Gian Pietro Lucini
Scritti critici

ANTONIO FOGAZZARO

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ANTONIO FOGAZZARO

Ah, no! A me deve essere concesso, anche davanti la cosí detta, dalli altri, sacra maestà della morte, richiedere dalla mia sincerità la mia personale verità: personale in fatti, e perché darà suono discordante alle lodi, e non vorrà dimenticarsi di avere sempre discordato in vita colle opere e colla vita di chi, oggi, l'Italia ufficiale va piangendo.

Va piangendo un breve coraggio, tra la rinuncia e l'apostasia, un grandissimo orgoglio non corretto da ragioni necessarie ad accampar giusta superbia. Ultimo dei manzoniani, condusse, Antonio Fogazzaro, alla rovina, finalmente, il manzonianesimo di sacristia; come definitivamente, Edmondo De Amicis l'uccise in quella parte della sentimentalità romantica che ancora era sopravissuta non ostante Tarchetti, Giosuè Carducci, Carlo Dossi.

Anche l'altro giorno quest'ultimo, e da vero mio grande amico, vidimi morire dinanzi, tra le braccia della nobile compagna sua, ed al mio dolore non rispose, come dovevasi, col suffragio della parte piú eletta della letteratura italiana. Egli, che aveva inventato, modo, pensiero, stile ed impeto di continua ed operativa virtú; egli, che fu nella maggior latitudine l'artista della parola ed il suscitatore plastico delle idee, ha dovuto poggiare ad una riverenza di condoglianze ufficiali, perché un episodio della sua vita lo volle accanto al Crispi e diplomatico, facendogli sviare cammino: del che, nelli ultimi anni, si addolorava.

Carlo Dossi, che aveva pur detto di Fogazzaro: «Non è letterato, non autore, perché non ha detto nulla di nuovo e di suo; ma scrittore», non ha commosso la folla partendo per sempre: Antonio Fogazzaro, morto, ha funebri magnificamente manzoniani. Con questo, almeno, si rinchiuda l'equivoco della sua letteratura sotto triplice sarcofago per sempre; non risorga piú.

Cerco invano, colla mia solita dissociazione de' concetti comuni, frugando nelle profondità native delli avvenimenti e delle apparenze, le virtú di questo produttore di libri. I suoi valori sono negativi.

L'abbiamo riletto in Miranda, dove la lunare squallidezza del verso prosastico diminuisce il concetto sentimentale di quella psicologia, poemetto ricomposto sulle brume bavaresi, sopra una spiritualità, cui l'isterismo inlievita.

Miranda e le sue lettrici aspettano il Don Juan; il pessimo stile concorre a farmi disamare la favola.

Poi, a pretesto di paesaggi-stato-d'anima, trovammo Valsolda; versi, non poesia; però che ha nome di verso quella riga tipografica di diversa misura, in cui si ritrova un numero prestabilito di accenti su tante sillabe predisposte a riceverli, e si incomincia a scriverla con una maiuscola a dispetto delle logiche interpunzioni: righe su cui Fogazzaro miracoleggiò di ritmo, di imagini, di lirica. In prosodia di tal fatta leggemmo traduzioni di brumose nenie nuziali e forestiere; sfoghi della sua anima credente, cosí:

Se, chiusami l'ira nei nervi,
Opposi superbo agli avversi
Il tacito sprezzo del cuore;

donde, ahimé, codeste rinuncie troppo costarono all'organismo.

Versicoli: ben altra è poesia: se non volete accettare la mia definizione, cui spesse volte ho impiegato nel non conosciuto mio Verso Libero, vi sia ottima almeno questa del venerando ed insospettato vegliardo Roberto Ardigò: Poesia? Magia di parole. Musica di versi. Incanto di imagini. Festa di sentimenti. Cercate in Fogazzaro questi quattro essenziali elementi della lirica. Egli dimostrerà che puossi compor terzine o sonetti e ballate e tutte le strofe di tutti i metri, semiritmi compresi, facendone senza: le sue esercitazioni non si scompaiano da quelle di un abatino rosminiano, che mal' abbia assimilato Tommaseo; nulla di sincero, di provato, d'intimamente umano: perciò, contro di lui, F. T. Marinetti ha potuto avventare il postremo battesimo, tra i ribelli dell'arte divenuto proverbiale: e li Imbecilli possono oggi piangere il massimo loro cantore.

Facciamoci un'ultima volta recitare le sue Scene. Ignaro di tecnica dramatica, impacciato nelle formole del teatro, incapace di creare un'azione — perché in lui ogni cosa è metafisica, nebbia, sogno, non tangibilità di plastica — lo udiamo, or prolisso, ora secco, con un dialogo che va, dalla preziosità minuziosa de' vocaboli ricercati alla trascurataggine verbosa del volgo.

Un pubblico specialeassisteva ad un trattenimento di favore — a Milano e giustiziava Garofalo rosso; crudele ed insistente agonia in cui si spegne una decaduta cieca e querula, tra una vecchia serva paternostrante e rimbambita, ed un ex-marito canaglia, dentro le nude pareti di un ospizio di carità, raccontando una povera istoria di angoscie e d'amori passati.

L'insistenza sulla nota crudele irrita e appalesa che l'ascetismo prorompe dai centri nervosi inferiori, come la ferocia e la lussuria, elementi capitali di specifica approvazione nelle esperienze del Marquis de Sade.

Ascolteremo pure Il ritratto mascherato; postuma crisi di gelosia femminile, per un morto creduto fedele, e, di cui una dubbia fotografia, tradisce l'infedeltà; con intermezzo di querimonie domestiche e divote, trambusto di eredi affaccendati, mormorii di anime paurose e piccole a pena respiranti, tutte pervase dalla formidine oscura della religiosità.

Od uscirà di vampata Nadejda, bionda, franco-russa, unico frutto di una principessa slava e di un principe francese bagascione; quella esteta di tramonti e burrasche lacustri, di poeti inediti e di larghe terga servili, allora ufficiale-amante di un gran duca; questi una pedina d'alto garbo, biscazziere e legittimista. Nadejda, la sorella uterina e modernista, di Miranda, la simbolica ipostasi di Marina di Malombra, riesce slavata e stinta da un virus tolstoiano, mal preso in carattere quasi germanico; si suicida per vergogna altrui, inutilmente, fervida per una riconciliazione, troppo presto stanca della vita, che non è chiostro, non ozio, non rinuncia, ma desiderio, volontà, compartecipazione laboriosa, sforzo cosciente al divenire.

Nadejda è l'anima della dramatica fogazzariana; è la cera di sacristia, che piega al caldo di una giornata estiva e temporalesca, lagrimante, sopra una bara espiatoria; perciò si inarca, si flette, si rilascia, per quanto accesa, perché accesa, a toccare la bara, struggendosi: e la fiammella tremula si abbatte si inquieta, per ritrovare la normale audacia di lagrima di fuoco, di spirito, di luce, non può, si sacrifica, si spegne, si sopprime. A che pro' il sacrificio? Da codeste inutili vittime, che nessuno redimono, la vita abborre: l'arte le tace pietosa, la bellezza le obblia: le inattuali crudeltà ripugnano anche alla tragedia classica: Medea non deve uccidere i figliuoli davanti alli spettatori. Il segno cristiano è degenerativo; la dottrina s'impernia sopra la croce, che ammonisce l'ingiusta, e, perché ingiusta, divina reversibilità. Fogazzaro sacrifica Nadejda, come sacrificherà la ragione all'assurdo, quando nella diatriba del Santo, lo rimprovererà in faccia all'orgoglioso dispotismo teocratico e bestiale dell'Indice romano.

Per intanto, Miranda, Marina, Nadejda dissolvetevi, anodini voli di fantasime volitanti in floscio incubo pauroso, dissolute e senza posa nell'ignoto e nel dubbio che vi tormenta; voi che ci tormentate della vostra inquietudine imprecisa, come un abbozzo di volontà e di intelligenza, come una interrogazione di superflue oziosità sulla necessaria compostezza della esistenza, che bisogna saper vivere serenamente: anime torbide, anime ascetiche verso cui il vero misticismo, che è gnosi — cioè sapienza e fiducia e coscienza — non scese mai; e volle l'autor vostro gabellarvi per mistiche, cioè semplicemente strambe di ebefrenica feminilità.

Ma vi fu una stagione, verso il 1880, e, per taluni dei piú arretrati pare verdeggi ancora, in cui questo provinciale assunse l'aria dispotica d'instauratore del romanzo italiano. Allora, venne noverato tra i quattro fratelli, dalle tendenze opposte e dalli intendimenti diversi, confusi in uno stuolo di cugini di Persia e di AteneEnrico Panzacchi ed Arrigo Graf —, mentre de' papagalli grigi frullavano intorno a loro le ali impumate di albagia franco-germanica, uno stalliere frugoniano si atteggiava a malinconioso, il porchetto di casa ed il cagnolino squittivano a battuta.

Certo è, che venne ad assumere il primato, accosto al D'Annunzio ed al Rovetta, di questo genere assai fruttifero; e, tratta per le vie di traverso dalla sua ingenuità e liberalismo non ancora salesiano, la critica severa, acuta e profonda di Felice Cameroni si era messa a lodarlo, dimenticando il suo indimenticabile Zola, per poco; errore di cui non scuso al dilettissimo amico le premesse. Collo Zola aveva perso memoria di Giovanni Faldella, venuto per le mani di Carducci, che se n'era entusiasmato, di Rocco de Zerbi papà della magnifica Avvelenatrice; di Giovanni Verga insuperato coi Malavoglia degni di Flaubert e di Balzac, di La Desinenza in A che già stampata e letta era un lucidissimo scandalo geniale, del No, del Nemico, della dramatica possente ed affascinatrice dell'Oriani, che aveva raggiunto coll'al di della passione l'adatta espressione esasperata di una lingua di vertigine e di ragionamento; quale doveva tipicamente manifestarla.

Fogazzaro aveva allora invogliato ed interessato di lui all'apparire; fingeva, tra la nebbiosità di un romanticismo raddolcito paesaggi notturni e freschi, laghetti frigidi, montagne tra le tirolesi e le retiche, le sue Seghe di Velo. Avendo mal compreso la totalità mistica di Novalis e di Emerson, il non conoscere il maneggio del vocabolario e della nomenclatura, il non padroneggiare i secreti della sintassi e della gramatica, i quali solo danno potestà all'eccezione glottologica, perché evidentemente dimostrata e voluta per sapere, non per ignoranza per questi difetti, che alli occhi della folla ignara passano per virtú, mandò a succedersi Malombra, Daniele Cortis, Piccolo mondo antico, le novelle di Fedele, i racconti brevi di Idilli spezzati. Da Piccolo mondo moderno; pel Santo — che, dicono, sarebbe un abile plagio di The Master Christian, della Maria Corelli, edito a Londra dai Mettsuen nel 1900 — a Leila l'anabasi sua non fu senofontesca, ma fuga dopo Waterloo.

Qui, sorsero i democratici cristiani ad applaudirlo: giovò ai modernisti alla Don Murri, ai politicanti clericali aver un uomo d'ingegno che li guidasse a soddisfazione delle loro ambizioni, contro la logica immobilità del Vaticano. Giovò, ch'egli, in buona fede, distendesse al vento un gonfalone tricolore, caricato colle chiavi in croce di San Pietro, perché li altri, sottombra ed al coperto, potessero continuare le piccole cospirazioni contro l'Italia e colui che detiene, riannodate tra la seconda reggia Ludovisi e la Cancelleria pontificia.

Riassumiamone l'opera romantica: l'amore sano, generoso che prolifica creature ed idee vi è bandito. Tutto è ridotto in lui alla intenzione; e, che novissimo eretico! Intenzioni bastano, alla fede, non culto, non rito, come all'amore non bacio, non abbraccio. Fogazzaro odiò le procedure, che sono l'esposizione funzionale d'ogni diritto, potere ed azione; basta per lui l'atto voluto in genesi, virtuale. E la sua psicologia, che doveva essere sperimentale in pieno XX secolo, non gli ha fatto vedere come tanto sia necessario l'erotismo fisico, quanto la superstizione; perché senza di questi né amore, né religione potrebbero sussistere; perché amore e religione, comunque, oltre ad essere delle attitudini assolutamente umane, debbono assumere l'ampiezza rappresentativa di funzioni collettive e sociali. Egli non comprese che la chiesa romana deve rimanere logicamente superstiziosa, anche nell'agonia, sino all'assurdo, dal carnefice a Dio; che questo fu il grande merito del cattolicesimo: suscitare i Gesuiti; che, d'altra parte, l'errore capitale di Tolstoi, proceduto, dalla Sonata a Kreutzer al negare la potenza dell'Arte, in Che cosa è mai l'arte, si riversava dallo slavo sopra il latino con piú povera intenzione, se un romanziere tentasse di conciliare l'assurdo: Sant'Agostino con Darwin.

Volse a messianeggiare dopo Il Santo, colle conferenze all'estero: passò per Parigi — il seminario delle piccole religioni, sul limite della religione — a Ginevra — il centro del fanatismo calvinista —; donde venne bandito Giordano Bruno, dove Servet ebbe rogo. Di quel tempo, commesso viaggiatore delle idee di Giovanni Selva, faceva esporre al «Demain» di Lione (18 gennaio 1907): «Sarà interessantissimo osservare l'accoglienza che verrà fatta a Ginevra alle idee del signor Fogazzaro. Egli aspira, con tutte le sue forze alla conciliazione del protestantesimo col cattolicesimo. (In fondo lo spunto è raccattato da Cesare Cantú, per chi ben lesse la sua storia del Sacro macello). E lo dice con parola elegante nella sua conferenza». Ecco la pessima eresia; confondere, in un bacio di pace, nemici che si odieranno sempre; l'uomo metafisico tedesco, coll'uomo artista passionale latino. Vedremo mai, in San Pietro, un Papa che rappresenti Lutero, Calvino, Pio X, il cardinale Manning? Ecco la risorta santa alleanza del guelfismo; sette secoli aboliti, in un tratto, dalla storia coll'avvento di un altro Ildebrando, che avrebbe la mentalità contadina e cocciuta di un Don Giovanni Bosco, la sapienza sillogistica e socialistoide di Enrico Ferri: bellissimo risultato. Il primo suo atto sarebbe di sopprimere, sotto una densa scialbatura di calce, Il giudizio divinissimo della Capella Sistina.

Ed, in buon punto, si valse dello scandalo; suase alla condanna; si genuflesse un'altra volta: Le ciacole di Bepi, che quel paterino di Guerrini ha voluto imprestare dal vernacolo semiveneto di Papa Sarto, se ne avvantaggiarono; accolsero un numero di piú nelle loro litanie:

Et reprobavit! Queste xe parole!
Che carattere, ciò, che convinzion!
Che bell'esempio per le nostre scole!

Antonio Fogazzaro, che non ebbe mai gusto d'arte, non seppe trascegliere la propria filosofia, pur facendone un centone ecclettico. Dove doveva egli poggiare? Seguir Tolstoi? Si sarebbe giunto ad abolire il principio di autorità: l'uguaglianza francescana e slava del solitario di Jásnaja Poliana lo spaventarono come l'anarchia. Ma quando morí il vegliardo di quella magnifica morte esemplare, osò susurrare la sua parola su di lui; il meglio ed il peggio gli rimasero in gola. Seguire Emerson? Era affidarsi all'americana, a spingersi, per l'una parte al bluff di William James praticato da lui ultimamente con Roosevelt, ed avere il pericolo, dall'altra, d'imbattersi colla severità stoica ed imperatoria di Carlyle. Breve il passo, dalli eroi di costui, a Mazzini, al suo rivoluzionario Dio e Popolo. E Fogazzaro, «un René Bazinannacquato» (lo chiamò l'amico mio, Remy de Gourmont) si accontentò della fenomenologia idealista del trapassato Hegel. Era, del resto, di moda: da qui fan derivare ogni cosa i pragmatisti italiani; e, da lui, Benedetto Croce si è fatto la fama di filosofo geniale... ed originale.

Pure il germanesimo non gli fece schivare Antonio Rosmini, il piú tedesco dei nostri filosofi, il sospettato, a ragione, dalla Curia, per le sue quaranta, o giú di , proposizioni ereticali, il sostenuto dalla Curia per forza e per l'abito abbaziale. che, continuandolo, derivandone delle applicazioni di una certa utilità conservatrice, ebbe a seguito Monsignor Bonomelli e li altri intimi di scienza e di prevveggenza sociale; a lui si rivolsero tutele di emigranti all'estero, tutele di moralità pubbliche, raccomandazioni per l'antialcoolismo, prevenzioni al vagabondaggio, alla prostituzione, riflesso di un Béranger d'ugonotta predicazione al Senato di Parigi.

Ne uscí una Morale che conchiuse i limiti a quella cattolica di Alessandro Manzoni, il determinista, che rivide senza patristica Sant'Alfonso de' Liguori e accettò le due sottili discriminanti: Fogazzaro, coll'accogliere l'imperativo assoluto kantiano preparò piú breve orizzonte alla volontà e tornò a discutere d'ontologia, mentre le scienze biologiche d'esperienza chimica e fisica avevano ridotto la prova a discutere del fenomeno Dio, pensato da noi, come categoria mentale, sopportato da noi, come incombenza naturale.

Non importa: gli vennero dietro de' farmacisti senza diploma; e ci apprestarono, lambiccate, delle tisane sciape e vomitose ricopiate, colla solita ipocrisia, dalli scampoli del Fogazzaro.

Scampolo! la parola è commerciale, di bottega, reddituaria. Perché l'industrioso tessitore dei piccoli mondi antichi e moderni, ha, per una volta tanto, ed in gioventú, all'insaputa, battuta, sull'ordito del suo telaio veneto e quasi tirolese, la trama di un canevaccio di prolissa misura. Tutta la pezza ripose quindi in armadio; ma dell'unica stoffa, rude, piena di sfilacci, tagliò spesso dei teli di ineguale lunghezza, facendoci credere, che, come i tappeti persiani, fossero stati, con disegni speciali, fatti, uno per uno, con grande fatica personale; mentre su quelli, a richiesta dei clienti, aveva stampato, con tipi, sigilli stracchi, ghirigori alla moda, estemporanee tinture, stemperate in acqua santa, al disegno che suadeva al tempo. Cedere temporibus: la romana classicità tornava tipica al romanziere.

E se ne vendettero, e se ne vendono ancora. Novelle, romanzi vi sfilano davanti sull'unico motivo: pettegolezzi di una città di provincia, infamiole velenose, malignità pungenti di vecchie bigotte, di preti tiepidi e mestieranti, conversazioni, confessioni sopra motivi di casistica passionale.

Eroi? Pietro Maironi, uno squilibrato, tra il peccatore e l'asceta, che si annega in un mare di nebbie e brancica fantasime. Donne? Angiole luciferine, con tutta la tentazione nelli occhi, tentaculari, irritanti, spasmodiche. E Fogazzaro le odia e le vuole, le teme e le chiama; trappista al secolo, se ne finge succubi bellissimi, ed una profonda avversione mescola per piú disperato amore, inutile, disgregatore: quindi sopprimersi, fuggire, rinunciare: a che pro?

Diceva di lui Innocenzo Cappa, difendendo l'altro giorno Mafarka il Futurista, accusato d'oscenità al tribunale milanese, e ne veniva assolto, accumunando, in antitesi, e con volo pindarico di lirica, con demostenica, convincente oratoria, Leila, in un periodo, colle mie Revolverate miracolosamente impuni dall'ugna fiscale e clericale del procurator generale Nicora: «Antonio Fogazzaro, spacciato dalla casa editrice Baldini e Castoldi; quello scrittore che fa l'esaltazione dell'anticamera dell'amore, con una bella lascivia cattolica, ipocrita, gesuitica, balorda, nella quale c'è tutto il vizio possibile ed imaginabile, ma non si può afferrare. È un vecchio che ha moglie giovane; è una vecchia che ha marito giovane. Però è casto». Casto, sempre: la castità, in questo caso, rientra fra le psicopatie sessuali del Krafft-Ebing; leggetemi il ponderoso volume del medico tedesco; non è piú impotenza; è inversione.

Ciascun scampolo, dal Piccolo mondo moderno in poi, ha congenito il peccato d'origine; ed il pubblico, incappato nelle ragne della réclame, cui buttafuori compiacenti e rimunerati sanno tendere allo svolto delle librerie, cioè in sulle colonne della critica letteraria giornalistica, per non mostrar d'aver capito d'essere ingannato, difendendo, coll'ipocrisia l'ignoranza, tornò a comperarne. Costino dalle due lire alle sei e cinquanta, i tagliandi del messianismo fogazzariano si rovesciano sul mercato libraio; tutte le lodi si riversano sulla eccellenza di quel traliccio, o cotonina stampata, adatta a coprir tutte le nudità difforme dell'anima e del corpo.

Donde si vede, che cincischiando Cristo tra Calvino ed il Papa, facendo il romeo a stagione, l'italiano di quando in quando, l'oppositore autorevole al vecchio Sillabo, diecimila copie ottimamente si spacciano in un mese. E fu pure utile che Il Santo si vendesse a furia in America, mille esemplari al giorno in Inghilterra: tanto le idee di Giovanni Selva possono fabricare la comoda ed ideale Montanina con capella e scuderie e garage d'automobili; tanto a che servirebbe essere posto all'indice? Solo le grandi idee, quelle che tramutano il mondo ed orientano l'umanità fuorviata per la strada piú rapida e sicura dell'avvenire, debbono essere gratuite. Cioè, pagansi col sangue, non conducono ai trionfi di libreria; perché la vita, non è una ricchezza ma un diritto; e la maggiore generosità è di saper non vivere affinché tutti li altri vivano meglio.

Antonio Fogazzaro, dato l'inconveniente della sua epatite cronica, visse sempre ottimamente.

Nessuno meglio di lui, né meno l'abilissimo D'Annunzio, seppe sfruttare l'ambiente, l'avvenimento: battendosi le mani sullo stomaco, rispose: «presente!» ad ogni richiesta, mettendosi in prima fila: ha parole per il disastro ferroviario di Ponte Molle — appena tumulato Umberto nel Pantheon, di ritorno li invitati dal funebre — ne trovò per il terremoto calabrese; per Roosevelt, il piú antipatico barbaro in tournée per l'Italia; per l'inaugurazione di Caffè-antialcoolico.

Nessuno meglio di lui fu piú sagace amministratore della propria opera, della sua persona, né meno il genioso industriale delle proprie produzioni, Umberto Notari. Lo sanno i suoi editori; lo so io che fui tra questi, tratto dall'amore del libro e dai casi della mia irrequietezza speculativa a farmi, per una stagione, libraio in compagnia d'ottimi commercianti; i quali, naturalmente, volevano far delli affari, mentre io desiderava aiutare all'arte.

Cosí, conobbi l'autore del Piccolo mondo antico: sottoscrissi con lui qualche contratto ad hoc; ho qui, oggi, davanti un mucchio di lettere dalle quali il garbo letterario sfuma, rimanendovi solamente la cifra.

Cosí, salii, in una bella giornata di giugno, a Velo d'Astico per incontrarlo e vederlo incorniciato dalle Seghe di Velo, nel paesaggio topico che le circondava, in quella Villa Valmarana, che gli serví di sfondo per i primi capitoli del Daniele Cortis: e mi imbattei, a prima entrata, in valletti d'anticamera chierici, in segretarii di scrittoio chierici, ed una chiara conventualità di freschezza alpina e primaverile. E discorsi con lui, e ci scrivemmo; ed ho corso di mettere da parte, in intermezzo, l'asprezza della mia critica, per ricordarmi della sua affabilità, della signorile cortesia, del porgere misurato, della nasalità delle sue intonazioni, del riserbo sacerdotale, dell'evidente coscienza della sua superiorità.

Poi, avendo io visto, che, per correr mercatura di libri, doveva tralasciare di farne; pesandomi l'astinenza e i piccoli uffici dello spaccio; avendomi egli chiesto perché il mio nome non apparisse nella ragion sociale con quelli de' consocii; gli scrissi, e, nel medesimo tempo, diedi a me promessa d'uscire presto da quella inadatta posizione:

«... Le dirò anche di piú: nei primi giorni della società, avendo voluto far atto di imperio, spinto dal mio gusto letterario e dalle mie idealità, mi trovai di fronte a tali esigenze economiche ed amministrative, rappresentate dai consoci, da farmi comprendere, che mi sarei immesso in una serie di intrichi e di raggiri, s'io avessi dovuto aver parte preponderante nella azienda. Poiché io comprendo l'Editore come una missione estetica e sociale, forse come un largo e ben inteso mecenatismo; li altri come un affare di commercio, compra-vendita. Sarà: ma l'ingegno e l'opera dell'ingegno sono ben diverse derrate del vino e del grano».

Antonio Fogazzaro, che odorava pericolo per lui, se la mia ostinazione letteraria avesse voluto insistere nell'azienda, trovò modo di elogiarmi insieme e di consigliarmi sottovia la definitiva rinuncia all'assunto, perché a lui maggior libertà riuscisse nell'allogare i suoi volumi: mi scrisse; e parmi farvi gustare un inedito di lui — oggi, che la curiosità è tutta all'intimoriscrivendovene le frasi:

Vicenza 29, 11, 97.

Egregio signore, ed amico,

La ringrazio della sua lettera onesta, cordiale e nobile.

Mi pare aver intuito, sin dal principio, che le cose dovevano stare com'Ella dice. Ella è della tempra degl'idealisti, e non di quella dei commercianti. Io non Le posso dare che un consiglio molto generico. Non cerchi di far valere nell'azienda le sue opinioni artistiche, si guardi dall'avventurarvi nuovi denari, nell'assumere nuovi obblighi; e quando avrà potuto venire al coperto del suo credito si ritiri. Un galantuomo, che ha denari molti e poca attitudine al commercio, se si mette in una società commerciale, corre pericoli quasi sicuri; anche se i suoi soci posseggono quella dose di onestà corrente che basta per non avere una cattiva riputazione. Adesso, non alludo ai soci suoi, che avranno un'onestà d'oro! parlo in genere. Le raccomando la registrazione del contratto, e La prego di credermi suo

A. Fogazzaro.

Il consiglio veniva a rinfrancarmi nella presa determinazione: ancora una volta ringrazierò chi me lo porse: il quale provandomi aveva fatto l'utile suo.

Vicenza 10, 1, 98.

Egregio Avvocato,

La sua uscita dalla Casa editrice che ha i miei lavori mi duole assai dal punto di vista mio. Me ne compiaccio, invece, per Lei; e sono contento di sentire piú forte in me questa compiacenza buona che non il rammarico egoista. , Ella ha fatto bene e La felicito. Grazie delle gentili profferte; grazie per l'accoglienza fatta al mio raccomandato. Stia sano e lieto. In settembre, sarà Ella nella sua villa sopra Menaggio? Io sarò, spero, a Oriago. Allora ci scambieremo almeno una visita. Di cuore suo

A. Fogazzaro.

Non ci vedemmo piú. Avendogli io mandato, qualche anno di poi, la Prima Ora della Academia, seppi da malevoli, che l'aveva messa tra il rifiuto della sua biblioteca, tra i libri cioè che un suo Indice sbrigativo o personale infliggeva alle opere non ortodosse al suo intendimento. L'anno scorso gli inviai, perché tenesse compagnia alla sorella, Revolverate: ora, si troveranno nella casa vicentina a raccontarsi i casi rivoluzionarii del loro comune genitore, tra li apparecchi del funebre ufficiale e senatorio di magnifica pompa cattolica-costituzionale.

Perché, questo senatore Antonio Fogazzaro, il Don Murri de' romanzatori, fu estraneo al popolo e divenne l'academico della plebe letterata; perciò, fu esclusivamente costituzionale e monarchico; ne ebbe tutti li onori e le cariche possibili in questa democrazia incoronata: e, tanto piú gli ne pervenne, in quanto, piaggiando il padre Tosti, che tornò in convento, benedettino, a morirvi di glorioso rimorso, avendo tentato di ricongiungere Quirinale e Vaticano, egli sfrondeggiò sulla religione, ma si inradicò nello Stato.

Antonio Fogazzaro rimane stipite medioevale, in città guelfa, in assetto comunale clericalissimo: si presuppose perciò capace di uno scisma, non alla Arnaldo, non alla Savonarola, ma in continuazione di questi e del Sarpi, con vaga motivazione academica intermessa tra Calvino e Tirrel. Ora, il solo concepire discussioni teologiche, quando zirla per l'aria il monoplano Blériot alla conquista delle stelle, è tale inescusabile anacronismo che solo in Italia può illustrarsi col massimo ufficio legislativo.

Antonio Fogazzaro fu oltre la vita moderna, ai confini della ascetica, come D'Annunzio, ai confini della lussuria. Ambo sono rappresentativi di una effimera minoranza di aficionados: a loro accorrono li specialisti unilaterali, i dilettanti oziosi e disturbatori: ambo non seppero parlare in totalità, perché sentirono solamente od i loro apriorismi o le loro egoistiche necessità.

Cosí, l'uno fu tradito dal raziocinare per sottigliezze, che gli fece la logica illogica; l'altro dall'iperemia sessuale, che gli trasformò l'amore in una alchimia; ambo divennero delli alessandrini; e la retorica, che male suade sempre all'inverosimiglianza per cercar d'essere piú vera, li acconciò sopra il ventre d'Italia in fermento. Li accolsero Giolitti e Luzzatti; li stranieri coll'ammirarli ci compatiscono; noi coll'onorarli ci giudichiamo. Torno a ripetere: il popolo deserta l'equivoco ed i volteggiatori del distinguo.

La gloria si posa inlaurata sopra coloro che dissero se stessi col mondo loro contemporaneo, che soffrirono, sentirono, cantarono, predissero gioie e miserie presenti ed avvenire, su coloro, senza di cui, è vuoto nella Nazione e la Nazione deve formulare nel suo grembo perché sono il suo portavoce. Cosí, il Walt Whitman; cosí lo Swinburne; cosí Victor Hugo; cosí, Heine; cosí, Foscolo; cosí, Giosuè Carducci e Carlo Dossi. Se la Nazione crede di poterli ignorare, le necessità della vita fisiologica e morale glieli riportano davanti, mezzo secolo dopo la loro morte; ma questo oblio è sicurezza di sempiternità.

L'autore di Leila non è tra questi, né meno la sua forma, il suo stile, lo preserverà dal súbito ecclisse: i suoi ammiratori vengano tosto alla colletta per la sua statua; domani sarà la domanda loro senza risposta. Comparate la vita eroica di Zola — il pornografo cosí detto — a questa borghese del castigatissimo Fogazzaro! Bisogna vivere; suadere alla bellezza dell'istinto, come alla magnificenza della idea; vivere e risentire la vita organica ed intellettuale con timbro nostro moderno, per cantarla e riplasmarla in poesia ed in azione stabili e possenti; bisogna comprendere, che la carità religiosa vuol chiamarsi diritto all'equità, e, che, al regno dei cieli rovinato in polvere, tra le menzogne, si sostituisce, in terra, l'imperio della fratellanza, dell'armonia umana, della divina coscienza collettiva: perché l'Uomo, dopo aver espresso Dio, dalla sua paura, ha terminato per comprendere, che il Dio è Se stesso, demiurgo di centomila, diverse, e transitorie divinità.

[Breglia, l'8 di marzo. In «Il Resto del Carlino - La Patria», a. XXVII, n. 72, 8 marzo 1911.]


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