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Nessuno di noi avrà, spero, dimenticato che il più assomigliante ritratto di D'Annunzio, sia al fisico che al morale, è quello di cui ci diede notizia il maestro De Titta, e che venne tracciato linearmente, col nero del fusain, sulla muraglia bianca del suo studio dalla celebre ed illustre mano del píttor Michetti, oggi, senatore. Quel disegno sommario, ma inarrivabile, descrive il contorno della figura di un girino – capocchia voluminosa e rotonda, appendici quasi filiformi – in cui è doveroso leggere, senz'altro, la fisionomia del nostro grande poeta.
Se non che, un ex maestro di scuola, Vico Viganò, che fu lodato da coloro che non se ne intendono come un acquafortista di cartello, dopo d'aver delineato l'effigie di Carducci, di Pascoli, delli amici – come Zi Meo –, e delli animali pascoliani, ha creduto obbligo suo bulinar anche quello del Pescarese. E, nell'agosto del 1912, il torchietto estetico del Viganò impresse, su buona carta spessa e bibula, la figura d'annunziana vista a traverso il suo temperamento veramente da ex maestro di scuola.
Oggi, alcuni pretendono che questa incisione dia il più vero e maggior Gabriele in effigie, come sostengono che il Viganò sia un grandissimo artista, pel fatto che volle disegnare anche le bestie esopiane ricorse in Myricae ed in Canti di Castelvecchio. Tra questi si spinge in su Giovanni Bertacchi, professore e poeta, o poeta-professore, retico, per di più, assai umile, ma non per questo schivo di sedersi – se gliela offriranno – sulla seggiola della catedra bolognese, ultima ambizione della nostra retorica. Egli, argomentando dal già fatto dal suo più umile collega Vico Viganò, gli vorrebbe anche affidare la commissione – ed eccita il governo perché gliela affidi – di illustrare le liriche di Leopardi, tanto, dice il Bertacchi, è Leopardi affine all'ottimo Giovannino. E soggiunge:
La significazione pittorica della poesia leopardiana consiste precisamente in quel muovere costante del pensiero poetico dagli immediati spettacoli naturali; e l'opera di un valoroso paesista che si volgesse a interpretarla, gioverebbe a una più esatta estimazione di quella, perché metterebbe in giusto rilievo la grandezza e la importanza che gli elementi della natura tengono pur sempre in essa poesia.
Già, uno tra i nostri migliori mi ha confidato d'aver fatto proprio questo bel sogno d'arte, di cui anni sono gli venivo parlando. Egli vi si è addestrato illustrando, col suo sapiente bulino, parecchie pagine del Pascoli, di cui colse con tocco felice alcuni fra i più vivaci ed eloquenti aspetti, dandoci i deliziosi spunti pittorici della granata e della fiorita, le pensosità raccolta del dopo? di Italy, dell'orfano di casa mia, gli affaccendati quadretti dei due vicini, il mistero doloroso della cavalla storna. Parlo di Vico Viganò, il quale, quando abbia, con religione d'amore, penetrato gli spiriti dei canti leopardiani, abbia respirata l'aria di Recanati, e, a così dire, assorbita quella natura ispiratrice, avrà modo di elevare il tono dell'arte sua, di allargarne gli orizzonti all'infinito, di pervaderla tutta d'una vasta e intima significazione, che sia come l'anima dell'immoto disegno, che sia come un muto continuar del canto e ad esso ci riconduca in un trapasso spontaneo, in un ricambio fedele, in una armonica rispondenza di sensazioni e di affetti.
Ecco: con tutto il rispetto dovuto alla toga ed alla matita rispettive, non so trattenermi dal suscitarmi davanti una... visione: vedo, cioè, un maniscalco ed un suo manuale, sbracciati e sudici di fuliggine, d'unto e puzzanti di corno bruciato, con grembiuli di cuoio e manaccie callose e mal destre, chini ed intenti a maneggiare un roseo e bellissimo bambino, che si è rotto un braccino, ruzzando. E tutti e due a tirare, a piegare, a fasciare, a comprimere su quelle povere carni aristocratiche e ferite; e ad ogni gesto strida ed urla del paziente alla tortura, e ad ogni tocco di quelle mani un'orma nera e ignobile sui lini delle fascie, sull'epidermide di quel male avventurato.