Gian Pietro Lucini
Scritti critici

POESIA BACATA, MATURA ED ACERBA

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POESIA BACATA, MATURA ED ACERBA

Dal grand'albero perenne di letteratura, pendono le poma. Le piú primaticce, le piú orgogliose, inturgiditesi in una stagione di indifferenza poetica e di piú pratico lavoro, ora, dimostrano il livido delle tare, il bistro delle ammaccature, e molte, fra queste, caddero nell'erba, perché spesse volte negli orti di delizia, non bene difesi dalle colline, spira vento impetuoso ad abbattere i frutti. Raccogliere in questa stagione tale messe è mettere in corba della fradicità: è il caso di Chiarini. — Meglio, altre, nutrite dai proficui fomenti del suolo, nell'aria benigna e costante, riscaldate dal sole propizio, rutilano di ori e di scarlatti. Molti vi tendono le mani per coglierle, sia moda di frutta ai desserts copiosi dei pranzi famigliari, sia intimo compiacimento di buon gustajo. Comunque, fanno bella mostra, nelle ceste imbottite di paglia gialla e di felci montane, nella bottega del miglior erbivendolo della città, dove la gente per bene ha cura di comperare le ghiottonerie della tavola: ed è il caso di Pastonchi e di Tumiati. — Ma, le ultime e le poche, venute fuori quando l'umore dell'albero era aspirato golosamente dalla fresca avidità delle migliori, impazienti di ben apparire, sono rimaste acerbe, verdi di buccia, o soffuse di un timido roseo, come le guancie verginali di una romantica vecchio stile, per quanto promettenti e robuste e di una vitalità non del tutto a loro concessa. Sono delle aspre ed acidule promesse sincere, non contengono preoccupazione di parata o nascosta fattura di ortolano che ad arte le rigonfia; si lasciano a fatica dispiccare dalla frasca che le rattiene. Al gusto danno se stesse senza restrizione, con mille e vaghi motivi di dolcezza e di profumi curiosi: spesso irritano le gengive od allegano ai denti. Sono freschezza e speranza: e, perché tutto il mondo oggidí aspira all'una cosa e si nutre dell'altra e per questa continua faticosamente a camminare, illudendosi il piú esperto tra i ghiottoni si serve di preferenza della acerbità.

Vi dice mangiando: «Io sono certo di non essere ingannato: mangio un fiore che già si fa polpa di frutto; lo mangio nel suo divenire, quando non ancora si è fatto l'abitudine e la posa di essere un frutto ed è tutto intento a creare se stesso». Or dunque, i raffinati, che preferiscono lo schizzo od il segno geniale di matita al quadro, sono i piú fortunati nella loro scelta e nel loro appetito e succhiano dalla immaturanza cinetica, anima e vita profonda ed ardente; ed è il caso di Umberto Saffiotti, uno sconosciuto.

Ma sediamoci al banchetto del bianco mangiare, vegetariani, tagliamo a metà la prima mela ed osserviamoci dentro, tra i semi bruni un verme. O, meglio, lasciando da parte la imagine e la similitudine, sfogliamo le Poesie di Giuseppe Chiarini una nuova edizione completa, che ha stampato lo Zanichelli.

Chiarini le manda a Giosuè Carducci con una lettera iniziale: il verme della mela. Il vecchio turba-feste di casa Chiarini vi si presenta, D'Annunzio. È contro di lui che si sferrano le freccie piú avvelenate e piú acute; e lui che viene accusato dopo la solita burla d'immoralità di non aver rispettato Garibaldi collo splendore della sua parola avanti la profusa sopra a cose indegne; è in questa lettera che il poeta impiegato al ministero della P. I. detta la sua professione di fede poetica e definisce poesia: un effetto di metro, di accenti e di rime. Carducci, forse, avrà sorriso.

E però seguono le strofe. Voi vi fermate alla Germania, all'Atta Troll, ad altre liriche: ecco un vero poeta, pensate; ottimamente, se non che sapete che sono compite traduzioni dal tedesco di Heine ed il vostro entusiasmo si congela. O pure, alle Lagrimae piangete coll'autore sopra di un suo lutto doloroso. La partecipazione vostra al pianto sgorga simpatica e convinta, vibrate, col padre angosciato, coll'animo straziata; comprendete, risentite.

La frase è fatta nostra; la commozione dalla pagina stampata ed a pena accennata è discesa in voi, lirica. Ma, dopo questo momento di intensa comunione, di grand'arte profusa, che v'è? Una floscia versione dell'Alastor dello Shelley, una ginnasiale contraffazione italiana di Orazio, la sciatteria pedestre e volgare di Storie, fatti di cronaca colascionati sul fare del Coppée, ora decaduto ed ex parnassiano, in communella coi soldati e i gesuiti della «Libre parole», funesta di menzogne.

Le poesie del Chiarini mi appajono troppo presto maturate e troppo tardi raccolte. Il lucido critico ed estimatore di un tempo seggetta tra i protocolli ministeriali: sopra al vivo spirito oggettivo si innestarono la pedanteria del burocrata ed il livore di un monaco della Congregazione dell'Indice; l'uomo erompe qualche volta e coll'uomo il poeta, ma per poco e per cosí poco.

Il Tumiati invece è per l'occasione e l'afferra. Nei suoi Poemi lirici (Zanichelli) è un dotto di poesia, è un delicato e fluido compositore di strofe. Non esce dallo stampo classico; le ottave del Giardino delle Esperidi:

I bianchi gigli come aperte mani
pendono esausti dall'aereo fuoco;
ardono bianchi seni sovraumani,
nelli odorosi calici di croco;

i sonetti e le terzine di Sibilla delfica hanno un ampio e luminoso aspetto decorativo di affreschi botticelliani ringiovaniti dalla lucida pennellata di Puvis-de-Chavannes. Sfoggio di imagini, percezioni visive delicate ed intense, ma non potenza di pensiero evocatore. L'Apparizione di Santa Cecilia fra gli Abeti di un arcaico sapore trecentesco, mi ricorda le Devozioni per il Venerdí Santo e le Rappresentazioni sacre dei misteri dei nostri primi drami religiosi.

Il Tumiati si adatta ad esumare bene; non ha stanchezza nell'eroica Morte di Bajardo e nel Lied brumoso e nordico, La nave del Silenzio; ed è novellatore passionato in Parisina. La modernità, lo spirito caldo e vivente del nostro tempo, non lo complette e non lo abbraccia; il Melologo, Emigranti, ci lascia freddi, perché la sciagura italiana di questi spatriati per fame e ingiuria di uomini ci viene esposta con troppa retorica. Forse la forma verbale, ch'egli vuol pura e troppo pura, troppo rigida alle regole ed alle vecchie regole, gli nuoce e lo raffrena.

La Badia di Pomposa, Emigranti e Parisina si sposarono alle note donde i melologhi, che viaggiarono pei teatri d'Italia, recitazione e commento musicale, coordinazione di idee e di parole sopra a canti d'orchestra, ripetizione piú complessa della antica poesia bardica, dove la voce umana veniva sostenuta dalla lira, dalla cetra e qualche volta da due o piú strumenti. Giova questo alla poesia? La poesia di per se stessa deve cantare, solamente parlata. Si aggiunge, coll'incanto dei suoni, una nuova attrattiva, una nuova virtú? Poesia: pensiero, musica, entusiasmo, vita! Aggiungervi delle ancelle caudatarie è impiccolirla; chi le cerca, poeta, si riconosce mancante e debole. Od è per rinnovare in qualche cosa, per differenziarsi, per dare di se stesso réclame con una estetica bizzarria? Il melologo mi appare una limitazione e del verso e del drama musicale; qualche volta un arcaismo.

Io desidero giovani, nuovi pensieri per forma giovane, rinnovata, personale; individualità profonda e completa, non lenocinii accattati, per una differenziazione di posa; voglio un parlare, un dire grandi cose con franchezza, non una omelia; l'aiuto della recitazione è un riconoscimento di insufficenza.

Perciò, prima recitando altrui e dopo se stesso, il Pastonchi ha trovato fortuna e voi l'avrete udito o certamente l'udrete di questi giorni al nostro «Filologico» e ve ne compiacerete. A lui va dato lode di aver ripolita e riprodotta la canzone: Canzoniere e la Giostra d'Amore, la sua prima raccolta: canzoniere, le Italiche, recenti date fuori dallo Streglio torinese.

Egli sa, pur religioso delle tradizioni, che la canzone è il genere piú libero e piú magniloquente della prosodia italiana e l'accetta nella varietà leopardiana, senza breve respiro e senza grave affanno.

Inspirato, una consacra a Galileo Ferraris il dotto, che dalle cascate ci trasse l'energia elettrica, donde la futura ricchezza di nostra patria; ed i motivi delle acque fragorose di torrenti dalle balze e schiumose nelle dighe, erompono:

Suscitammo arsa febre di lucenti
macchine con funerei divieti,
levammo torri, e, sopra eccelsi fili,
a lontane città, portammo schiavi
ogni tua forza.

Rispettosa l'altra a Giuseppe Verdi, s'invoca ultimo nostro genio, forse antagonista di quella d'annunziana; al Verdi di cui le armonie

Suscitarono l'anime fraterne
in un sogno d'impero,
e furono come armi
invisibili contro lo straniero.

Poi, ad intermezzo, ritrova, primaverilmente, la fresca vena quattrocentesca; emula Poliziano ed il Magnifico cantando il Maggio.

Serve, dopo il maggio di sangue, il maggio d'amore? «Dei poeti giovani», dice un giovane critico, «il Pastonchi è l'unico di cui si possa ormai, con sicurezza affermare che non debba fallire un glorioso porto»; io vi metto le mie e molte riserve, perché egli non si agita a conquistare veste modernissima per moderna e piú libera vita di pensiero.

Tutto moderno, invece, rude, semplice ed involuto anche, ma deciso fervente è Umberto Saffiotti. Pe 'l Campanile di Venezia è un poemetto tragico dove è la lotta morale tra la contemporaneità ed il trapassato; per cui son il Vecchio e il Giovane che si disputano a pro del loro ideale, del loro bisogno, il primo distrutto, il secondo insorgente.

Il Saffiotti non cura se i suoi versi siano piú o meno contemplati dai nostri manuali didascalici, quanti accenti abbiano e come siano lunghi: desidera che il suo verso sia logico al suo pensiero, non lo amputi, non gli venga floscio ed esuberante, ma lo inguanti con flessibile giustezza anatomica. Visivo e colorista sfoggia gli ori delle aurore veneziane; acustico ne accoglie i suoni:

Era un'arpa leggiera esile e limpida
assunta alle orchestre stellari,
con le corde librate nell'aria,
con le onde sognanti un armonico
volo, per li ori dell'alba
e li ori del tramonto.

Egli si tira da parte e fa il suo cammino solitario cercando di essere se stesso; gli nuociono alcune esuberanze, le quali testificano della sua forza; è sincero e non ha ancora saputo il mestiere di farsi considerare e di ingannare. Amo il Saffiotti come una promessa e come un carattere poetico; gli consiglio di non raffrontarsi mai con gli altri e di non irritarsi se può venir posposto, come certamente sarà. Stia sicuro ed integro. Non cosí puro moriva l'Angiolo di San Marco:

morí d'un tratto, come si muore su' campi
degli Eroi;
e fu un Eroe perch'egli fu l'araldo
della nostra bellezza?

Avere la coscienza di aver compiuto il proprio ufficio e non presumere che le lodi dei contemporanei valgano alla nostra coscienza una nuova o maggiore virtú; cosí, io l'ho compreso dal suo primo lavoro A Roma; cosí, io credo al suo culto

per la Bellezza che si espande come folgore

in ogni amore,

che palpita ne la mia superba Italia!

E per questo entusiasmo prosegua.

Ma, infine, volgendomi indietro, riassumo. Ciascuno di costoro (il Saffiotti se ne schiva e fa meglio) si propone indirettamente a paragone e fa la vedetta, a richiamo, in sulla soglia del libro. O sia che vada blatterando delle sue proprietà celebrate nelle lettere apologetiche iniziali; o sia che intoni il melologo: o sia che si faccia attore di se stesso; tutti si mettono avanti sulla ribalta, per riceverne in volto la luce piena.

Réclame, per necessità di concorrenza: a chi meglio grida trae il pubblico, che ama lo sfarzo del giuocoliere e del bardassa e che desidera, come una femminetta, d'essere ingannato.

Il fortunato sorride; gli altri si arrovellano. Ottima cosa rimanere in pace ed amici. In questi giorni, nei quali trionfa l'idea applicata del corporativismo, delle società di produzioni, delle leghe di resistenza, unitevi, poeti tutti, con qualche critico di fiducia per amministratore; non combattetevi; conciliatevi, sopra le basi di un mutuo soccorso; stabilite tariffe ed ore di lavoro.

Costituite cosí una Cooperativa per la fabbrica di poemi uso antico e moderno, volendo anche, per le riparazioni opportune in dolce stil nuovo floreale. L'azienda, io stimo, dovrà fruttarvi non poco, domani, e tanto piú, in quanto troverete delle macchine e degli stampi adatti a sollecita produzione ed a minor fatica.

[In «L'Italia del Popolo», a. XII, n. 889, 18-19 giugno 1903.]


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