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Per qualche opportunità morale, sulle cinquantasette mila lettere, che formano la corrispondenza di Tommaseo cogli amici e colle conoscenze, regalata e deposta alla biblioteca nazionale di Firenze dalla sua figlia monaca, grava un veto cui il Principe Corsini può a suo piacere levare, ma con molta parsimonia, a favore dello studioso il quale voglia interessarsene. Di fatto, se le lettere conservate negli scaffali, sotto il pubblico suggello, assomigliano, in parte, alle altre che Ettore Verga pubblicò testé coi tipi del Cogliati a Milano, di molto, la fama dell'illustre filologo cattolico-repubblicano può scapitare, ed è meglio per lui e pei suoi ammiratori che rimangano sconosciute.
Questa è la sincera impressione che provo leggendo Il primo esilio di Niccolò Tommaseo 1834-1839 Lettere a Cesare Cantú, come mi vengono pórte dal suo diligente illustratore, troppo male avvisato s'egli ha creduto di rendere onore al ministro della pubblica istruzione del governo provvisorio veneto del 1848. E torna a proposito, oggi, il preoccuparsene.
Lungi da noi la pretesa di disgregare una fama assodata e celebrata, di rimpicciolire una figura storica, che rappresenta alcuni atti di rinuncia coraggiosa e di lotta palese, in quegli anni in cui il fare ed il non fare procacciavano galera ed esilio ai migliori tra i nostri. Cosí, riconosceremo, che, per un suo articolo di convinta e pretta italianità, l'«Antologia» di Firenze, nel 1834 veniva soppressa dal Governo di quel Granduca.
E che, profugo in Francia, il Tommaseo attese ai suoi studii letterari di non dubbio valore, e, che, tornato a Venezia, con Manin venne arrestato per una petizione a Vienna la quale chiedeva una piú equa interpretazione della legge sulla stampa. Cosí liberato insieme dal popolo, il 17 marzo 1848, fu nel Governo provvisorio repubblicano delle Lagune, dove insospettitosi a ragione di Carlo Alberto, combatté la fusione col Piemonte dimettendosi, quella essendo stata accettata, riassumendo del resto l'ufficio di ambasciatore a Parigi per chieder soccorsi, proclamata senz'altro la repubblica, dopo la fuga vergognosa da Milano del savoino e l'evidente defezione preordinata.
Capitolata Venezia, passò a Corfú; vi prese moglie ed acciecò, rassegnato allo strazio; venne dal '54 al '59 a Torino per ragioni di studio e vi rifiutò una cattedra universitaria, perché concessagli da un potere regio; vi curò il Dizionario della Lingua Italiana, il Dizionario estetico, il Nuovo Dizionario dei sinonimi, la raccolta del folk-lore corso illirico e greco, per morire nel 1874, a Firenze, immutabile repubblicano, ma purtroppo cattolico intransigente.
Tutto ciò gli torna ad onore e nessuno lo può negare; ma, se questo è l'aspetto nobile ed esterno, comunemente monumentabile del personaggio, che luccica e lustra ai soli della storia cioè quanto siamo chiamati ad ammirare nel Plutarco novissimo delle nostre glorie, è pure insieme quanto è diminuito dal sapere le sue lettere; le quali si prestano ad uno studio psicologico, retrospettivo di non lieve utilità per il carattere e l'essenza morale del fu grande uomo. Facciamole adunque passare insieme.
Vengono le missive da Francia a Cesare Cantú. Ora, quando le chiacchiere che vanno a torno e che possono qualche volta dir troppo, si debbano credere (il Melibeo ve lo chiede in dubbio, sull'accettarle) l'amico poligrafo, che le riceveva, era tal uomo da assaporarne le indiscrezioni, le ingiurie, le malignità e la mancanza di cuore e di gratitudine. Perché, si andava sussurrando sotto voce che, in allora, il Cantú uscito, dopo l'arresto di Brivio ed i mesi di carcere in Milano, si valeva verso i patrioti del suo breve martirio non senza però sperare dal governo austriaco oblío se non impieghi: intanto praticava la chiesa.
Cosí, La Descrizione del Gran Serraglio mostruoso in Milano, una satira caustica e fine non balbettava nel mostrarcelo:
Qui il beffeggiato saccentel di
Brivio
Che tenta ogn'arte per uscir dal Trivio;
E al Dio di Bruto apostatando in muda,
Col Bossuetto, facchinando or suda;
Mentre Ignazio Cantú suo fratel degno
Raglia verso di lui: «Venga il tuo regno».
Il dalmata non può soffrire d'Azeglio. Con astio, ch'io non comprendo, gli imputa il secondo matrimonio (mortagli la prima moglie, Giulia, figlia di Manzoni), come una mancanza di affettività ed una prova d'egoismo. — Non può digerirsi in pace la corona marchionale dell'autore del Nicolò de' Lapi, e a questa sua nobiltà dà il merito del successo parigino di cui, in quel tempo, era gratificato insinuando:
«Parigi 1836. L'Azeglio so che è in viaggio. Qui, verrà accolto bene come bell'uomo e marchese e pittore (non crediate che il titolo di marchese non valga a Parigi) per la qualità dell'animo non ci si bada piú che tanto, e una camicia pulita copre ogni cosa».
Né s'acqueta per ciò; e, legandolo insieme a Balzac che il d'Azeglio, durante il soggiorno di quello a Milano aveva presentato al Manzoni, con acrimonia si duole:
«Parigi 7 aprile 1839. Che il Balzac sia accarezzato costà me ne duole piú che di una nuova invasione di Barbari. Son queste, mio caro, le nostre piaghe, e di queste vivono i bachi che voi sapete. L'Azeglio non lo doveva presentare al Manzoni; ma l'Azeglio è un po' su quel gusto. Ed a me disse spropositi degni di nobile piemontese».
Tutto questo è eccessivo; né a Massimo d'Azeglio vanno le mie tenerezze molte o poche ma tanto egli valeva quanto il lessicografo sia pur repubblicano; e la sua cavalleria di moschettiere generoso e fedelissimo e qualche sua pagina descrittiva, ed in fine il grande suo disinteresse di conservatore savoino ce lo possono rendere caro, meglio dell'altro, che, chiuso e livido, manda frecciate di nascosto e colla reticenza compromette e fa dubitare.
Quindi turba il sonno di morte ed il riposo del Foscolo, il piú grande ed il piú completo dei poeti moderni; e bollandolo di un'ingiusta sentenza velenosa lo caccia tra i pessimi del suo tempo:
«Parigi, 7 ottobre 1835. Tibaldo pensa alla vita del Foscolo: e lo ammira troppo: onde disseppellirà il suo cadavere come se fosse vivo: e n'uscirà odore non buono».
«Parigi, 28 novembre 1836. Quanto al Foscolo, raccomandai al Tibaldo mescesse contraveleni in prefazioni ed in note. Ma lo efficacissimo de' contraveleni è l'esempio di quella vita arida per calore abusato e di quella fredda e vilissima fine».
«Parigi, 11 maggio 1839. Foscolo aveva tre peccati addosso inesplicabili: era retore, era bugiardo, era vile. Cosí non pensava io giovanetto: ma ora che ho sentito qualche cosa anch'io e provato e parlato con chi lo conobbe, ho ragione di dire cosí».
Povere e misere ragioni di superstizioso cattolico, educato al becchime di uno zio frate a Sebenico, per quale congiuntura non so, ma classica al certo, rifattosi repubblicano; povere e tristi ragioni di un millantatore di sua coscienza, che s'illudeva di conoscere, che gli altri hanno conosciuto meglio di lui e ne sintetizzano in poche parole come vedremo appresso, degno epitaffio alla nessuna sua pietà sociale.
E non si arresta: che le logomachie dal Tommaseo combattute col Leopardi, gli furono esca ed accensione ad una sua grossolana ingiuria, piaggiando il Manzoni:
«Parigi 1836. Nel Duemila gli eruditi, rammentatori, dimostreranno il Manzoni panteista ed il Leopardi quacchero. Ma nel Duemila il Leopardi non avrà d'eminente nella opinione degli uomini né anco la spina dorsale, perché i vermi della sepoltura gliela avranno appianata».
Eccovi, in tutto, la carità cattolica! Piú attica e piú nobile l'invettiva del cantor di Ginestra: «Costui è asino italiano, anzi dalmatino» sorriso sarcastico di anima angosciata, stanca e grande.
Di tal passo, lungo le lettere, punge l'uno e l'altro; sia la Bianca Milesi Mojon, che si ridusse alla Riforma instruendone i figlioli; sia il Cattaneo che lo prese a letterarie scudisciate pel suo romanzo Fede e Bellezza; sia Elena Milesi vedova di un Viscontini e parente della nostra Matilde Dembowsky, donna di alto sentire, opposta alle bigotterie dei Damazz del biscottin che allora furoreggiavano a Milano sotto la paterna covata della usella di du bec.
Per quella signora trova l'invettiva salace e pornografica: «La Milesi è di quelle donne che dicono natura per non dire la natura, come men sucida parola di Dio»; e giú cadeva nello scurrile d'alcova, a proposito del Giunti, un toscano precettore de' suoi figli.
Il cattolico Tommaseo ben pochi dunque risparmiava nelle lettere. Vanità, alterigia, acrimonia lo facevano tagliuzzatore della fama altrui.
Salva i piú alti e viventi, coloro ai quali, per grazie, si strofina; incensa il Manzoni; si raccomanda al Vieusseux; carteggia col Lambruschini, si accosta al Capponi in volto umile e contrito, e sfoggia la sua anima generosa d'aspetto, gonfia, pettegola, sonora di vento e di albagia.
Il Monti fra tanto lo va giudicando bene dalle sue rime giovanili:
Che piú poveri versi non faria
Tommaseo, Mangiagalli e compagnia.
Anche il candidissimo Don Alessandro, una sera, per quanto solesse coprire eufemicamente il suo pensiero, in una confidenza di amici, non poté trattenersi dal dire: (e le parole per quanto inedite e riservate sono autentiche) «L'è ora de finilla con' sto Tomaseo: el ga un pee in sacristia e l'alter in casin».
Perché se il Melibeo, volesse ricorrere ad un suo piccolo dossier secreto, dove si raccolgono le piccole vanità ed i grandi vizii degli illustri, potrebbe commentarvi degnamente le parole manzoniane; riportandovi alcuni salaci episodii, che le trecche e le mammane di Torino e di Firenze forse hanno lasciato in tradizione, ed in cui le psicopatie sessuali descritte da Krafft-Ebing hanno buon giuoco a dimostrare una perversità: — forse non estranea la prima educazione del convento.
Il cattolico-repubblicano, cosí, di nascosto giuocherellò con Pafo sino a vecchiezza. Forse il titillio degli Erotici greci, ch'egli in parte tradusse con vera grazia ateniese; l'eccitarsi insoddisfatto, per il suo Fede e Bellezza, archetipo degli ultimi piccoli mondi ed antichi e moderni, pepati di gesuitiche espressioni untuose di lussuria, come le Filotee (e questo notava il Cattaneo) lo facevano indulgere alle pratiche venali dei comodi amori disistimati. Negli ultimi anni si compiacque della ciccia servile; cosa solita in lui se Carlo Cattaneo, uscito un giorno dalla sua consueta compostezza, ebbe a gridargli contro: «E bene: guardate questi grandi uomini! Sempre serve... nanca una camerera. E costen pocch».
Niccolò Tommaseo, scrittore, passò per due forme opposte e contradditorie: ottima la prima, giovanile, concettosa, densa ed appassionata; l'altra molle, a cincischii, alla ricerca del ribobolo toscano e del lezio purista.
Quanto egli in vecchiaia ha voluto rifare e rimaneggiare, perde in bontà, sciupa nella spontaneità e nel calore: guasta nel correggere e nei risciacquare in Arno.
Ebbe la fortuna di passeggiare sopra le tavole politiche del nostro risorgimento e di accomunarsi coi decisi e i coraggiosi per la grande idea, soffrendone esilio e dolore. Ciò lo fa resistere alla critica, insieme colla fede repubblicana, che non ha mai gettata per lusinghe o minaccie, e che mi sembra stranezza innestata sopra quel tronco spinoso ed inciprignito, compresso della sua religiosità praticante di apostolico romano. Forse, egli non ha mai dimesso dal cuore una sua speranza di vedere, nel tempo, un'Italia federale e repubblicana sotto la protezione della Santa Sede; ma certo fu cattivo estimatore di quanto significa, in fondo, repubblica; la quale è semplicemente libero ordinamento contrattuale, da cui ogni e qualunque religione, dogma e credenza debbono esulare.
E tutto ciò sarebbe in oggi oscuro o poco conosciuto, se mal accorto pel suo autore Ettore Verga non avesse esumate queste lettere al Cantú, stimolo alla maldicenza di un
[In «L'Italia del Popolo», a. XIII, n. 1244, 12-13 giugno 1904.]