Gian Pietro Lucini
Scritti critici

LO SPECCHIO DELLE ROSE

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LO SPECCHIO DELLE ROSE3

L'artefice ha costrutto una vasca di fontana. Perché meglio risplenda ai soli orientali, egli ha scelto il lucido alabastro tenero e rosato come un seno di vergine, percorso sinuosamente (tenui fiumi descritti a meandri bizzarri) da vene intense di croco. La conca della fontana polita, in alto di una scalea, si arrotonda e si apre concavamente, come una valva di conchiglia: anzi, all'incendi celesti del tramonto, se il sole vi batta, vedi colorarsi di rosei calmi e pudichi il marmo, quasi che il sangue dentro profluesse ad animare.

Amò l'artefice ornar la vasca di mille e preziosi disegni. Seppe spiegare la teoria delle processioni greche, seppe l'incanto dei mosaici antichi sul fondo d'oro, dietro agli aspetti, ora dolci, ora severi, ora cortesi, ora lascivi, delle dame e dei baroni. Cosí, in qualunque tempo vorrai accostarti alla fontana e saprai leggere nei grafiti e nei rilievi, potrai anche sapere una parte mirabile della storia passata, il mito delle religioni, il sentimento d'amore ed il desiderio che vigila, facella feminile e mobile, nelle coscienze erotiche.

Il giuoco dell'acqua canta e scintilla dai canaletti: una dolce e lamentevole voce hanno accolto l'acque, ma alcune volte, nei giorni perfettamente sereni, gorgogliando, ridono. Nella vasca navigano dei cigni; dentro dondolano i cuori verdi e malinconici delle ninfee. A torno si specchiano, dai cupi rosai, spessi e muffosi, le bocche assetate e troppo rosse delle rose; onde la vasca e il laghetto che rinserrano chiamansi Lo Specchio delle Rose.

Ma l'artefice imaginò tutto questo; l'entusiasmo cordiale delle parole lo ingannò al segno ch'egli ha creduto di aver plasmato materialmente le cose, mentre non s'accorse, che i fumi e le nebbie della sua incensa ideazione avevano preso quelle forme, comandate dalla sua volontà; poi che la natura ostile rifiutava di piegarsi all'esorcismo taumaturgo di quel volere. E non s'accorse che se anche avesse da vero costruita la fontana e derivata dalla vergine fonte sorgiva l'acqua destinatale alla vita, non avrebbe mai potuto trovare l'ombroso giardino dalla scalea di marmo e dai cipressi centenari per erigerla qui ad ornamento.

Le erme, i simulacri delle divinità, il bel palazzo dei sogni, le imagini fluttuanti nei veli e nei riflessi delle lastre equoree, i ridotti silenziosi, le cortesie delle mani inanellate nelle mani maschili, le voci di benedizione e d'amore i baci casti le foghe degli abbracci vermigli, dove, dove realmente? Il parco era anch'esso un fulgido apparire ed una fresca oasi di pensiero, nella quale l'artefice credeva di essere di fatto; ma alla quale la necessità della vita aveva sostituito l'orto fruttifero e suburbano, grasso di vegetali ignobili, ma necessari, largo di foglie di cavoli e di rape, con cura e selezione sapiente, educate. E ciò piú che stupiva ed addolorava ad un tempo era questo: che a pochissimi guardinghi, avari ed invidiosi era dato di passeggiar per gli angusti vialetti contenuti dai cardi pungenti; che nessuno di costoro, se per avventura avesse trovato un fiore, si sarebbe inchinato ad odorarlo; che tutti tendevano le mani e gli sguardi cupidi, osservandosi ed assicurandosi a vicenda delle azioni del compagno, verso un albero frondoso, che lasciava brillare, nell'intenso scarlatto, un pomo d'aspetto insolito, al sole.

Cosí aguzzini l'uno dell'altro non s'accorgevano, che intorno all'orto ignobile una folla macilenta di pitocchi s'avvicinava, gettando grida.

Tale il parco ideale tramutato in ortaglia dagli uomini positivi; cosí mi apparve pure l'opera di nebbia una squisitissima concezione egoista; e dei comuni nessuno la seppe, e, se tra gli intellettuali molti ammirarono, non ne conobbero il fondamento e lo scopo, intenti com'erano ad assistere al circuirsi lento e fatale dell'orto proficuo.

Ecco Lo Specchio delle Rose. L'autore giovane, tranquillo asceta per la bellezza, cercò dallo stile classico derivare le pose aggraziate, molli e turgide: anima paganamente verginale, a quando a quando, volle lasciarsi corrompere (oh dolce corruzione) dal lievito cristiano e dalle idealità del trecento. Le voci de la casa, il trionfo d'amore, le canzoni e il rondò, dalla vena cavalleresca dei trovatori discesero a lui, cristallini, fragranti, ignari della vita nostra, come il poeta stesso non voleva saperla.

Critico di poesia artificiale, passò lunghe ore l'artefice a passeggiare ammirando: anche l'ammirazione non era eccessiva, perché bellissime erano le cose che afferrava compiacendosi l'occhio: o meglio sui pendii ad arte sommossi sotto all'ombrelli dei pini italici, vicino ai sorrisi delle Lede ed ai giuochi dei Fauni, dolcemente si sdraiò a pensare. Ma ora nel rifugio che si era costruito, se nessuna cura esteriore lo interrompe, nessuna passione lo fuorvia, nessun altro desiderio lo tormenti, può chiamarsi egoisticamente felice. Egli ha per lui una splendida casa; per noi un'opera vuota; che a simiglianza di quelle bolle di sapone, espresse dal capriccio del fiato fanciullesco, riflettono e cielo, ed alberi, e palazzi, cui lo stesso fiato del bambino distrugge, come voglia.

Giudizio severo, lo so; s'io mi riguardo non dovrei cosí fare; tanto la giovinezza del poeta e i miei stessi peccati dovrebbero scusarlo. Ma io pure mi condanno. Quante delle mie cose debbo rifiutare, quante delle cose che vivono ho rifiutato insanemente; come voglio amare le cose vive e tralasciare le nebbie! Poi che la vita è di lezione di sacrificio, non immobilità epicurea di grazie e d'armonie soavi, accolte nelle penombre forestali, vicino alla fontana meravigliosa, che canta nell'acque classiche la palinodia. Viva e frema e combatta la vita dell'arte, e, se non vede queste sciagure da torno che mi avvelenano il cuore ferito e che mi intorbidano la mente, non costruisca almeno la Tempe azzurra e profumata dei nuovi Titiri; abbia pietà della nostra miseria e taccia lagrimando come ad un funerale. La vita nel poema vibri e si ribelli.

Cosí l'amico molto ha fatto e bene; sacerdote della placidità classica, se non ha saputo materiare il fatto ideale nel bronzo e nel marmo, ha costruito delle semplici e sincere statue di una candida creta. E questo giardino, e questa fontana e le Erme, e i vasi sui viali, dentro ai boschetti, ai margini dei laghi, sieno sua gioia e nostro fuggevole godimento. Oh si potesse, anche nel sogno, ritornar sempre all'incanti delle favole che non hanno morale, belle perché belle, alle subdole domande dei simboli ingemmati e lucidi, perché d'oro, ma che non proferiscono con l'enigma, la chiave di questo, ond'egli rimane privo di senso!

Ma pur troppo l'orto fruttifero e suburbano, che si ingrassa a meraviglia colle deiezioni copiose della città, e che raccoglie le vegetali leccornie e le necessità dell'esistenza, è passeggiata vespertina dei pochi che si sorvegliano mutuamente, astiosi: pur troppo questi pochi si cibano di quelle ricchezze frugifere e distruggono il superfluo, perché nessuno oltre se ne pasca; anzi, a non essere mai sturbati hanno assiepato di rovi. Riposo? Oltre all'impaccio pungente, spingendosi, urlando, coll'occhi di febbre e le mani impazienti, la folla, tutti quelli a cui non è dato passeggiar nell'orto e ad assaggiarne i frutti si sono stretti, minacciano, venuti da lontano per questo.

Di questi gridi ho intesa la profonda, dolorosa significazione, che per molto tempo non potrà piú comprendere la dolcezza dell'eptacordo dorico suonante sotto una mano candida e maestra, la melodia di pura bellezza: in questo punto della mia vita non posso commuovermi alle note dell'arpa, ma debbo fremere, ed incitarmi allo squillo delle fanfare.

[In «Il Secolo XX», 31 luglio 1898.]





3 Giuseppe Lipparini, Lo Specchio delle Rose, Zanichelli, Bologna, 1898.



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