Gian Pietro Lucini
Scritti critici

F. T. MARINETTI

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F. T. MARINETTI

«Chi è costui?». Naturale e manzoniana domanda che avrà increspato le labbra, con qualche sospetto, a chi mi lesse Puff e Bluff in cui aveva atteggiato in posa elegante e sarcastica l'ultimo persifleur di D'Annunzio. «Quale la sua autorità a parlarne male, la sua ragione estetica; che ha fatto, come conosce, egli scrittore francese, la nostra letteraturaEccovelo senz'altro in breve.

Vi si presenta coll'opera sua. Alto, elastico nel porgere e garbato; l'occhio fisso e chiaro che penetra e vuol legger bene dentro chi gli parla; asciutto di parole e di volto, pallido, precocemente calvo; lesto di mano e franco di generosità. Provocano sulle sue labbra, due baffetti alla d'Artagnan; quando si accende nella disputa la sua voce squilla e risuona fanfara di battaglia. Egli sa e non nasconde i suoi meriti; se li lascia vantare, perché si assodano sopra reali qualità; ha bisogno di espandersi e di comandare, di richiamar osservazioni ed occhi, critiche, e, qualche volta, malevolenze sopra di sé: si vale del meglio e del pessimo; lavora piú per accontentare la sua inquietudine estetica, che per farsi chiamare letterato dal pubblico. A questi non domanda mai che cosa voglia, qual'è il piatto del giorno che preferisce alla imbandigione; gli serve quanto cuoce la sua cucina, molto pepata, molto salata, aspra, tossico e farmaco tra le scipitezze consuete: non si meraviglia se non ne vuotano la scodella. Sorride ed attende.

Su di lui corre una leggenda che si riassume in tre parole: «Poeta italo-francese»: con questa etichetta, coloro che non sanno comprenderlo, schivano di studiarlo, perché lo fanno déraciné due volte. F. T. Marinetti nacque infatti in Alessandria d'Egitto da padre e madre lombardi; studiò a Parigi; si laureò in Italia, vive e scrive a Milano. Felice influsso di climi opposti lo tonificarono; l'esuberanza africana venne temperata dal buon senso latino, la spumante eleganza francese, qualche volta inutile, dalla sodezza ragionatrice cisalpina. Ma egli è nostro di spirito e di intendimento; ha scelto di esprimersi in francese, perché gli sembra mezzo piú acconcio e di piú lunga portata, perché ne sa meglio il meccanismo e lo possiede perfettamente come strumento che gli risuona senza fatica e con distinzione , schietto, determinato.

Giovanetto, in Alessandria, cominciò a mandar fuori «Le Papyrus», di cui si ricordano animose polemiche: mandò presto versi alle Riviste giovani d'avanguardia, «La Vogue» e «La Plume», quando piú intensa ferveva la mischia tra simbolisti e parnassiani; nella «Revue Blanche» ha pubblicato uno studio acuto intorno ai fatti milanesi del Maggio sciagurato ed insanguinato; iniziava dal «Grand Théatre du Gymnase» di Marsiglia la sua divulgazione poetica intorno alla plejade contemporanea, che trascorre da Baudelaire a Francis Jammes; le sue letture cordiali ed educative continua, oggi, per le Università popolari e dalla ribalta de' teatri italiani. Gli servono bell'aspetto ed eleganza, corrispondenza animata e calorosa con quanto declama, intima soddisfazione di ben dire e di compiacere, colle suggestive interpretazioni delle rime ricche e dei ritmi astrusi che la sua voce va regalando alle platee.

Attualmente, è l'editore, il proprietario ed il direttore di «Poesia», fascicolo mensile internazionale, dove concorrono tutte le prosodie e tutte le lingue a salutarsi, cantando l'umanità, li eroi, li iddii, la Patria, il mondo. Questo giovane ricco, cui il censo potrebbe concedere lusso di cavalli, di automobili, di facili e costosi passatempi, di svaghi oziosi ed inconcludenti, ha compiuto la buona azione d'uscir fuori dalla consuetudine della grossa borghesia, di venire tra noi tra li artisti ed i sovversivi, senza astrusa intenzione di futuro ricatto morale, di dedicare buona parte del suo tempo e delle sue rendite nel lusso di quella rivista. Egli ha voluto, che, nella città piú industriale e piú pratica d'Italia, la frivola mondanità ed il gretto egoismo manifatturiere lasciassero posto e varco anche alla poesia: opera bella e buona, dove l'amore per l'arte è senza ricompensa e la sua ammirazione pei colleghi senza invidia: dove non è capriccio di stanco plutocrata che si sia volto come ad uno sport in voga o ad una cortigiana celebre e contesa, per riempire il giorno inerte, ma passione intensa per la quale vive.

La Conquête des Étoiles fu il suo primo poema. Epico di rivolte e di tempeste, di bufere e di tragedie marine e celesti; l'onde armate ed impennacchiate di spume vanno all'assalto del firmamento. Il mare, le onde, il vento, le stelle, il cielo ne sono li eroi, pura espressione ariana dell'eterno simbolismo, donde nacquero i miti di tutte le religioni e la prima ragione d'ogni arte, un'altra e forse nuova teogonia, espressione d'impeti e d'esuberanza, eccessiva, lampeggiata e corrusca verbalità di imagini e di sensazioni; poema di movimento intenso e di volontà.

Poco dopo, in Destruction, fa lirica dei suoi sentimenti compresi ed espressi con foga. Egli si sente insoddisfatto di tutto, non perché tutto gli ripugni, ma perché tutto non gli è sufficiente. Lamenta pochissima libertà, accusa la stabile e marmorea insistenza della morale del rito, dell'amore, della scienza e dell'arte: egli vuole completare col fatto il suo desiderio; pretende foggiare il mondo a sua simiglianza; dotare li uomini e le cose del suo suggello. Qui è il romantico che anela all'infinito; la stessa passione lo porta a distruggere perché rifabbrica diversamente, è l'insofferente e l'anarchico in estetica che batte un esclusivo suo metro balzante ed ansante, turgido di rispondenze, di gridi, allitterazioni; è il versificatore sovversivo, che canta contro tutte le regole, che esagera tutte le licenze, imprime, nella lingua, il suo carattere di frenesia di precipitosa rapidità che si libera di tutti li altri pregiudizii i quali statuiscono, sulla società una academia, e li ripudia, si vanta nudo e pugnace, secondo la destinazione del suo organismo, alla conquista di una sua felicità ideale, forse misteriosa antinomia.

Roi Bombance, tragedia da burattini e culinaria, gliela appresta, conflitto politico e sociale e quindi di appetiti. Rabelais gli porge i suoi ghiottoni feroci e mostruosi, la folla moderna i proprii bisogni insaziati, l'ingordigia parlamentare i suoi Seid d'ogni colore, un torrido cielo d'estate, sotto cui vide agitarsi un meeting di rivoltosi, i suoi furori porpurei, la candida sciocchezza divina dell'immortale poesia, l'Idiot, l'innocente sarcastico e contemplativo, lo scherno letterario, la caricatura coraggiosa dello stesso poeta: Sainte Pourriture regna. Regna e domina tutti; la stessa golosità è peccato e penitenza. Tutto l'assetto sociale vortica sul ventre: chi se lo ammira all'ombelico ingemmato nella catrarsi, imperatore fanullone, chi lo bestemmia vuoto, crudele e famelico e vuole riempirlo. Marinetti costrusse un'altra azione di eccessivo pessimismo, che non accontentòforcaioli, né ribelli, ed ebbe l'avvedutezza di non concludere. A che conclude infatti la Santa Putrefazione? Questa è la crisi imminente e perpetua d'ogni ora, d'ogni epoca: il determinismo del trageda si arresta a quest'ultimo fatto tangibile; qui, dove la vita e le nazioni sono sospese tra l'essere ed il non essere; qui, dove vigila l'istinto, o la necessità naturale che abborre dal vuoto; qui, dove qualunque filosofia e qualunque amore hanno posto la loro speranza, perché aspettano, dalla libertà incondizionata dei crogiuoli chimici, dell'utero materno, della rivoluzione, l'essere nuovo in divenire. A che terminare con un giudizio, cui l'attualità può forse ammettere, per il minuto fuggente, ma che il domani esautora e deride? Per ciò la tragedia, per essere un inno irrefrenato alla vita, deve compiacersi di una ecatombe: su cui Sainte Pourriture, serpe nottola, brago, fumo, assorbe il detrito, di uomini, di cose, di istituti di preveggenza, di destini, di poemi, lo riburatta nelli sconvolgimenti dell'epoca, per ripresentarli, alla luce del sole, al sole della istoria ed alla intelligente e sensibile bellezza della poesia avvenire.

Il leit-motiv di questo pessimismo stirneriano e romantico è ridato dalla dedica che il Marinetti prepone religiosamente al suo poema, La Ville Charnelle39, ultimo uscito: «Ai miei becchini, perché, nell'estrema sera, sotto la carne stanca ed augusta di un bel cielo primaverile, e tra l'ingombro delle croci ebre e dell'erba appassionata, non vogliano barellare e scuotere il mio corpo, pensando alle labra feminili che l'hanno imbalsamato».

Città di carne: egli la scorge «che sonnecchia in abbandono, seduta, offrendo le sue terga alle carezze dell'aurora»; egli la vede, viaggiatore morso di sete e d'amore, colle sue moschee che fremono di desiderio, sotto al sole, che sorge dalle nuvole ardenti, immenso titano a sua guardia e goloso. Città di Carne, questa e quest'altro bel corpo feminile; alla gloria ed allo spasimo del quale egli ha sdegnato la solita mitologia di tutte le Veneri ed ha composto ancora mitologicamente, ad imagine della viva feminilità, l'edilizia meravigliosa ed enorme, palazzi, colonnati, giardini, per dove ha passeggiato la sua frenesia sempre insoddisfatta. — A lei canta il cuore che si svuota di poesia e d'eroismo; verso di lei concorrono le sue passioni, si sfrenano baci senza fine, su di lei cala la tenebra, e colla notte, esausto di ritmi e di voluttà, ma non sazio, il corpo del poeta si abbandonerà sulle sabbie ancora arroventate dal mezzogiorno, corpo leggero in preda al vento.

Rubens e Goya presiedono evocatori al sogno profondo che assomma sensualità, stranezze e crudele misticismo, tutte le forze libere e tutte le piú appassionate aspirazioni. Soccorrono le strofe colla armonia violenta dei loro colori; col disdegno serrato e sapiente dei loro contorni; fermano il metro lucido e distintivo, in un disordine apparente e volontario. Perché Marinetti sa, come un Rutilio, uno Stazio, un Claudio Claudiano, un Ausonio della imperiale latinità, correggere il barocco e rimettere il gusto ne' limiti logici della lingua e dell'arte, arrestare in tempo il suo slancio prepotente.

Certo egli stupisce il superficiale, e chi non è avvezzo al suo temperamento, gli facile biasimo di affettazione, di esagerato ed artefatto lenocinio e gli rimprovera le imagini inedite funambolesche, rutilanti sfrenate, tormentate di velocità e questo Pegaso:

Dio veemente d'una razza d'acciajo,
Automobile ebro di spazio,
che scalpiti d'angoscia, il morso sui denti stridenti

Al consuetudinario compiacciono le lente processioni delle canefore, il mare placido e giovane dell'Ellade, il verde dei pascoli, le rame mollemente mosse dalla brezza, tutto il repertorio, non privo di certa grazia e soavità, ma sciupato dall'Arcadia e dai petrarchisti, dai manzoniani e dai pascoliani ultimi venuti. Invece l'arte sua è di tal tipo, quale la modernità, l'anima nostra, la nostra civiltà richiedono; e ci rappresenta come siamo insoddisfatti, in pretese e battaglie per quanto forse non ci sarà dato possedere mai.

E pure come il Marinetti sappia apprezzare anche l'altri, lo mostra quando scioglie i Dithyrambes in onore de' suoi poeti, li Epinici ai nostri ultimi carducciani che vanno tramontando, lasciando, pur troppo, un enorme vuoto nella lirica italiana, la quale è lenta a rifiorire, perché le manca ossigeno e soffoca in questa patria retta da una impropria monarchia, sorretta dalle manifatture a stampe ed a formole, corrotta dall'inganno commerciale, dalli egoismi rimunerati e rimunerativi, corretta dalla banalità, umiliata dall'assenteismo da tutto ciò che parla, canta, o grida l'ideale, nei libri, sulla piazza, nella stessa natura. Ad Ada Negri, — alla Tomba di Severino Ferrari, a Giovanni Marradi, epico della camicia rossa, — intreccia l'ultima corona di garofani e di allori: a Gustave Kahn, a de Regnier, a Viélé-Griffin, al Mauclair, alla Noailles definisce la fama; alla sua fantasia moderna ordina di volare velocissimamente su, piú in alto, oltre la possibilità, per confondersi nella «inebriante pienezza delli astri che scorrono scintillando sul gran letto del cielo».

In cospetto a questa intensa, complessa e fervida produzione, di cui i motivi principali sono l'esuberanza, il movimento, la plastica vigorosa, muscolosa e procace, il critico di professione ed il pedante salariato rimangono in sospeso in sul giudizio. Anche oltre Alpe, cercano, per schivare fatica e studio a conoscere le ragioni della esemplare personalità del Marinetti, di accontentarsi della facile trovata: «È un italiano, è un meridionale». E gli perdonano difetti di proporzione e di buon gusto — che sono pure ed anche specifiche qualità — con questa etichetta d'esotismo.

Del resto a costoro piacque di ascriverlo al simbolismo; e questo modo di letteratura che non è una scuola, ma l'espressione di diverse forme estetiche personali concorse insieme ad un principio di vita e di filosofia, lo accoglie volentieri. In questo gruppo di genialità diverse, dove si incentrarono dei romanzieri satirici e mistici come Paul Adam, dei lirici di sintesi come il Kahn, dei sognatori latini come il Quillard, dei parabolisti come il Bernard Lazare, dei critici come il Fénéon, delli eclettici sarcastici e disincantati come il Remy de Gourmont, delli psicologi acuti come il Dujardin, può prender posto il parabolano di Roi Bombance, l'erotico di Ville Charnelle, il banditore di fame dei Dithyrambes, l'ironista di Les Dieux s'en vont d'Annunzio reste.

Perché riuscí a fortuna, per la spiccia storia letteraria, che abbia fiorito una tendenza di libertà, di orgoglio e di lirica, in cui non si riconosca nessun limite all'arte, nessun metodo sulla espressione, nessun valore nell'insegnamento academico, nessuna ragione nell'intervento meticoloso delle regole, della ammuffita prosodia, della licenza concessa come speciale privilegio. Benvenuti questi anarchici di pensiero e di forma, mercé i quali, dalla scuola si passò alla federazione di libere e complesse unità operanti, determinate ad un lavoro di bellezza e di ribellione senza alcun controllo ed ubbidenza: tutti osservano un'unica legge di attrazione, concomitante per quel vertice prefisso; ma ciascuno è indipendente, abbraccia piú cose, vede maggior spazio. Cosí, li sforzi di tutti, non vincolati, raggiungono piú presto la meta, determinano altre scoperte, ne assicurano piú rapidamente il risultato.

F. T. Marinetti, che ebbe l'audacia di informare i suoi colleghi parigini delle mille ed una proprietà originali e d'imprestito, di cui va fornito il Barnum pescarese, è tra i piú giovani di questa generazione di poeti; si adottò a suo maestro Gustave Kahn, beau génie africain, come egli lo chiama, nato sotto quella latitudine, dove la Piramide e la Sfinge hanno accolto nella loro immobilità jeratica, sarcastica e tutt'ora trionfante sui confini del deserto, il comfort, il cant, e business inglesi senza preoccuparsene per riferirli alla storia in paragone.

Egli della classe privilegiata, rompe colle facili abitudini di una vita molle ed inerte e mette la sua poesia allo sbaraglio rivoluzionario del verso libero e del sovversismo: non teme di concorrere alla commemorazione decennale del 1898, mandando ad un «Numero unico» uscito a cura della Seminagione Laica l'Eloge à la Dynamite e non si formalizza di esser qui in compagnia di Cipriani, di Braccialarghe, dei galeotti del Tribunale militare e di Augusto Murri, rovere fulminato ma gigantesco ed ammirando. Ed è quegli, che può ridere in faccia al D'Annunzio, perché ne ha in qualche modo dei diritti naturali, spontanee attitudini, certo garbo sottile, sconcertante e misterioso per tentare una sapida caricatura.

[In «La Ragione», 27 agosto 1908.]





39 E. Sansot et Comp., Paris 1908.



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