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Una volta, racchiusa nei chiostri o nei gabinetti ermetici, tra fiale dubie e li alambicchi distillanti l'Elisir della vita perpetua, tra i pipistrelli impagliati e qualche gigante serpente, in orbite, sul suolo, a dormire, scendeva questa scienza fattucchiera e taumaturga a raccogliere i semplici ed i veleni vegetali, a luna nuova, o s'impuntava a scrivere le mirifiche virtú delle gemme preziose e dei minerali. Spesso, nei Sabba, fu visto a danzare, coll'hennin diabolico in capo, una ridda selvaggia, buffoneggiando col Maligno, il quale le sussurrava consigli; piú spesso ancora, veniva, mitrata di giallo, imposta sui roghi della Santa Inquisizione ed il suo olocausto procurava alla storia un argomento migliore contro Roma, ed all'avvenire, un lievito di libertà.
Quindi, sul bianco kiton greco, si foggiò una palla di scallatto, ricamata di fiori d'oro; e, laureata, portando in mano un caduceo ed un libro, passò tra le parrucche fluenti e la cipria dei codini.
Classica, fu troppo dignitosa e sdegnò il volgare per il latino aulico e chiesastico; frigida e caparbia s'arrestò, nella conquista del vero, fin là dove la convenzione delle menzogne del tempo le concedeva passo libero; ai piú entusiasti parve una maschera ed ai piú furbi una grave matrona da rispettare e da sfruttare sui capricci della sua opulenta maturità.
Ora, giovane assai seria, di un cotal poco affabile, sorridente, e, per quanto acuta nella vista, portando occhiali agli occhi chiari e limpidi, in abito nero, rigido, moda inglese, con parlare forbito e piano, non isdegna, anzi si compiace di passar per le vie. Ciascuno la può salutare ed intrattenere per domande e consigli; ciascuno la richiede sopra ai suoi casi. Ella, spiega, annota, raccoglie e va oltre. Qualche volta si interessa di alcune cose, in cui la pratica abituale della vita è dimenticata per l'eterna conversazione colla bellezza. Qui ristà curiosa e meditativa; compara l'arredi delle statue, delle tele, dei libri che ornano le sale, colle officine, il moto, il sudore producente del di fuori; sorride benignamente; vuol farsi persuasa di molte cose che le sfuggono o che non comprende a fondo; afferra il cervello dell'artista e del geniale, lo porta nel suo laboratorio e lo studia, notomizzandolo, come un braccio di un facchino o la gamba di un ciclista; si fa indagatrice importuna e tenace, ricerca paternità, stigmate ereditarie, fatti degenerativi, nozioni complesse: estrae, combina come nei secoli passati e scrive le sue formole.
Questa Vergine, seria e sicura, vestita di nero, che sorride assai spesso per compassione, mi dimenticava di dirvi, porta ancora alle dita alcuni anelli talismani, alcuni cerchietti d'oro propiziatori, alcuni sigilli in cammei che le ricordano e l'hennin e la mitra ed il lauro e la toga scarlatta; la fattuccheria ed il dogmatismo.
Cosí, noi che abborriamo la necrofilia, sia questa una critica d'arte, sia anche una lezione anatomica; noi che ci foggiamo sempre davanti una imagine per esprimere un concetto, perché l'imagine è sopratutto forma di vita e vita; abbiamo dianzi pensato e ci siamo personificati li avatars e le trasformazioni della Scienza, nei rapporti del tempo e delle necessità, per le quali venne, evoluendo, a perfezionarsi con noi e per noi, leggendo un nuovo volume del Lombroso: Nuovi studii sul Genio.
Dottissimo e paziente studio di antropologia svolge nelle sue pagine le tare del genio; segue alle ricerche dello scienziato, di fama ormai europea, instauratore di una disciplina nuova e vanto italiano, alli altri volumi: Genio e degenerazione ed Uomo di genio. Per quanto li anni si susseguino, per quanto li avversari lo abbiano combattuto, il Lombroso non piegò della sua dottrina. Ora, vinto in parte il misoneismo, acquietate le meraviglie e le ire delle prime battaglie, prosegue col suffragio dei dotti, colla clientela di chi si interessa, colla scuola dei suoi discepoli, l'Antonini, il Roncoroni, il Patrizi, il Leggiardi-Laura, il Baring tra gli stranieri ed il Max Nordau.
Antropologia; io vi confesserò che me ne intendo poco; da quando lasciai le panche universitarie e le visite dolorose ai manicomi, nei quali mi si spiegavano i fenomeni morbosi della psiche; da allora vagai per altri studi, se meno utili, piú dilettevoli; ma Antropologia mi indica studio di tutto l'uomo.
Ahimè! qui la scienza si è ristretta ed indica solamente studio della psiche squilibrata, che è parte dell'uomo.
Le massime che il Lombroso ha delucidato e che formano la sua tesi, portate al contatto delli studii sopra la mentalità dei geniali gli hanno confermato queste esperienze. Ricercando nella vita dei geni, nella forma complicata della loro coscienza, ritrovò, in sintesi, la tara della degenerazione.
È la degenerazione causa principalissima, fermento, fulcro ad una mente volgare per lo sviluppo della genialità. Donde, dalla degenerazione, l'epilessia od atavica o personale, la doppia personalità; la impulsività, la mancanza di affetti e di senso morale; la frequente nevrosi, le cefalee, le vertigini, la forma propulsiva del vagabondaggio, l'ottusità sensoria e quelli speciali caratteri grafologici propri delle forme inferiori, innestate sulla superficialità psichica del genio. Aggiungansi le paranoie.
Il genio è una involuzione; ripete, nella coscienza dell'uomo afflitto di questa malattia, le modalità ataviche delli antichissimi padri selvaggi o accumuna la personalità geniale a quella del delinquente. La tesi fu assai combattuta; stettero per il no, per il sí e per il forse; i cosidetti esteti si ribellarono e furono fierissimi contro le accuse, le quali rimpicciolivano il genio.
Io non me ne intendo: noto che natura maligna ed ironica ha accomunato al creatore di utilità e di bellezza, l'inferiorità dell'animale umano nei piú bassi gradini della vita vegetativa. Ghignando ha inquinato il dono mirifico di far della vita, di produrre delle gioje intense, di incitare l'universali verso il progresso, colla labe della pazzia; anzi, volle che sotto l'impulso pazzesco, quelle utilità, quel progresso, quella vita fossero concreti, mentre, a mente calma, a psiche sana non sarebbero mai stati rivelati. L'entusiasmo delle Pitie o delle Sibille, che prevedevano il futuro; il vaticinio del Fakiri è dunque della genialità; quando, nel delirio, assegnano un fatto futuro e certo in un tempo determinato?
Ben accolta questa degenerazione per i servigi alla collettività, se dalla palude densa dei mediocri e delli insufficenti esprime il dio umano. Costui sarà chi prevede, e, ribelle con leggi, decreti, contro la stessa natura, imprimerà il suggello di sé sopra ad una nuova utilità. L'abulia di questo volontario è una callida junctura; la scienza volle cosí; la legge del genio, se è vero, ne usa per incitare e comandare il greggie alto e basso che si lascia dirigere e piegare da una forza nevropatica e decadente.
Tal sia e rimanga, fiamma lucidissima dei successivi Prometei, pungolo, sferza sulle spalle troppo curve e troppo servili dei contemporanei, l'eccessiva ragione umana che incalza e suscita altre vite dalla materia amorfa, che rapisce altre forze dal tumulto compresso e regolato delle energie naturali.
Se genio è, comunque, una morfosi di pazzia, è il medico alienista colui che lo seguirà d'appresso.
Cristoforo Colombo è paranoico; estrae i materiali delle scoperte dal delirio, dall'ambiente, se ne acutizza l'ingegno; sopprime il misoneismo, vaticina coll'ispirazione paranoica il suo viaggio. La sua grafologia lo indica chiaro. Lo scienziato sostituisce, alla fede ed alla divinazione, l'auto-suggestione per la quale il Colombo, strumento della sua malattia, si mette a buscar el levante para el ponente, incontrandosi coll'isole americane.
Manzoni è epilettoide e patisce di follia circolare, quando, come ciascuno mortale, si lagna delle vicende della vita e si scoraggia nei casi nefasti che gli occorrono. Affermano la sua malattia le forme aforismatiche del suo discorso, la balbuzie iniziale, la agorafobia e la claustrofobia insieme, l'eredità morbosa, la paura e la descrizione delle paure ne' suoi Promessi Sposi, la precocità, l'alulia e la reazione cattolica della seconda metà della sua vita contro il voltairianismo della sua gioventú.
Swedenborg è un veggente rimbambito, dopo d'essere stato un ingegnere ed un naturalista di genio; Cardano inframmette, alle sue scoperte fisiche, la teurgia e la fole della alchimia; Pascal è un ereditario lipemaniaco; Guerrazzi è lipemaniaco ed epilettoide; l'inneffabile Verlaine un degenerato, a cranio idrocefalo, un uranista, un vagabondo ed un criminale.
Ahimè! ripeto ancora, tutti costoro sono dei malati. Dove è il genio? Il genio che appare cioè lucido, vivo, sano, suscitatore? E pure tutti costoro sono dei genii; è la formola lombrosiana errata a priori, che raggruppa i dati sotto quelle categorie, che meglio le servono alle succedenti dimostrazione, come le tavole statistiche, le quali compiacciono utilmente alla scienza ed al Governo con non so quale verità; ed è per certo il genio una psicosi degenerativa?
Io non me ne intendo. Col medesimo piacere intellettuale di prima continuo a leggere i Promessi Sposi; mi interesso al De Vita del Cardano; ristudio le Pensées del Pascal; ammiro Swedenborg nella sua pratica colle idee; fremo con Guerrazzí nella sua Beatrice Cenci, fatale come l'Edipo di Sofocle; declamo e canto le Fêtes Galantes di Verlaine; rileggo l'Inferno di Strindberg; mi commuovo colle Confessions di Rousseau; sto col Wagner e non mi curo se la scienza dica: tutti costoro sono dei degenerati.
Ho parecchio riso, anni sono, quando, gonfiata quasi allo scoppio la teoria del maestro, il Nordau venne fuori colla Degenerazione; e mi guardai a torno cercando chi tra li artisti presenti, passati e futuri avrebbe potuto salvarsi dal marchio del pazzo. Io non me ne intendo. La scienza del Lombroso è scienza vera e sincera: ma tutti da Colombo a Verlaine furono dei veri sinceri e profondi artisti. Scoprirono, crearono, dissero e plasmarono delle bellezze. Le due strade, quella della scienza e dell'arte procedono per l'avvenire infaticabilmente, ma parallele; giungeranno all'orbita di fuoco, ma non al medesimo punto della circonferenza.
Ed osservo, con alquanta amarezza. La scienza ha ridotto al nulla il Mito: ho applaudito e per mio conto rifabrico il Mito, perché è l'immanente ed eterna poesia della natura. La Scienza ha distrutto il Jehova ed il Cristo: sta bene: ogni religione non può essere imposta dal dogma gnostico e ciascuno è religioso per sé nei rapporti tra l'uomo ed il mondo. La scienza abbassa il principe e lo cancella: l'uomo sociale non ha bisogno di ubbidire ad un uomo per osservare la legge, che è norma di società. La Scienza inscrive il genio tra i pazzi e dubito di sottoscrivere alla sentenza.
Lasciateci ancora l'ultimo Eroe che la civiltà e la critica ci permettono; non raschiatemi delle tavole di marmo l'ultima nostra virtú, l'ultima e violenta nostra personalità, l'estrema differenziazione tra la mente ed il muscolo. Per quanto umanitario, accorgo da torno il greggie; per quanto democratico, stimo troppo il pensiero; per quanto uomo sociale amo troppo la libertà delle persone, perché concorra a sequestrare dalle tavole di marmo queste poche lettere grafite in oro. Comprendo che il socialismo tumultuoso ed egalitario possa avvantaggiare della teorica lombrosiana, ogni virtú riponendo ad ogni genio nella collettività, la quale è meno sana dell'individuo; comprendo che l'uno movente e guidante, scomparso dalla scienza, come entelekeja (vis agendi primitiva) i plurimi passionali ed inferiori divengano anche iconoclasti (lontani ricorsi dei barbari cristiani) ma io ritorno a leggere Li Eroi di Carlyle; esco dalle cripte che accolgono i cadaveri sezionati, dai gabinetti in cui si pesa il cervello o si alambicca la coscienza e si catalogono i sentimenti, e, libero respiro, in faccia al cielo ed ai prati, libero accolgo l'immensa poesia dal silenzio invernale e scando l'ultimo verso del poeta, testé testé letto, per quanto la scienza mi indichi: «Bada; è un degenerato è un anormale!».
Qu'importe! je dirai, vers Demain,
Selon quelles caresses elle me fut amante,
Et par quelles nuits murmurantes,
J'ai senti sur mon front l'enfance de ses mains.
L'uomo critico fu ed è di se stesso il carnefice. Distrutte le superstizioni, che gli erano una gioia di quiescenza, distrugge l'emotività, che è un piacere d'azione. Io rifiuto di riflettere sopra l'ultimo volume del Lombroso: quella giovane donna, assai seria, sorridente, che porta li occhiali, per quanto i suoi occhi chiari e limpidi veggano molto bene; che, affabile, si ferma e risponde a chiunque l'interroghi, e che ci viene in casa, sorridendo, a dettagliarci il cuore ed il cervello, me lo porge ora colla manina nuda ed accurata. Ma ella porta alle dita alcuni cerchietti d'oro propiziatori, ed alcuni sigilli, che riflettono le categorie aristoteliche; ed anch'io sorrido. Non per lungo torneo d'anni giovò la degenerazione al genio, il quale ripete le forme del troglodita; ma anche per la giovane signora l'apriorismo filosofico dell'idealista e la casualità nominalista d'Alberto Magno si ripetono nel jeratismo della formola. Cerchiamo tra i positivisti e troveremo i metafisici: Augusto Comte insegni.
Del resto io non me ne intendo.
[In «L'Italia del Popolo», a. X, n. 370, 4-5 gennaio 1902.]