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Ora, mentre il maggior trespolo della pagliacceria nostrana è sede vacante avendolo deserto un D'Annunzio, a Parigi, in busca di quattrini e di applausi, da che un Rostand ne ha là trovati a staja e val meno di lui, sorgono, e si additano, e si protestano le loro minori virtú, che l'astro lontano fa piú chiare — poiché, a notte illune, anche le lucciole rischiarono — i meno favoriti Seid, li altri Vice di nome e di attitudine.
Tra i quali, io, l'altro giorno, ho noverato, promosso all'onore della inserzione sopra il massimo de' giornali editoriali d'Italia, il «Corriere della Sera», anche un Sem Benelli: verso cui la mia stima andava volentieri, esso in modesta oscurità; contro cui la mia critica non tace, dopo i successi ben accomodati delle ribalte e quel suo fare, tra lo schivo ed il supponente, assunto di fresco, già che il poeta trovasi padrone e signore di villa San Terenzio, e la subita fortuna mi presagisce, non solo fama incerta, ma gloria nulla.
E San Terenzio, che risponde a Porto Venere, illustrato dal suo golfo tirrenico e mitologico, tragico di morti e sonante di epopee, richiese pure da Shelley la magnificenza del suo naufragio, da Byron e dall'anarchico figlio di famiglia inglese, Trelawnay stipe ed olio e sale, al rogo, per quello; da Wagner l'aureo e fiammeo scoscendere delle fiamme e dell'oro melodico del Reno; da Carducci l'impeto ghibellino e la pietà per l'agonia del suo caro Severino Ferrari; dal geniale antropologo, che seppe temperare la necessaria crudeltà della scienza, la disincantevole e catastrofica predizione clinica, alle grazie dell'arte della parola — da Paolo Mantegazza — l'ultimo respiro.
E San Terenzio richiese, colla voce di un comitato, che vuol erigere a specchio del mare un ricordo a Wagner, un inno all'ultimo occupatore del trespolo forse che sí forse che no deserto ed oggi vacante; d'ond'egli, interrogato il cielo, le onde, la notte, Regia Parnassi e Laus Vitae, uno se ne svelse dai precordii, quasi futurista, con intenzione classica, con garbo moderno, con ali d'Icaro impeciate, monoplano a motore ridotto e pericolante, perché andasse pel cielo, radendo coll'elica il mare, carezza alla notte, in ritmo di Regia Parnassi, colle future probabilità specifiche di Laus Vitae, veramente ispirato dai piú che sí timorosi precordi se piú che no dovesse accostarsi al modo del suo antico amico F. T. Marinetti, o bighellonarsi in esazioni piú facili, col taglieggiare, con veste di Vincenzo Monti, la trucolenza inglesemente latina di uno Swinburne, riletto sulle traduzioni francesi, che vende lo Stock a Parigi.
Comunque, poiché il tema era: Notte sul golfo dei Poeti, il poeta si trovò obbligato a disturbar la Luna: il motivo era inedito:
Abbacinata luna,
moderatrice della zitta notte,
tu che stai, qui, sospesa
sopra il golfo di latte,
da cui porti l'amante d'ogni amore,
rianimami il cuore
col dirmi di sua vita, oltre la vita.
tanto inedito, che il piú piccolo pericolo in cui avrebbe potuto incorrere sarebbe stato d'imbattersi, faccia a faccia, coll'inverosimiglianza. Dall'inverosimiglianza nascono lo scettico dubio e la saporita beffa, armi impuni superiori alla repressione di cui dispongono le leggi e l'opinione; armi che attestano la cordiale dilatazione alle risa di una critica, che vuol essere qualche cosa di piú di un riempitivo nei diversi generi della letteratura. Se ne prevale l'humorismo coi giornaletti ad hoc stampati: eccovi, perciò, il «Guerin Meschino», che porta ancora ad insegna il grottesco cavaliere catafratto, disegnato da Tranquillo Cremona e da Carlo Dossi sino dal lontano 1881, a declamare:
O scapigliata
luna,
nuda luna di carne,
anzi, di carne e d'ossa,
messi a bollire in un golfo di latte,
rianimami tu,
moderatrice, anzi, conservatrice
di questa zitta notte.
Voglio scrivere un'ode
colle mani e coi piedi.
Il meglio è che veniva scritta senza tanto funambulismo, col solito sistema, mentre, cioè come si usa, e mano destra e penna e carta e inchiostro e calamaio.
Or, dunque, quando il piú quotato Vice e Seid occupa l'interregno di Poesia italiana, sedendosi sul trespolo, luogotenente generale delle lettere e dei poemi dramatici in questo modo, e non dissimilmente fa l'ultimo caporale appena promosso a sergentino — come a dire: Guido Gozzano — or, dunque, quando mi si viene a vendere margarina per burro, parole per idee, e mi si mostra cerussa e belletto per epidermide, falso topé posticcio per capigliatura, occhio di vetro, per occhio che vede, stoppa fradicia di spirito di vino per cervello ed un orologino — si carica ogni quindici giorni — per cuore (donde la mecanica di sentimenti e la virtuosa digitabilità dei versi); or, dunque, quando, io, credendo di affrontarmi a persone, a caratteri, a concetti mi sento impicciato tra ombre, maschere false, frati graveolenti; ecco, che volgo subito le spalle alle fantasime, svio sentiero, mi metto tra i campi, galoppo sull'erba fresca, salto ostacoli e siepi verdi, torno in campagna, vado in provincia, mi compiaccio dell'umile sagrato, invece della piazza del Campidoglio eleggo la bosinada all'ode, sto col dialetto sincero; rifiuto la lingua preziosa, togata, sapiente. Codesta non è unicamente la mia ultima opinione personale. Si sente il bisogno della sincerità, anche a costo dell'incorrettezza, della lealtà, anche condita di franchezza inurbana. Non piú cincischii, non piú ricchezze d'apparato, fronzoli, falpalà, frangie, lavorini posticci, parrucche finte, piú finti occhiali, studiate smorfie e grinte e sorrisi e raggricciamenti di labra e strizzatine di palpebre, ed attucci a reprimere, a prevenire e tutto il lenocinio, che precede, accompagna, segue la parola, il filo, l'intenzione del discorso!
Vogliamo trovarci davanti a gente viva, che rida, che pianga, che disperi, che gioisca, che farnetichi, impazzi, s'incieli, s'indii, bestemi; come deve fare un uomo d'oggi in terra nostra, colle nostre tare sociali, morali e di nascita; vogliamo essere rappresentati. La grande letteratura, la cosí-detta grande non ci rappresenta piú!
Giova allora che una rivista milanese, e che parrà a molti clandestina, «Il Bacio» bandisca un concorso di poesia dialettale, posta al vincitore mille lire; giova, che, dalle miserie della decadenza festajuola di Piedigrotta, si risollevi la canzone napoletana, e che la bosinada milanese riacquisti timbro e potestà satirica protetta da Carlo Porta. Qui, stiamo colle maschere vere, che, simboli, tipi e miti, erotti dalla coscienza popolare, la riassumono e determinano la sua energia. Ripullolerà la Comedia d'Arte? Sarà dato all'attore facoltà di improvvisazione, di fiorettature, di variare, sul concetto, l'estemporaneità? È ancora tempo, che, in piazza, la satira veniva parlata dal Meneghino Moncalvo, che faceva recitar le sue teste di legno dal '48 al '59, in Milano, custodito dalla benemerita salvaguardia dei due pollin, incappellati di impiumati sciabò d'austriaci dindi; convien pure, che, questo Meneghino di stoppa e di filo di ferro, impari da Gustavo Modena, applauditore frenetico del Moncalvo, il gesto alfieriano. Ed a me, postremo Demiurgo di Maschere, sarà dato forse costituire con questi, dedicati ai bimbi del domani, altri nuovi Drami di piú insolita prosodia e di piú personale vernacolo.
Per intanto può dirvi il filologo: «Vedete; i dialetti sono, al giorno d'oggi, in sul morire. Come, verso la metà del secolo scorso, le diverse signorie italiche venivano, o per armi vittoriose, o per interne rivoluzioni, o per necessità storiche, riassorbite in una nazione sola, cosí accadrà pure delle espressioni vernacole speciali che individualizzano le diverse provincie. Tutta l'Italia, dall'Alpi al Lilibeo, tutta sia di lingua italiana. Oggi, noi dobbiamo parlare ortogonicamente: il nostro pensiero genovese, piemontese, lombardo, romagnolo, veneto, toscano, romano, napoletano, siciliano si deve mascherare sotto la palandrana della Crusca: senza Fanfani e Rigutini non vi è salvezza! Credete a noi; ed a Sperone Speroni: ci ha scritto: «La favella è comune a donne ad uomini di ogni etade e condizione; la scrittura è propria del cittadino. La favella è natura ed usanza nostra; però i servi e le balie ne sono maestri. La scrittura è bell'arte la quale insegnano i letterati!».
Non date ascolto ai filologhi: essi trattano la letteratura come un cadavere alla notomia: essa è viva, si agita, cammina, corre, assume tutte le positure, li atteggiamenti che il secolo le impone, che li uomini le obbligano, che la Nazione comanda: tanto è vero che Dante sino da quel tempo de eloquio condendo, fenomenalista principe, ne vedeva e ne consacrava l'evoluzione: «Alla lingua generale è tanto difficile dar regola ch'io lo stimo impossibile!». Qui vengono a ribatterlo i filologhi, che sono li imperialisti del dizionario, alla verbigrazia, Buommattei!
Ben cresce la lingua nazionale sui dialetti e se ne avvantaggia. È, dal serbatojo di energie sempre riburattate ed in corrente attiva e popolare, che le cose, i fenomeni nuovi, le scoperte avvicendatesi trovano il loro vocabolario; è dal puro vernacolo che l'idea novissima prende il nome; ed è questo sacrosanto idiotismo che forma la parola aurea classica. Il laboratorio naturale del sermone patrio si trova nel dialetto; come il popolo è il semenzaio d'ogni virtú, in germe, nell'avvenire della Nazione.
Accentramento, cumulo di uffici e di attribuzioni, non prevalgono al fomento naturale e distinto della nativa sincerità dialettale: nel gabinetto dello scrittore togato non si aumenta il vocabolario, se il letterato non scende in piazza a raccogliere coi cocci ed i frusti della giornata, alla sera, anche i diamanti della lealtà glottologica plebea. La Nazione deve vivere per le Provincie; là dove il rispetto de' caratteri provinciali si fonde col riconoscimento della unità d'origine e di meta, là è reggimento di libertà; di questa libertà, che è raggiunta soltanto in federazione, in cui le parti vengono alla totalità senza nulla perdere, in cui le uguaglianze sono dimostrate dalle equivalenze, non dalle false ed imposte identità. Oggi, che fremita nell'aria un venticello di fronda nazionalista, è bello invece accampare, non una separazione, ma un fresco e geniale decentrarsi. Il dialetto è profondo e sottile mezzo d'arte, come la lingua. Rileggiamo Porta, verso cui si inchinò Ugo Foscolo, chiamandolo l'Omero del Giovannin Bongee; ed il Belli e Brofferio: non sono stipiti di saporitissima italianità; non sono poeti universali per quanto e milanese e romanesco e piemontese?
Il Giusti ha ben appreso da costoro la satira italiana, che qualche volta è, in lui, appena fiorentina.
Tali ed altre piú sono le lodi ch'io vorrei cantare alla poesia dialettale e desidererei che risorgesse con maggior impeto ed efficacia; né mi sembra che se ne possa disperare. Pascarella pittore d'asini e di rose diede fondo all'epica; Trilussa alla favolistica; Federico Russo, Roberto Bracco, Antonino Alonge aggiungono, alla romanticheria delle notti napoletane e sorrentine, qualche volta, l'ultimo profumo venuto loro da Parigi, spesso la autoctona ed infuocata tragedia meridionale; grosso e malizioso il vostro Alfredo Testoni vi plasma de' tipi di tutto sapore comune e squisitissimo e voi non sapete che trascegliere tra il mobile Sgnera Cattereina o la corrente automobile; Barbarani intona le mestizie venete, le sentimentalità appassionate, lagrime, singhiozzi e sorrisi; il Crespi, milanese, fa da luna al sole di Carlo Porta e ne conserva le memorie ed i cimelii nelle sale del Castello Sforzesco; Frico il comasco... di lui vedremo altra volta. In somma, vivono, li sentiamo, si determinano; provinciali, si espandono fuori dalli stretti confini della loro regione, rivelano le loro caratteristiche di arguzia, di sentimento di humorismo, la nobiltà nativa di fierezza e di finezza e sono tutti italiani. Mentre, con toga, pretesta, lauro e coturno accampa la sua regale maestà, seminuda, la Musa gabriellina all'angolo di ogni quadrivio infestato dalla frequenza cosmopolita e si vende, ed accatta nel rendersi lue e morbo internazionali; ammirate la bella dignità di queste popolane senza cappello piumato, senza frangie, in fisciú e zoccoletti.
Qui la nostra grazia fiera e modesta, la nostra sana bellezza; baciate quelle turgide gote vermiglie, fatevi baciare da quelle labra coralline; non ci avveleneranno: e che sapore di gelsomini e di violette di casa nostra! Zitti il filologo moralista può soggiungere: «E di fieno, quando non di fimo!».
[In «Il Resto del Carlino - La Patria», a. XXVII, n. 98, 3 aprile 1911.]