Gian Pietro Lucini
Scritti critici

«GLI UOMINI ROSSI»

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«GLI UOMINI ROSSI»
di Antonio Beltramelli

Non conoscevo Antonio Beltramelli; mi si disse ch'era un romagnolo, ch'abita Forlí, che scrive, o scriveva, sulla «Patria» eleganti note critiche di letteratura, ch'era collaboratore del «Marzocco». Ma, da quando io mi sono rifugiato nella mia trappa, gli esteti di Firenze mi trascurarono nell'invio del loro foglio e non ho potuto prima d'ora sapere le attitudini personali e distinte di quell'autore.

Due volumi testé, Gli Uomini Rossi ed Anna Perenna, mi sono venuti rivelatori del suo nome e delle sue virtú: ed io mi affretto a renderveli noti, secondo il mio parere, in queste solite conversazioni, se mi vorrete udire.

Gli Uomini Rossi, come opera d'arte in prosa, di qualche intenzione romanzesca, sono inclassificabili nella serie stabilita dei generi letterari. Non pretendono al romanzo; stanno tra le avventure di realtà e di imaginazione; sono profondamente analitici e nel medesimo tempo sintetici; sono, sopra tutto, l'esposizione completa e sincera di una finissima ironia rettificata a buona scuola italiana, con garbo, misura, proprietà di lingua: la gustiamo sapida per le molte parabole verbali e per le imagini eccitatorie di sentimenti, di passioni, di riflessioni.

I Romagnoli, coloro che vivono a Forlí, la Città del Sole certo, sotto la maschera del tipo fermato in sulle pagine, troveranno personalità vere e viventi con la critica di costumi e degli atti, e dentro intenzioni satiriche che non risparmiano e la vivacità polemica in azione. Avranno quindi la chiave di nomi rappresentati sotto i diversi eufemismi, e, per loro, il volume sarà meglio interessante.

Per me, lontano dalle beghe attuali del luogo, molto spregiudicato e molto scettico, sul modo con cui un'idea politica, per quanto ottima e repubblicana, possa venir esplicata, discussa, patrocinata e difesa, convinto che nella diffusione di questa i mezzi qualche volta sono puerili e grotteschi, e si prestano alla caricatura, l'elemento combattivo del libro del Beltramelli, se pure osteggi anche una parte delle mie convinzioni non viene a turbare, né ad inframmettersi nel giudizio sereno che io faccio dell'arte sua.

Altri, ed amici ed antagonisti, simpatizzanti ed astiosi, affini e decisi oppositori, i quali fanno professione quotidiana di giornalismo di parte, potranno accettare con opportunità, piú o meno felice, quei presupposti politici che possono aver sollecitato i capitoli degli Uomini Rossi; potranno trarne quelle conclusioni di biasimo e di lode che meglio rispondano alle loro tendenze. Però li metto in guardia da un affrettato statuire sul caso; ché il Beltramelli ne sfugge dalle norme solite dell'argomentazione, come un argenteo e lesto pesciolino guizza fuor delle maglie delle nasse, che credendo d'aver fatto pesca, le ritireranno gocciolanti d'acqua e gonfie di vuoto.

Come al suo lavoro non si può affiggere etichetta esauriente di catalogo, cosí le sue idee, che vagano e che fluttuano in una completa libertà soggettiva, non possono venire regimentate al seguito di questo o di quel partito, coefficiente ideologico e pratico a corroborare una o l'altra delle finalità politiche.

E l'«Idea liberale» di Milano, che, giorni sono al proposito, credeva di derivarne dei corollarii di tattica pel suo monarchismo, erra assai; perché, tra i molti episodii e le molte maschere del volume, ha forse dimenticato quelli che si riferiscono ai libertari. Ma qui sono accennati e ritratti con tanta espressione di simpatia; con cosí nobile intenzione e larghezza di comprendere, da farmi spesso domandare se il Beltramelli non si volgesse benignamente verso costoro, intellettuale compreso della grande idealità delle dottrine, dagli ignoranti e dai paurosi alla leggera condannati, partecipi e l'altare e la corona e la borsa e tutti i proxeneti dei piccoli e grandi affari.

Onde, se qui alcuno trionfa, non è certo la famiglia di Gian Battifiore, sindaco repubblicano e Gran Copta della Città del Sole; non è il clericalume di Monsignor Antilante, grosso vescovo volpino, che impone sponsali religiosi, quando l'unione dei sessi era già avvenuta senza intervento di formole legali e chiesastiche; non è il Cavalier Mostardo, baffuto e disinteressato d'Artagnan di bella prestanza estetica, liberatore d'Europa dal Castello dei Lecci, improvvisato rifugio medioevale e romantico alla prima notte emozionata degli amanti; non vincono, pure ricevendone consentimento ed accoglienze entusiastiche, gli sposi Europa Battifiore e Didino Liturgico, imbarazzati dei loro corpi e del loro amore, fors'anche pel resto della loro vita, quando l'abitudine delle loro epidermidi piú non li stupisca o li faccia divagare.

I vittoriosi e non pare a prima vista, sono: il Gargiuin sciancato, intagliator di teschi sulle mazze di bosso, maligno ed arguto; l'Arfat, spranghino in cronica disoccupazione; il Marcôn, esaltato e profetico, cornacchia a predire per le campagne la buona ventura, filosofo fatalista; Apullinèr, ortolano dimesso dagli orti; Don Vitupèri, prete pezzente, socio di Miarú, gatto spelato e vibrante di fame; Schignott, il planipede scalzo, l'Ercole fulvo e vagabondo e Plé, il cane demolito, colla gabbia delle costole apparenti ricoperta dal pelame sucido, araldo di questi innocenti ed illuminati, per pochissimo vedere e per molto sentire, anarchici confessati.

E vi stanno a pari con evidente prosopopea, nella gloria, la muletta grigia, alacre alla salita, di buoni costumi, cavalcata dal Cavalier Mostardo nella impresa donchisciottiana e Fiut, l'asino macabro, vecchio di molteplici piaghe, ma rubizzo di nervo, che porta a scudiero, ultimo Sancio Panza, Marcon. , che se il ciuco nervoso, dai facili entusiasmi, lungo il viaggio, accorge ed odora un'asina, e si mette a strombettare ragliando abbandona l'ambio e si al galoppo ineguale del desiderio, per inseguirla, eccitando allo steeple-chase rusticano la muletta; sulla radura dal bosco, in un prato verdissimo, scavalcano repubblica e anarchia, in bel congiungimento di fratellanza, davanti al compirsi d'un'opera d'amore, che Fiút or ora ha terminato, con assai gioia e compunta convinzione.

Ora, perché irritarsi se le scene non troppo riverenti ad una congregazione politica eccitano alle risa cordiali e ne sono porte con tanta disinvolta maestria?

Piú tosto deploriamo che l'eccesso del parteggiare porga un pretesto a queste descrizioni; ma l'arte ne sia esclusa, ed a lei tutto l'elogio di coloro che ben intendono e che possono senza ingombri aprioristici gustarla. Per questo va la mia comunione ed il mio riconoscimento verso il Beltramelli; il quale ha fatto dimenticare, colla sua malizia di buona lega e col suo stile plastico, la grettezza di un metodo superficiale; ed in lui mi compiaccio, se mi ha fatto scoprire, in fondo all'arte sua, una fratellanza libera ed insofferente, dove l'ultime e piú remote finalità del mio pensiero e della mia speranza si possono conciliare simpaticamente.

Di modo che codesta mia dichiarazione estetica, m'accorgo, non potrà venire accolta da assai amici repubblicani, stretti al dogma piú che altro ed alle consuetudini di una intransigenza limitatrice: ma giovi per costoro il pensare che ho per somma lealtà di informatore artistico, il non fermarmi, nell'opere meritevoli, su di un preconcetto di categoria; tanto piú che il mio apprezzamento va da letterato a letterato e che ogni altra preoccupazione si fa in disparte. E stiano certi, che della documentazione di Uomini Rossi, non potranno valersi gli avversarii; siano i conservatori vagellanti, tiepidi e liberali alla Giovanni Borelli, quando tentano di galvanizzare una carogna quatriduana; siano i miti positivisti del parlamentarismo, i prudentissimi, che vogliono provare prima di ammettere; come se fosse possibile scodellar, per questi San Tomasi del democraticume, uno spezzatino di repubblica, sotto un regno per metà feudale; in quel modo, che, nei bars, si invitano i buongustai alle previe degustazioni quasi gratuite, gettone e scatto alle molle dell'apparecchio distributore, due soldi (una sola moneta, vi si prega, o signori) per buona réclame dei veleni spiritosi del giorno.

Gli uomini Rossi compendiano la vita pubblica della Romagna moderna, nelle piccole città di provincia, in cui l'individuo vale a seconda che sia immatricolato in questo o in quel partito. , i parlamenti ridotti e verbosi delle sezioni: , i sinedrii inappellabili dei caffeucci e delle farmacie, le ciance private che acquistano valore di polemiche pubbliche; gli antagonismi tra i commercianti di opposto colore politico e la marmaglia dei bimbi a gridare, nelle estemporanee dimostrazioni, il viva o l'abbasso a seconda dell'aura che passa e che febbricita la folla. E nessuna opportunità di logica educazione sociale, se le parti si scagliano l'una contro l'altra colla violenza colla lordura parolaja, non raramente coll'arme; poca preparazione alla lotta serena e civile di idee contro idee, nel fermentare nell'estuare eccessivo dei temperamenti impulsivi e ricchissimi d'energia morale; dote questa grandissima di vitalità in una razza che conserva ed accresce i proprii ideali, se venisse colla virtú prudente della riflessione e della pratica spesa meglio e governata da un piú sicuro concetto del proprio valore.

E sorge la terra rossigna, ghiajosa e fertile, nelle opulenze vegetali per le messi pingui pei vigneti arrubinati, per le selve oscure, profonde, fresche scheggie e millenarie per le memorie degli evi trascorsi nelle libertà, comunali, attestate dalla torre e dal campanile, dalla rocca e dal pozzo; dalla fierezza, che tempera, negli occhi delle giovanette, l'invito all'amore ed alla giocondità.

Stia questa Romagna benedetta dal sole e dalle opere georgiche, ripullulante di vite giovani e sane, brumosa qualche istante di malinconia e di desiderii non al tutto distinti e palesi: e senta il bisogno delle agapi fraterne e grasse, dei brindisi chiassosi e sinceri, delle sgolate in piazza; ma contemperi, consacri tutto questo che soperchia e spumeggia, perché serva un giorno alla piú grande impresa del rinnovarsi, promessa data e sperato conseguimento.

Tutto questo indicano Gli Uomini Rossi; e se è tale, è carità di patria. La sua ironia promana dalla passionalità della gente a cui l'autore appartiene: il Beltramelli è umorista appunto, perché vede e sente le cose pateticamente e con sentimento, e, delicato, ferito in cuore e triste, se compara ciò che potrebbe essere a quanto non è si esaspera del Carnevale della Democrazia che ne circonda; quindi non vinto o remissivo non si piega al silenzio, ma squilli di riso, facezia di baje, caricature e motteggi per soffocare le grida e l'invettive. Su ciò s'informa il suo stile; non è l'amara espressione del Pirandello; non la sceda continua ed incatenata di Henri Chateau nel Manuel de l'Arriviste; non la calma triste e disincantata di Jules Renard, riparato tra le corti delle fattorie coi galli e le papere per una sua Histoire naturelle; non l'iperbole dello Swift; la crudeltà macabra ed americana di Mark Twain; le trine, le spume leggiere e il gorgoglio del cachinno sommesso, la puntura di spillo, ed il mentito lenocinio elegante del moralista Willy; ma è la satira latina, l'arguzia della nostra commedia goldoniana, lo scherzo apparente per mascherare una piaga, la ricreazione di un uomo di lettere emotivo che ha bisogno di credere a qualche cosa di grande e che, per ora, giuoca colla propria anima a rimpiattino, cercando con ogni pretesto, di percuotersi, di agitarsi per sentirsi vivere, per vivere ridendo, libero, forse solo in una paganità di libere bellezze, in una incontrastata logica di natura insofferente di legami e di strettoie.

Donde, l'amorale ed il violento malinconico, nascosto sotto lo scherzo in cospetto ad una costatazione sociale ed attuale, sorge, se, dal grottesco degli Uomini Rossi, passa ad Anna Perenna a cui dedica tutte le sue cure, le morbidezze e le preziosità cadenzate della frase lirica e figurata.

Daimon e guida, Anna Perenna, triste, rumorosa, bizzarra, sardonica, addolorata, piena di speranza e di remissione, sempre maligna, prende per mano il poeta e lo conduce pei sentieri ingombri dalle spine e dai fiori della memoria, lungo la sua terra natale. Ed è l'epirema vivo costante, che precede, col parco motivo della leggenda e del ricordo, le tredici novelle dedicate al suo nome, come ad una famigliare divinità, dall'altri non riconosciuta, ma perpetua al pensiero ed alla riverenza del Beltramelli.

Evocazioni di gente fuori del comune; gente che ha dimenticato e non ha conosciuto i vincoli sociali, dissoluta nel deserto delle foreste appennine per la pineta e dentro l'acquitrino di Ravenna; nei pomerii lussureggianti dei villaggi, dai quali le vie battute si scostano; rifugiata alle radure e nelle praterie dei pascoli montani e nelle capanne a riva dei fiumi pescosi ed innominati ricciuti di spume: le belle figlie di Jadic, fragranti d'amore, inquiete d'amore, che, nel dolce Adriatico della piccola Cervia fattucchiera, concepiranno come le vergini mitologiche dalle onde; Ealistar, il passatore, forma di violenza e di forze cieche, improvvisato cavaliere di bellezza; ed altri: i Ciechi, che cantano le loro cecità, per la passione dell'allucinamento; il Fauno, che all'agguato sorprende la fanciulla; la Cerbiatta nomade e morente dopo l'abbraccio, come l'eroina di una novella del Decameron e la Tribú dei bambini vagabondi, compresa dell'incanto dell'estate, se ascende la scalea delle pendici coltivate ed opime di frutteti e vede la morte di Azurên, cantore incosciente nell'ultima luce del vespero, dopo l'ultimo canto:

S'io mi partissi e' n vi dicessi addio,
parrebbe mi partissi all'adirata.

E se mi parto vi lascio il cor mio,
che lo teniate fino alla tornata;

parafrasi del trovatore

Le corp s'en va mais le coeur vous demeure
Adieu, chère dame, adieu, jusqu'aux retours.

Tali stanno costoro in quest'opera che parrebbe del Gorki ma è piú latina e polita.

Ne riparlerò.

[In «L'Italia del Popolo», a. XIII, n. 1268, 6-7 luglio 1904.]


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