperto a tutti: gli spettatori vi si precipitavano a frotte: non c'era più disciplina, non divieto per nessuno. I Clipeati, un manipolo di comparse che all'ultimo atto formavano la testudine quadratatrasteverini alti e robusti come atleticircondarono Gabriele d'Annunzio per levarlo in trionfo sui loro scudi. Non potei, se non dopo molta fatica di braccia, liberare il poeta dai formidabili assalitori. E intanto, a rendere quel diavolerio più infernale, le fiaccole dell'ultimo atto rispandevano bagliori sinistri e fumi d'incendio sul palcoscenico. – Fu, insomma, una notte prodigiosa. L'esaltazione pareva essersi diffusa dal teatro nell'intera città; e per le vie, quella notte, si udivano di tratto in tratto delle voci gridare parole strane, che mettevano nel più grave imbarazzo le guardie di pubblica sicurezza: 'Arremba, arremba!...' – 'Il pallio a Marco Gratico!...' – 'Arma la prora e salpa verso il mondo!...'. Erano grida sovversive? Ma che frasi bislacche, ad ogni modo, per manifestare le proprie idee!...".

            Indi fu ne' successivi una caccia affannosa e prodigiosamente beota all'autografo, e ripete Gabriellino: "Era un andare e venire ininterrotto di amici, di conoscenti e di sconosciuti, tutti smaniosi di avere su la loro copia della Nave una dedica di mano del poeta. E tutti mi mostravano il volume già acquistato, come per dirmi: 'Capirà, ho speso quattro lire... Due righe di dedica, in coscienza, non mi si possono rifiutare...'. – Messo, così, con le spalle al muro, prendevo i volumi e li portavo all'albergo, dove frattanto altri volumi erano arrivati, e biglietti di gente che li mandava con la solita preghiera d'una dedica autografa. Nei pochi minuti di tregua Gabriele d'Annunzio soddisfaceva di suo pugno alle numerose richieste; ma, non bastandogli il tempo, lasciava a me, che imito assai bene la sua scrittura (e mi contento d'imitare soltanto quella), l'onorifico compito di fabbricare degli autografi dannunziani". – Oh Gabriellino degno d'ogni laude per esserti lasciato sfuggire con tanta disinvoltura e noncuranza le belle verità, donde sgusciano l'impertinenza, l'amoralismo, la mancanza assoluta di quanto può chiamarsi ribrezzo morale per il sudiciume! Oh, magnifici dominatori, che si passano la penna l'uno all'altro indifferentemente, per la firma che vale e nella speranza della quale i merli s'impaniano nelle botteghe di librai a spendervi le quattro lire, oh superuomini che non pensano e su cui grava il per cento all'autore; non credono di fare un falso! Oh greggie unto, puzzolente, pecore, per quanto vestite di panno fine e di seta, che davanti alla firma preziosa, cui sfoggiò la sua altissima calligrafia in prima pagina della Nave può chiedersi, oggi, con grinta e sussiego hamletiano: "È o non è... autentica?". Ma sopra tutto che bella impudenza epica... da Basiliola: vantarsene è privilegio di famiglia. Sì che il 27 Aprile, quando venne consegnato con magnifica cerimonia, a Venezia, il manoscritto della Nave, qualcuno avrebbe potuto chiedersi, se, per avventura, non fosse apocrifo, qualora fosse già stato istruito dalla ingenua soperchieria che a cansar fatica al padre si era assunto il figlio in quelle serate romane: "Era il mio lavoro serale. Mi sedevo a tavolino, aprivo i pacchi di libri accatastati dinanzi a me, e su ciascuna copia scrivevo il primo verso della Nave che mi veniva a mente. Ricordo che su un volume – avendo ormai esaurite tutte le frasi più o meno dedicatorie della tragedia e non sapendo più che cosa citarescrissi con la più bella calligrafia paterna: 'Discingiti! discingiti!': le parole della folla a Basiliola durante la danza; e firmai: Gabriele D'Annunzio". To', gioia, un bacio! Te lo sei guadagnato; è il sangue che parla in te; Gabriellino, sei Gabriele! – In fine, di tutta La Nave non rimase che un bicchierino di bitter, quello che bevono li studenti italiani, quando incapaci a sostenere li esami doverosi, a coonestare la propria ignoranza, si ricordano dell'irredentismo e vanno, all'influsso di droghe pur tedeschebitter-amaro, a vociar sotto i Consolati muniti di guardie di città e di bersaglieretti, logica difesa dell'aquila di Asburgo. Già; l'Amaro Adriatico, una frase ad effetto che li austriaci presero troppo sul serio, col relativo rialzo delle azioni patriottarde del Poeta; il quale ha sempre bisogno di essere scontato, con fiducia, sopra la pari da che questo vale veramente come un assegnato.



lix         È veramente da commendarsi questa lettera: A Gabriele D'Annunzio, pubblicata sul Corriere della Sera, 31 Gennaio 1907, in risposta alla prefazione di Più che l'amore, per cui Francesco Pastonchi venne in dispetto di quei signori giornalisti. Da quella, in poi, ha dovuto cessare le sue recensioni su quel foglio, perché i padroni del padrone della magna gazzetta pedissequa alle morbosità della moda de' cotonieri dei clericali e delli ebrei clericaleggianti, se ne adontarono sì da far perdere la sede in terza pagina e relative propine al Pastonchi. Ma a quest'ultimo, per parte mia, mezza lode e mezzo biasimo: quand'egli fa il poeta e legge con prestanza baritonale i proprii versi alle platee è un perfetto d'annunziano; per ciò, in un pagina del Verso Libero, mi uscì scritto: "Pastonchi, un qualche cosa come uno stalliere frugoniano"; ciò di cui non mi trovo pentito. – Quanto all'articolo di Arcangelo Ghisleri lo leggerete, qui, per intiero al posto che merita.



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