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I.
Confesso volontieri la mia ignoranza e qui ne faccio onorevole ammenda. Per quanto, da diciotto anni a questa parte, io mi ridussi ad essere un instancabile lettore di gazzette letterarie ed un industre roditore di volumetti di versi, topo curioso di biblioteca, le mie ricerche ed il mio desiderio (non sollecitati dal grido del pubblico ad indicarmi) non mi avevano mai fatto incontrare coll'opera di Giacinto Ricci-Signorini, il nobile e disincantato poeta di Romagna, che volle ricordare e raccomandare l'amico Luigi Donati da Lugo, in una sua notizia letta a Ravenna l'anno scorso il 16 di giugno24.
Per una affinità d'intenzioni, di sentimenti, per una logica rispondenza di dolori, per una parallela notazione d'arte, Luigi Donati è forse uno dei pochi che possono comprendere e studiare sinceramente e con amore l'arte e la vita del Signorini. L'uno e l'altro della rossigna terra romagnola, «sacra ad una stirpe, che, nel silenzio matura epici eventi alla terza Italia», l'uno e l'altro di una mesta e profonda malinconia, forse troppo critici e speculativi delle angoscie personali, di necessità vengono a sorridersi ed a stringersi le mani, in imagine, dopo dieci anni d'obblío per il mondo; da che, vivente, il Donati dà, al suicida poeta trentaduenne, pace e fama oltre tomba e placa le ombre sanguinose ed irritate di quel giovane troppo presto stanco delle sofferenze e della speranza per scomparire nella morte.
Fatidica terra racchiusa dalli Apennini bolognesi alle sponde adriatiche! Produce, nell'aspettazione, anime verginali impotenti alli sconforti della vita, troppo alacremente indomite per sottoporre il sogno caro e la imagine di felicità al mordente disgregatore delle necessarie platealità. Da Leopardi all'ultimo Pascoli, è tutta una tenera elegia personale che dilaga, casta e selvaggia a volte, è tutta una tristezza incommensurata; o sia che il weltschmerz metafisico si lamenti nella canzone del Passero solitario e nella Ginestra, o sia che nelle Miricae, l'anima si comporti alle squisite fragilità ed alle adorate inezie delle cose familiari, contemplandole con senso secreto di rassegnazione, con una lagrima presta sul cilio, con un singhiozzo male raffrenato in gola.
Giacinto Signorini è tra questi: nutrito alla scuola di Carducci, maestro nell'ateneo di Bologna, ha la plasticità del suo verbo, ma non la potenza sana e completamente forte del suo pensiero: segue il Leopardi modernizzandosi, non come lui triste per riflesso della universale tristezza, non come lui ideale nihilista per l'inanità dello sforzo umano contro l'ineluttabile universo; egli è triste perché riporta la sua personale angoscia sopra quanto lo circonda e fa lagrimare la natura quand'egli piange; egli è nihilista, in parte, perché sente dentro di sé l'inutilità del suo volere, sempre vinto dall'impassibile destino a cui non crede di dover ribellarsi.
Per lui la vita non è un gesto volontario, è una riverente assoggettazione; non è come la si fa, ma come la si trova. Dubitoso e piú che d'altri di se stesso, non ha saputo uscire dal dilemma e dall'enigma, cui voleva e non poteva sforzare a vittoria, che colla morte.
Fu per il dolore, «da un palpito sconsolato, da una aspirazione contrita». Per l'amore ha dolorato; ripete, alla fine del secolo XIX, il romanticismo del visconte di La Fontaine, Amore e Morte, e perché mite ed umile e superbo ad un tempo, non volle imprecare, combattere, ribellarsi, ma piegare e rifugiarsi nella pace eterna.
Ma quando dai suoi casi si riporta al suo paese, alla sua famiglia, al suo tempo, interrompe l'elegia, e, sul flauto silvestre e bene accordato intona la bucolica. «Offerse l'animo vergine alli allettamenti della natura». È per li esseri e le cose della terra natale; ascende alle origini e alli avi; canta le commemorazioni; lenisce, con larve di pace, l'inquieto agognare della sua imaginazione.
Colle prose e col verso è il poeta di Romagna; l'acque, i colli, le colline, i vigneti, i villaggi, i boschi, il cielo cangiante, il vento, le nuvole, il sole miracoloso, riassorbe: l'anima e le memorie dei trapassati e la divinazione.
Giacinto Ricci-Signorini, poeta oscuro professore liceale a Cesena, passò con austere onoranze, conosciuto dai pochi intimi, dal maestro Carducci, dall'amico Pascoli. Passò e l'obblío dal 1893 a quest'oggi fu denso ed irriverente. Postumo fratello, preso dal suo male e dalla sua nostalgia, chi ha scritto Le Ballate d'Amore e di Dolore, il Donati, lo riconduce alla vita. Il Signorini lamentava:
Perché ti sbatti in cosí gran
tremore,
Misero cuor, che hai?
Passa la gloria, o mio povero cuore,
Passa la gloria e non ti guarda mai:
Giosuè Carducci incideva, in una lapide commemorativa a lui, nella chiesina di San Salvatore di Lugo:
«Or proprio che il mondo incominciava a rendergli giustizia!».
In tal modo si ricacciano le tenebre della obblivione colla lucida fiaccola dell'ammirare e lo si risuscita; ed anche lo Zanichelli, sollecitato da egregie ed illustri persone, fin qui mute ed in altro affaccendate, promette una edizione completa delle opere di lui, raccolte ed ordinate, precedute da uno studio del Donati sull'uomo e sull'artista desiderato.
Il pubblico si interessa d'arte e di poeti? Noi abbiamo delle curiose pretenzioni, noi altri assorti, per amore d'estetica, oltre le praticità del pane cotidiano. Ma è bene non perderle e credere che Romagna, li amici e chi va intorno battendosi sul cuore e dice ad ogni primo occorso, poesia, bellezza, rispondano, comprendano e non dimentichino piú.