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Per un astruso ritentar d'arte, seguendo sottili trame musicali ed antichi metodi rinnovellati per la sua personalità, Emilio Almaura persegue un sogno estetico e lirico. La fatica del cervello, la incontentabilità dell'autore, la irritazione d'aver per sé compreso a fondo, ma di non poter fuori spiegarsi a fatto, lo conducono, grado a grado, ad una morbosa sovra eccitazione. Il poema musicale si sforma, non risponde alla vita, meglio non dà né la vita né l'orgasmo da cui si concepisce. Le squisitezze infeconde del ritmo, l'anormalità sistematica della esposizione, lo sforzo indicano che il getto puro, incondizionato e cordiale della melodia e della idea armonica si isterilisce e manca affatto. Sogno svanito. Quest'arte ancora Sfinge, sempre Chimera dovrà dunque divorarlo, o perderlo nelle nebbie di una indefinita maestà che si ricongiunge al nulla? L'Arte amante l'ha tradito.
E, d'in torno all'Almaura, sopra alla decadenza che si sdraia, cieca e sorda della vita, delle sofferenze e dell'amore per la vita, la quale si rinnovella e si espande, crudele e buona, ma sempre munificente; questa decadenza s'abbandona negativamente sulle piume nere dell'egoismo e dello scetticismo pontificato dallo snobismo di moda: pure di tratto in tratto anche soffia un vento di pazzia per l'intentato, per lo sconosciuto. L'estrema razza ha perduto il vigore delle nobili inspirazioni: nell'ipseismo di Nietzsche, nella negazione d'Hartmann, nella mistica religione del nihilismo, le migliori intelligenze si illanguidiscono, si distruggono. Il rapporto tra verità e rappresentazione di questa, la sincerità ed il sentimento, la collettività e l'individuo si sformano, si fanno abnormi, si eretizzano: i Mostri, da qui, stanno per nascere, Leviatan od Antecristo, ma l'aspettazione della finalità cruenta si intensifica ed approssima la fine desiderata e temuta.
Poi, l'eretismo mobile della passione per un piacere, per un capriccio, per una perversità trova il suo campo aperto e largo nella vita, ora oziosa, ora troppo affaccendata, delli artisti lirici. Sono delle brevi e fugaci apparizioni di etere fulve e di turbanti verginità dubie; ed il moto senza regola di una corsa pazza alla voluttà, tra i concettini, le indiscrezioni pimentate, l'esposizioni velate di forme feminili si ricongiunge alla nevrosi collettiva ed affoca il pensiero d'un entusiasmo falso galvanizzando un'arte che non ha rispondenze.
Ecco adunque Alfredo Sandri, cui l'etisia distrugge, ingannandolo d'effimeri impeti, nelli idillii funerei che il morbo gli suggerisce e la nervosità gli fa produrre; Valerio Fabri, il ricchissimo, che prepara detonanti in un palazzo meraviglioso, nel quale delle bocche sensuali e fredde cantano il lied delle Figlie del Reno (tre bianche nihiliste le raffigurano) e sulle mura delle sale risplendono arazzi ed affreschi preraffaelliti; ed è Alberto d'Osio irrequieto; Luciani, che, d'una sua tragedia «Seneca», spinge al suicidio il Vulpius, che attendeva a musicarla; Leo Savelli, dubbia figura di giornalista mantenuto; Clemenzi, l'ubriaco cronico d'assenzio e ladro.
Le scene s'avvicendano sulle tavole liriche e nei cenacoli: la strana società si ammala di dubio e volge ad un ipseismo sovrano d'edonisti squilibrati: come ritrovare qui e la propria personalità ed il sapersi guidare, distinguere, raffrenarsi, conoscersi?
Solo Silvia, di tutti i morenti, di tutti i voluttuosi solitarii, di tutti i pazzi morali, verso a questa vacuità d'estetica e per questa scienza oscura e speciale, conserva intiera la propria essenza; è la rossa ed ardente nota della vita, forse troppo violenta nel sacrificio, voluto, lucido; forse troppo passionale, ad intenzione, per raffigurare, come vuole l'autore, un concetto animico e simbolico; a punto la Vita. Essa, in una notte, in cui l'atmosfera incombe pesante e soffoca e toglie al cervello la facoltà della cogitazione, quando l'estrema crisi vibra e scoppia in un atto violento d'intenzione mortale, e l'Almaura avvilito, stanco di sé, della inutilità della vita, schernito dall'arte beffarda, impotente ad ascendere dolorando il calvario delle sommità ideali, si concede alla nera poesia del suicidio; Silvia, è per lui la salvezza. Gioventú, forza, grazia profuse nel dono, dono imperiale della sua carne, suggellano l'amore ed il desiderio e della verginità completano il sacrifizio. Redenzione, trionfo dell'atto sopra il sogno, della vita sopra la Chimera, Sfinge ingorda d'anime, gelosa di pazzie: Silvia «la Salvezza».
Morale: Ecco come trapassano invanamente le brevi ore nel deserto del sogno. Ora, non vogliate suscitarvi da torno questo mondo di morti. Vivere significa agire: contro alla morte sta l'azione: il sogno partecipa della morte, velo di nebbia espresso dai paesi di nebbia per ingannare i paesi del sole. Vivere significa operare, amare, soffrire, produrre in fine. Il sogno è quanto suscita quest'arte moderna: voi non vivete adunque, Artisti, perché non operate secondo natura e vi allontanate da natura.
Criticamente parlando, certo nessuno meglio di Guglielmo Anastasi ci avrebbe potuto dare l'ambiente lirico del teatro e le notazioni delle persone che vi agiscono, perché, prima buon commediografo, dopo eccellente tenore per elezione, ha avuto campo di studiare e di ritrarre dal vero quelle scene. Onde, la prima che apre il volume si rivela di una sobrietà ed insieme di una evidenza non comune. Ma come fu felice in questo, non lo è nella scelta o meglio nella esagerazione voluta de' personaggi del mondo letterario. Se la scena, come sembra, si svolge a Milano, un milanese che riconosce nelle descrizioni del volume il suo paesaggio cittadino, le vie sue, nelle diverse differenziazioni dell'ore, non potrebbe però ravvisare nei critici, nei poeti, nei musicisti dei tipi veramente milanesi. Codesti sono una perfetta astrazione: forse, di tali curiose e coraggiose mostruosità si possono incontrare vive a Parigi non mai qui da noi. Cosí che vicino alla realtà dello sfondo e di alcuni avvenimenti, quando appaiono queste enormi ed ibride creature, il lettore rimane d'un tratto come portato per un'altra strada, verso una speciosa e speciale certificazione della tesi cui l'autore voleva provare. Quindi, (non ch'io dia biasimo, anzi tutto il mio concetto letterario sta perché ne dia lode) ecco delle teoriche impersonalità e da qui alla attestazione di un personaggio simbolico è breve il passo. Questo è il metodo che materiò in Salvezza Silvia; la quale appunto, perché esotericamente voleva manifestare un principio astratto ossia morale e si rese la prosopopea della vita, ma rimase, in ostacolo alla passione umana, ed all'amore del sacrificio, una creatura rigida, e, personificando la vita fu senza vita.
Anche chi volesse discutere intorno alla utilità della tesi per vederne la necessità troverebbe molto da dire. Se in apparenza Silvia e l'Almaura, uniti nella stretta d'amore, indicano un futuro concepimento e chiudono l'azione romantica con una attività positiva e passionale, invece nella vera sostanza del libro, questo si chiude con una nota negativa. Nega cioè la vita intellettuale; che è in fine l'esistenza dell'artista? La cerebrazione della sensazione. Senza l'elemento mentale o riflessivo, che distingue, analizza e raggruppa i fatti comuni e transitorii, e di questi si sente le modificazioni speciali, cui la squisitezza del suo temperamento largamente gli concede; senza questa naturale riflessione, non è arte. Arte che parte da un concreto, contiene il lievito del sogno; e chi mi assicura che il sogno non sia un antivedere? Se allora, semplicemente, per la praticità ed il commodo della esistenza, si dovessero abbandonare tutti li elementi che ci allontanano dalla materia e ci avvicinano alla idea, che è forza, perché tutto una grigia uniformità si stenda a coprire intelligenza e gesti, a che varrebbe l'arte? La funzione iniziale e null'altro, quanto esorbita e ci porta oltre e verso le grandezze, efficenze pazze; vita da bruti, la sintesi e la pratica desiderata.
Certo che l'Anastasi fu tradito dal proprio pensiero; voleva meglio significare, che la insufficienza moderna dell'artista, il quale può sentire, ma non può produrre, è causa delli abbattimenti e delle crisi dolorose che stagnano e perdurano nella società artistica e squilibrano collettivamente verso delle chimere irraggiungibili; ma d'altra parte doveva aggiungere che tutto questo piuttosto deriva dalla malattia di volontà, la quale si inasprisce, quando del lavoro non trova corrispondenza nella folla; corrispondenza inutile all'artista cosciente e volontario, che del proprio plauso si accontenta, sapendosi araldo dell'avvenire.
Contradictio in terminis, il bel lavoro dell'Anastasi è la miglior prova del rinnovamento romantico e letterario che i retori vogliono condannare e tener invano lontano. Combattendo quest'arte, l'Anastasi ha dovuto di necessità, perché artista, acconciarsi alle sue nuove formole ed alle sue nuove dizioni. Di ciò ne do lode; fors'egli credeva di essersi spersonato, egli invece è tutto dentro alle pagine, ma non combattivo verso la verità, se pure ossequiente alla realtà.
Da questa prova recente, aspetto l'autore ricreduto ed ottimista a favore della grandezza assoluta ed incontestata dell'arte; essa comunque sia, non inganna, ma preserva, assiste e redime; non vampiro ad isterilire, ma donna a concepire, non distruzione, ma creazione meglio e piú vitalmente delle viscere materne. Tutto si svolge e si perpetua dall'arte e nell'arte perché si ritrova d'essere la vita all'ultimo e miglior grado di se stessa.
L'amico Anastasi mi darà ragione fra poco.
[Milano, 10 novembre 1899. In «La Provincia di Como della domenica», a. V, n. 259, 10 dicembre 1899, pp. 393-394.]