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Un romanzo del Sâr Péladan non ci è mai indifferente, per quanto il suo eccessivo gnosticismo ci irriti qualche volta e le concezioni religiose della sua sociologia ci sembrano fuori di luogo, false ed inapplicabili nel secolo XX. Ora, dopo d'aver dato alle stampe, recentemente, in due volumi, La Terre du Sphinx e La Terre du Christ, impressioni dei suoi viaggi in Egitto ed in Palestina, donde è ritornato carico di cristianesimo primitivo (e non ne aveva bisogno) e d'ermetismo trascendentale (superflua dottrina per lui già Sâr parigino) aggiunge, alla epopée della sua Decadence latine, il quindicesimo volume, Pereat! uno studio sulla vita religiosa contemporanea.
Pereat! è parola che, nella morale teologia, equivale al Non possumus! della politica chiesastica ed intransigente. Pereat! non chi dà lo scandalo del peccato passionale e transitorio, del peccato in genere, sottoposto alla sanzione ebraica del decalogo, ma chi fa aperta ribellione cosciente, ragionata ed umana alla assurdità dei dogmi del Concilio tridentino. Questa volta il Péladan, eresiarca, condanna il Pereat! della Corte romana ed è col Cristo puro contro la legislazione canonica, codice dell'imperio sull'animo del gran prete del Vaticano, procedura simoniaca della Gran Congregazione, che accoglie, approva o rigetta secondo la borsa pesi, o sia floscia, o turgida d'oro.
Pereat!26 ci deve interessare perché, in tema di divorzio, è di attualità: può essere, comunque, di attualità quest'ultimo romanzo in Italia, finché il logico rimedio dirimente delle unioni irriconciliate sarà attuato in processo di tempo; il clericalismo osteggiando, la bigotteria spaventando, l'ipocrisia indignando, il facile adulterio indispettendo per le conseguenze civili, cui la nuova legge potrebbe obbligare alli allegri usufruttuarii di un letto extra conjugale ed assai comodo.
Péladan si pone un duplice quesito d'ordine morale: si può, secondo il Vangelo, far divorzio? La parola del Cristo non è dubia. Egli ammette il divorzio per adulterio, sempre; la Chiesa in ogni caso lo deve proclamare. La Chiesa bara sulla parola del Cristo, quando si oppone e ciaramella casuisticamente nel concilio di Trento; quando va a scoprire i punti e li articoli dirimenti del matrimonio: la Chiesa si piega tuttavia alla domanda delli interessati, quando paghino e la parola del Cristo le è fonte di ricchezza. — Avvenuto il divorzio civile, per quelle stesse ragioni per le quali l'Evangelio lo ammette, cessato uno stato di fatto e di diritto, ma sussistendo il vincolo religioso, sacramento che dovrebbe essere nullo, due di fresco divorziati, due persone libere, possono contrarre un altro matrimonio? — La legge civile lo ammette: la religiosa grida l'anathema sit: condanna il sacrilegio. Cristo che è uomo, cuore e ragione accoglie la nuova unione e la consacra, Roma apre le porte dell'inferno ai concubini che la ascoltano. Pereat! esclamano le mitre ed i cappelli rossi della Congregazione: «Muoja!». Il suicidio del peccatore è infinitamente piú accetto al Moloch cattolico che non la sistematica fornicazione in odio al canone tridentino.
Roma è oscena e crudele; Roma non può dimenticare la Santa Inquisizione, e, dal corpo torturato, sfuggito ai suoi ordigni di sadica squisitezza, si riporta sull'animo con mezzi piú sottili ed efficaci: vi incita tragedie e catastrofi familiari. Roma dissolve amore, ragione, famiglia in omaggio ad un paragrafo sancito da qualche centinaia di mitrati italiani e spagnuoli, ignoranti, celibi asessuali o schifosamente lubrici raccolti, un giorno, nelle sale oscure di un castello tirolese a discutere dei rapporti della divinità, rappresentata dal papa, colli uomini, rappresentati dai loro bisogni e dai loro diritti naturali.
Péladan si rifiuta, fa opera sdegnosamente sincera ed utile; smaga le arti ed i raggiri; chiede conto al cattolicismo delle vite infrante e soffocate, proclama che il cattolicismo uccide ed annihila.
Difatti, nell'oscuro dilemma, l'eroina del Pereat! sacrifica se stessa all'amore del marito e dei figli e si sopprime perché la morte voluta è un peccato cui la Chiesa rimette ed assolve, meglio del concubinaggio. Molti cattolici intransigenti dovrebbero leggere questa opera di cattolico, che, per essere tale, non ha abdicato al libero esame ed alla discussione delle fonti; a chi si interessa di letteratura, Péladan conserva lo stile imaginoso, serrato e lucido, l'inevitabile sfoggio di occultismo e la demonologia.
Vi sono dei caratteri scolpiti sommariamente e perciò piú vivi. Un commerciante Dielette, che specula sul matrimonio della figlia e la pone all'incanto: un conte de Cany, ufficiale, nel quale aggruppa le tare professionali del militarismo: un gran vicario Boussagol, che esprime Roma papale ed il torturante principio d'autorità; una falsa devota, Vayot, che istruisce le grazie voluttuose della figlia e sollecita delle sue giovani nudità le pubere irritazioni della continenza maschile, pescando alle nozze proficue: Anna, la figlia, che volontieri l'ubbidisce, prestandosi, dopo, alle esposizioni callipigie delle sue forme nelle rappresentazioni di alcuni misteri satanici di provincia, eccitamento alla vecchiaia blasonata: una vecchia e macabra, de Bisse, erotomane ballerina ischeletrita, posseduta dai succubi della sua imaginazione pervertita.
Il Péladan non si dimentica: ricorda le migliori pagine del Vice Suprème e della Imitation sentimentale, i paradossi dell'Androgyne e della Ginandre: deus ex machina, qui non piú un mago moderno, ricco di tutte le virtú e di tutte le scienze, signore della materia e del sopra sensibile, ma un filosofo neo platonico, è Salgas a discutere di teologia e di bolle pontificie meglio di un dottore della Sacra Ruota, ed ora, per l'occasione, bibliotecario a Typhonia, città virtuale del mezzogiorno di Francia, chiercuta, chiusa nelle caste, gretta di privilegi, gonfia di albagia, come la patria di Tailhade, gratificata dal poeta libertario, nelle strofe roventi del Au pays du Mufle colle piú estetiche e crudeli insolenze.
Gustave Kahn ci aveva abituati ad altre rappresentazioni. Per un racconto mitico e lirico, evocatore della regina di Saba, del re mago Balthazar e di Giuseppe d'Erimantea, per un impero teutonico, tra il Reno e la Mosa, nel secolo XIV, gotico e biblico insieme, ci aveva composto le leggende del Conte de l'Or et du Silence. In una specie di romanzo politico, prevedendo l'avvenire, ipotesi letteraria di una trasformazione violenta e sociale, Le Roi Fou, annotava le necessità ereditarie della pazzia atavica, in una famiglia di re, ed ancora, in una ipotetica Germania, si succedevano le ore tragiche e tragicomiche di una rivoluzione sociale e contemporanea.
Poeta, a nessuno scolaro nella scienza del ritmo e della rima, fragrante di personalità, lucido di indipendenza fu, tra i primi, dopo il Rimbaud ed il Laforgue, che accolse il verso libero e lo promosse vittorioso, dalle pagine della minuscola «Vogue», una rivista del 1886, ai suoi poemi che attualmente riempiono i volumi nitidi delle edizioni del Perrin e del Mercure de France: Domaine de Fée: La Pluie et le Beau Temps: Limbes de Lumière: Le Livret d'Images.
Imagini orientali; cantici ad una sola voce dolce ed amorosa in un apparecchio fittizio alla Verlaine; toni semplici e delicati; rutili magnificenze d'oro e di stoffe preziose; originali sentimenti nell'accogliere e nel rendere le cose comuni passanti; finezza di fiammingo quasi meticolosa ed improvvisazioni entusiaste, male frenate dalla diga prosodica, dilaganti; limpidi rivi tra le praterie, sinuando, di Olanda, e torrenti schiumosi ed irridiati per le cascate scheggiate dell'Alpi: questa la poesia di Gustave Kahn.
Per ciò vi meraviglierete con me nel leggere L'Adultère sentimental; vi cercherete invano la ricca oscurità dello stile del Conte de l'Or e du Silence e la ardita induzione del Roi Fou.
Nella morta gora della regressiva provincia, ecco delli adulterii ingenui e quasi involontarii. Si svolgono, come un nastro di seta a colori pallidi e sciupati, due esistenze di donna, amorose, trascurate ed incomprese; la madre e la figlia.
E, se la madre, nell'entusiasmo guerriero del '70, tra le febbrili speranze vincitrici dell'arme e le dolorose realtà della sconfitta, pecca di un bacio solo, sulle labra dell'ufficiale volontario nel giorno dell'addio; la figlia piú decisa, piú pratica, meglio avvisata della vita che non rispetta alterezza ed onestà, profitta della sua bella persona, complice il marito, che se ne vale, per ascendere i gradini lubrici della burocrazia annoiata dentro li ufficii dei piccoli comuni.
Due epoche; due caratteri; epoche e caratteri non opposti, ma susseguenti. Il secondo impero nel quale il lievito nascosto di Lamartine e la palese sentimentalità romantica della Sand e del de Musset fanno piangere e sognare l'anime feminili malate d'amore: la repubblica attuale, che ammette libertà di coscienza e di disposizione, sollecita li anarchici e le rivolte, accoglie li sforzi utilitarii. Due caratteri; il passivo e l'insofferente non avventato ma calcolatore; il romanticismo ed il materialismo.
Fra tanto la semplicità del borgo romito dilaga: la vecchia borghesia delle piccole città, in cui ci si deve rispettare per il rispetto necessario all'aria stessa che si respira; l'egoismo dei vecchi parenti; la speranza secreta delle giovinette e l'infelice scioglimento alle crisi passionali; e la madre complice involontaria, e l'ava che apparecchia le fascie al nascituro, ed i pettegolezzi ed il voltairianismo del medico condotto e la pietà giansenista del curato, si rispecchiano nel puro cristallo di uno stile, che ha scordato le pretenzioni simboliste della prima ora.
L'esposizione è chiara; somiglia a un fiume sopra un letto di ciottoli rosei e bianchi, a trasparire dal fondo, gorgogliante tra le alte erbe del margine: dei paesaggi freschi, primaverili, delle nevi candide, delle convulsioni rabbiose di vento, sulli alberi, martoriati, di quando in quando, passano colorando la lastra sensibile dell'acque che vanno.
E, se mi astraggo un poco dalla immediata visione e ne cerco simiglianze per la letteratura, logicamente trovo Madame Bovary a rispondere, violenta e rossa, in faccia a questa dolce sincerità. Perché obbligatorio mi appare il confronto tra l'uno e l'altro autore. Chi avrebbe sospettato, in Flaubert di Madame Bovary, colui di Salambo? Chi, in Gustave Kahn del Conte de l'Or et du Silence, quest'altro dell'Adultère sentimental?27
I due scrittori vollero integrare il proprio genio, riuscendo all'emozione del sentimento ed all'emozione di pensiero; cosí, alla bellezza dell'opera completa servirono e le idee del passato e quelle del presente, le suntuosità ed i ridicoli, le grandezze e le semplicità, ricorrentisi, a mo' di un bassorilievo, intorno al dado della base di marmo.
L'epoche contrapposte, materiate nelli eroi di un'arte perfetta, doppio mondo in un unico santuario, si rischiarano e si fanno valere; riassumono le speculazioni, si riflettono nelle loro naturali sequenze.
Il processo del mondo ideale e sociale non ha piú nulla di oscuro; la genesi non è piú un mistero e l'essere uomo permane a traverso i tempi, nella sua complessità morale e fisica a compiere la sua missione.
Il Kahn ed il Flaubert hanno questo veduto e lo hanno voluto affermare nell'opera loro, perché sono due grandi scrittori e due filosofi che difficilmente si sviano dalla universalità di una sintetica comprensione, per essere trattenuti dal dettaglio senza rispondenze, trascurabile come un fiato di brezza.
[In «L'Italia del Popolo», a. XI, n. 600, 20-21 agosto 1902.]