Gian Pietro Lucini
Scritti critici

PER DUE POETI DIMENTICATI

II.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

II.

Mentre mi era ignoto un contemporaneo, ed aspettava la buona parola a farmelo conoscere ed apprezzare; l'ottimo nostro Damiani, evocatore di Nonno alessandrino, non mi portava ragioni e conoscenze nuove.

Anch'io frugai per l'opera dell'ultimo poeta pagano25 e parecchio mi vi compiacqui; anch'io di preferenza ho indugiato e tutt'ora indugio nell'orto e nel giardino curioso, strano, artificiale e quasi impensato per il fittizio e per lo sforzo dell'ultima letteratura greca che rutilò, prima di scomparire, magicamente, in Alessandria.

Alessandria, come Antiochia, città del lusso, delle dissipazioni, della raffinata coltura, dei banchetti filosofici e dei festini di voluttà; mistura rarissima di studii e di agitazioni, di contese, di sommosse, di ascetismo trascendentale, di magie e di gnosticismo; città confusa di Giudei, di Romani, di Greci, di Italioti a bisticciarsi ed a ferirsi, Cattolici, Donatisti, Ariani, adoratori di Serapis, Gentili ultimi a respingere l'invasione del dio nuovo sotto forma di un legno di patibolo, o di agnello, o di Bacco solare e barbuto di ritorno dalle vittorie d'India; nella forma di una testa di asino, o del monogramma incrociato.

E per i canali, verso Canopo, ancora passavano ai misteri le triremi inghirlandate e cariche di fanciulli bacchici, mentre, sulle strade di rimorchio, salmodiavano le processioni dei nuovi monaci nihilisti. Ed il Serapeum, nel quale si conservavano le favolose ricchezze delle gemme delli ori e delli argenti e le splendidezze dell'arte greca e pura, al di del Nilo, sulla collina, rispondeva, dei suoi colonnati, alli attici ed alle casine rosse, tra i giardini, che i giuochi idraulici del fiume rinverdivano perennemente per sette acquedotti, coll'Astateion inviolabile, di tutti li amori e di tutte le femminilità. Qui la bellezza, Afrodite-Astarte, vi era adorata sotto tutti i nomi. Lachmi, Aschothoreth, Venus, Ischtar, Freia, Mylitta e Cypris, come altrettante erano le cortigiane sacre di opposti paesi, venute a sacrificare del sesso alla divinità.

Ma tra poco Costantino proclamerà il cristianesimo religione di Stato; Teodosio comanderà la distruzione dei templi. Teofilo, vescovo, condurrà le turbe pazze del verbo iconoclasta (Paolo barbaro aveva seminato per Corinto ed Atene) all'incendio del Serapeum; la biblioteca, opima dei duecentomila volumi di Pergamo, prenderà fiamma ed appresterà della scienza e della poesia alimento alla distruzione: ipocriti, domani, i fedeli daranno l'onta di questo sacrilegio ad Amru, luogotenente del califfo Omar quando, 250 anni dopo, terminava la soppressione e l'incenerimento dei papiri. Il Gran Pan morto, come aveva gridato la voce udita da Thamos pilota sull'Egeo torbido e minaccioso, i tempi nuovi approssimavano.

L'Ellade agonizzata, la Romanità decadente, erano dentro operate da un lievito aspro di rinuncia e di violenza: Cristo, uscito dall'Asia, portava il monoteismo per quelli infelici che si credono immortali, come irrideva Luciano: la grande notte si addensa, per quanto in una chiarezza di genio ribelle e conservatore Giuliano tenti la conciliazione neo-platonica, tra la rivelazione dei vangeli, li eoni di Manete, la magica di Simone, ed il dogma di Basilio. La coscienza vagellava. L'aristocratico sorrideva e lasciava passare il cencioso, a cui il paganesimo dava per semplice religione il purificarsi, mentre riservava al filosofo il comprendere: Agostino, manicheista di recente convertito, pirateggiava Platone e Socrate e Seneca, felicemente viaggiando alla santità.

Un anonimo di quel tempo aveva inscritto in un dialogo: «Noi siamo troppo ricchi e troppo vecchi. Dove è il bene? Dov'è il male? Voi lo sapete? Quale la religione? Dove e con chi la ragione? Non sappiamo. Vi sono dei magici veli sul passato e sul futuro. Ma chi ha ragione? Io? Li altri? Non sappiamo».

Tutti ignoravano, tutti erano febrili ed aspettavano; tutti, nel distruggere qualche cosa, fabbricavano qualche cosa. Il gesto anarchico di allora creava il medio-evo, la verginità rozza e feroce, per cui doveva essere possibile la rinascenza: non altrimenti, attendiamo ed abbiamo paura e speranza insieme.

I dotti e i letterati si riscaldavano al sole freddo delle età passate e componevano omelie e panegirici: veneravano l'antico, lo copiavano o si davano alla ricerca dell'inedito, del neologismo, dello strano e del personale. Altri piegavano la lingua ai nuovi bisogni della democrazia religiosa ed erotica incontentata. Il greco si rifugiò nella filosofia, nella storia, nel magnifico romanzo d'avventure; il latino nelle leggi, nell'inno popolare e ritmico delle credenze cattoliche.

Nonio Marcello da Tivoli fa della grammatica: tratta Delle proprietà delle parole; Planciade Fulgenzio ha Tre Libri di Mitologia ed uno sulla Continenza vergiliana, Arusiano Messo un'Enchiridion di frasi e locuzioni raccolte dai classici. Per curiosa rarità vanno ricercati i poemi astrologici. In una confusione ecclettica di bellezza greca e di avvenirismo cristiano, forma Gregorio Nazianzeno un gonfio centone da Euripide per una tragedia sulla passione di Cristo; Eudossia canta in trecento quarantatré esametri Gesú, con frasi omeriche; Falconia Proba con emistichii di Virgilio. Ottaviano Porfirio ottiene grazia da Costantino, che l'aveva esiliato, coll'offrirgli una raccolta di poemi difficili, figuranti, nella disposizione del verso in sulla pagina, il profilo di un'ara, di un flauto, di un organo. Triflodoro Egiziano bighellona in una Odissea lipogrammatica, ove, in ciascun canto, ommette una lettera dell'alfabeto ed in tutte la S. Ed il badalucco letterario era al colmo, e nessuno piú sapeva che inventare o che copiare, mentre Giamblico, Porfirio ed Hermes Trismegisto discorrevano della mitica e dell'occultismo, scioglievano e componevano le abraxae, e dall'ebraico torturavano una Clavicola di Salomone.

Coluto di Licopoli si rivolge all'epica. Proclo alli inni orfici. Quinto Smirneo evolge i Paralipomena d'Omero; e ancora Trifiodoro la Maratonica e la Ippodamia; Nonno di Panopoli incomincia coi Dionisiaci, per terminare con una Parafrasi dell'Evangelio, aggiungendo retorica alla rivelazione e falsando, secondo il dogma, il testo.

I maestri universitari, naturalmente, sfuggono da questo periodo e ce lo insegnano inconcludente e vizioso: ma la decadenza rimane nella istoria, come il nostro seicentismo, notazione di coscienza, di costumi, di gusti raffinatissimi ed è il miglior contributo alla psicologia delle lettere e dei tempi torbidi della umanità, se quelle riflettono questo.

Egregiamente, il nostro Damiani si dilunga sul Nonno panopolitano; ne scrive la vita, per quanto ci sia in massima parte sconosciuta, il sunto delle Dionisiache, la fortuna di questo poema da allora sino ad oggi e la bibliografia.

Ne traduce, in quattro saggi, alcuni episodii in versi sciolti di gravità e compostezza classica, assomigliando al fare del Monti; vi aggiunge osservazioni glottologiche e critiche d'ordine generale. Avrei amato meglio che il traduttore si fosse provato, nella versione ritmica, di accostarsi all'armonia dell'esametro originale, facendone risultare l'acquisto della nuova mollezza e della maggiore sonorità cui il Nonno vi ha infuso, o, quanto meno, lasciando da parte la prosodia, in prosa poetica ed assai accentata illudesse il lettore con un verso amorfo, senza tradire alla sostanza del testo.

E però è bene accontentarsi di quanto ha fatto ed è molto, in questo tempo, dove ciascuno corre ad un facsimile di scienza e lascia neglette le arti, spregiate quasi un giuochetto di oziosi. Il Damiani riposa dalle lotte cotidiane, e nelle vacanze delle nostre preoccupazioni repubblicane, si rivolge alla esegesi dell'alessandrinismo.

Riverente, porge il volumetto a Giovanni Canna, venerando, che non scorda Mazzini, poeta e filosofo di libertà, nelle sue lezioni allo Studio pavese, nutrendo la gioventú d'alti e nobili sensi per la vita. I saggi sono ottimo regalo al professore, attestando la gratitudine dello scolaro.

In fine, poiché siamo coi poeti, due parole ancora per un fatto personale.

L'amico lettore ricorderà una mia notizia, apparsa qualche tempo fa sulla «Italietta», a proposito del Canto civile del signor Guido Verona. — Ora, la subita e naturale irritazione per quella istoria ad usum Delphini, mi fece sfuggire delle induzioni sulla persona dell'autore, che non conosceva, le quali, a miglior esperimento, non mi sembrano rispondenti al vero.

Il signor Guido Verona mi si presentò con molta cortesia e gliene sono grato. Egli si è professato galantuomo ed io gli credo ed è bene credergli; ma, al mio apprezzamento politico e letterario, su di lui né tolgoaggiungo parola.

Il Mito e la Maschera (universalità del resto, non personalità) ch'io vi aveva desunto, non vanno quindi illustrati del suo nome, da che questa volta, come spesso anche a Cuvier, e, come ho anche preveduto, i dati ed i resti fossili che aveva per mano mi hanno ingannato a ricostruire un animale di imaginazione che non rappresenta il reale.

Voghi quindi il Canto civile per il mare morto delle nostre lettere, tra le molte altre superfettazioni contradittorie e per le innumeri contraffazioni storiche, edificando la vera storia ai posteri.

[In «L'Italia del Popolo», a. XI, n. 578, 4-5 agosto 1902 e a. XI, n. 579, 5-6 agosto 1902.]





25 G. F. Damiani, L'ultimo poeta pagano.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License