Gian Pietro Lucini
Scritti critici

ÉMILE ZOLA

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ÉMILE ZOLA

Edificio di cemento, di ferro e di majoliche, sicuro, ordinato, lucente, pratico: un Vitruvio moderno ne ha date le assise, le fondamenta, la disposizione, li ornati; ogni elemento è al suo posto e risponde alli ufficii; non vi sono lambiccature, astruserie, viluppi, inutilità. Di sotto alle arcate, coperte di cristallo, aria libera, a fiotti, come nelle arterie il sangue; di sera si illuminano le lune elettriche alla scintilla voltaica, ed il cristallo di zaffiro sembra il cielo notturno. Sfondi di giardini, viali sabbiosi, o, ad interrompere la prospettiva, delle rupi, dei boschi. Un gran fiume mormora e canta e geme, prossimo. Poi la fuga dei boulevards frequenti, nel rumore dei traini e delle carrozze, nel susurrio delle conversazioni, nel lampeggiare delle occhiate; boulevards sgargianti di vesti, di uniformi, di acconciature, di monili apparsi in luce, sorriso di perle e di ori. Ed, in fondo, la banlieue vaga, dubia; nelle nebbie le fortificazioni di una città febrile, insistente nel sogno e nelle opere quotidiane; e, profilate, le caminiere, come torri di catedrali sulle nubi, gettando nubi di fumo, tra le vampe dei fuochi interni, imprigionati.

Dintorno tutta la patria, la Francia, che pulsa col ritmo del suo cuore, Parigi; la Francia, che freme al pensiero del suo cervello, Parigi; la brumosa Brettagna, aspra di scogliere ed opima di poma; la ridente ed inghirlandata Provenza, tra li olivi e li aranci, protesa al Mediterraneo latino e mitologico; i Vosgi nevicati, ricciuti di castaneti, irti di pinete, fragorosi di cascate; le Ardenne, Termopili galliche a custodire; l'ombelico, il Poitou fresco di praterie; i granai naturali dei campi della Normandia; la bollente, irrequieta amatrice d'iperboli, Guascogna racchiusa dai Pirenei e dal Rodano.

Emilio Zola complette il suolo della patria; di quella argilla, saturata di sole e di pioggia, foggia il suo uomo francese, donde tutte le virtú di una razza e tutti i vizii.

Egli è universale nella visione oggettiva: sensibilissimo accolse, come una lente squisita, tutti i saggi che si possono percepire, li conservò, li riflesse, li ordinò nella serie cromatica; nessun dettaglio gli sfuggi; dal dettaglio fisico, indusse alle differenze psichiche; trovò certa rispondenza dall'apparire all'essere; dai fenomeni esterni, costrusse la storia interna di una società nel suo , in quel punto di tempo e di spazio in cui l'individuo si presentava alla sua osservazione.

Fu critico per eccellenza, dopo di avere instaurato una sua dottrina spiegata e divulgata, battagliero convinto e sicuro. Mes haines, Le Roman expérimental, Le naturalisme au théatre, Les Romanciers naturalistes, Une campagne, Documents litteraires furono battaglie per la filosofia, per la morale, per l'estetica sua.

All'arte accoppiò, non ancella servile o caudataria, la Scienza: spesso l'Arte antivedé alla Scienza, od imaginosa e viva, ridusse il teorema delle cifre in anime e persone. Dai fatti osservati, estrasse le piú sottili relazioni; forse li magnificò, temperamento meridionale, nella loro esposizione, per cui appaiono, talvolta, formidabili e miracolosi. Nell'ultima trilogia Les trois Villes (Lourdes, Rome, Paris) evolutivamente e meglio, nell'incominciata serie dei Quatre Evangiles (Fecondité, Travail), indusse al simbolo ch'egli aveva combattuto nei giovani, ai quali rimproverava compiacenze di assurdo e di oscurità. Egli qui intese alla rappresentazione dei fatti e dei sentimenti, come fossero rappresentativi di verità, come racchiudessero delle categorie: qui, pure, la sua fisica si ricongiunse colla metafisica, ed ammise lo studio preordinato dei fenomeni che in principio voleva spiegare colla sola materia vibrante.

Diede, per necessità mentale, le migliori prove dell'Ideo-realismo, conciliati la analisi e la sintesi, materia e spirito nella letteratura; testificando, che in qualunque momento umano si ritrovano i fatali e necessari principii; che il risalire alla fonte ed alle cose prime, le quali tutto riassumono, non è abberrazione; che, se esiste perfettibilità, è appunto nella alterna vicenda di questo dualismo e del prevalere or l'una or l'altra di queste forze convergenti ed irrefrenabili.

E disse ancora al Mauclair: «Nell'affaire stesso voi vedete come io sia nemico del sogno, sbugiardando coloro che mi volevano impegolato nella belletta comune. Non ho pensato come una idealista, quando davanti ad una condanna assurda e feroce ho gridato: «Questo è un delitto?» — «E non vedete nelli Evangelii come tenda ad una morale determinata da una psicologia scientifica e socialmente ad una Città del Futuro?».

Ora lavorava alla Vérité ed alla Justice, ed in quest'ultima, precorso il tempo, voleva dimostrare gli Stati d'Europa confederati, la scomparsa della guerra, l'annichilamento dello spirito militare per opera della giustizia, in tutto, il sogno illuminante di Victor Hugo. Ed al meravigliato giornalista, che si ricredeva colle parole: «, voi siete davvero un simbolista». — «Che volete? Vi stupisce che io mi metta sulle vie di Hugo? Io ho conservato piú a lungo che non si creda il mio romanticismo iniziale». Con questo statuiva che la funzione zoliana era una identità col nostro Simbolo.

Si volse dubitoso, e qualche volta impaurito, alla gioventú la quale lo sforzava da vicino, incalzandolo, perché precedesse con lei e non mettesse ripari alla sua corsa. Nell'ultimi anni, l'attitudine estetica ed eccessiva delli scrittori, che si raggruppano intorno alle Riviste di avanguardia, fu poco rispettosa e riguardosa. Vi fu un Léon Bloy cattolico ed eresiarca insieme che al J'accuse rispose per letteratura un Je m'accuse; nel quale, per quanto attiche, sprizzarono ingiurie partigiane. Vi fu una Rachilde, troppo innamorata dalle anomalie, che volle vedere negli ultimi lavori zoliani delle pappe dense, brune ed insipide. Vi furono degli idealisti ad oltranza che lo rimproverarono di aver trasformato il romanzo in una sala di clinica, in un dispensario od in una foce di fognatura. Ed alla Gioventú il Maestro dedicava La lettera (A la Jeunesse) per cui li spingeva alla luce: «A la clarté, la limpidité, la semplicité! Encore de la lumière, et plus de lumière encore, et tout le soleil, qui flambe et qui féconde!».

E cosí Egli vorrebbe gustare della frase di cristallo, chiara, semplice, per cui qualunque occhio ingenuo la potesse comprendere; cosí vorrebbe amare l'idea vera e nuda ch'ella apparisse per se stessa trasparente, nella solidità, onde non ingannasse alcuno.

Cosí Egli sarà ottimista contro il pessimismo imbecille, la vergognosa impotenza a volere e ad amare. Cosí, per quanto le rodomontate della giovinezza gli schiamazzino in giro, l'irriverenza lo punga, non se ne infastidisce, applaude a quella virilità e giudica saggiamente giuoco d'altalena, lo scendere ed il salire delle scuole, reazioni logiche e prevedibili.

Noi fummo contro di lui nell'irruenza dell'assalto, nel dibattito dei principii, opposti in apparenza, perché classificati sotto due nomi antagonisti, in risultanza comprensivi di una stessa verità.

Ora ci rivolgiamo memori, invece, del canto augurale; vi ritroviamo fondamenti, vi scopriamo la nostra discendenza materiale dalla evidenza, colla quale foggiamo le nostre plastiche, dalla disciplina da lui imparata, per la quale è possibile la frase e la parola cruda, nuda, violenta e tagliente.

Il Maestro ci addottrinò nella forma per cui osò ogni imagine, nello sgruppamento della lingua e nella duttilità, conquistando alla sintassi francese libertà di movimento e di espressione, vittoria di sperimentalismo spregiudicato.

Da lui, incitati, abbiamo abbandonato la torre eburnea delle meditazioni soggettive; abbiamo amato le folle, siamo scesi nelle piazze; passeggiammo per le stazioni ferroviarie, considerando le macchine d'acciaio, li animali, le confusioni, le vittorie, le battaglie. Al polso del cervello abbiamo accomunato il palpito del ventre; ne abbiamo sapute le intime rispondenze, le fiere ribellioni, le audacie del pugno. Per la fame, per l'amore, per il potere nella società conglomerata, gli umili e i superbi non sfuggirono all'ineluttabile, ambo miserabili e sublimi. Ci ha fatto credere alla santità del lavoro, alla santità della scienza nelle crisi del nostro scoraggiamento; e, voltosi agli studenti (Discours prononcé au Banquet de l'Association générale des Etudiants), innerbò la preoccupazione morbida del misticismo di fatti, di fatiche, di risultati tangibili. «Scienza, tranquillità dello studio, sicurezza del pensiero, credenza a spingere l'umanità sopra nuove vie.

«L'ora torbida che noi traversiamo, tentando, propone una fede alla gioventú. Abbiamo forse ecceduto nel riportare ogni cosa al muscolo, ma operammo: operate! Il lavoro che vi offro è l'assunto giornaliero, è il dovere di avanzare d'un passo, ogni giorno, nell'opera nostra; operiamo. Il lavoro è l'unica legge del mondo, il regolatore, che conduce la materia organizzata al suo fine sconosciuto; operiamo». — Il rinnovamento passa dentro di noi; dalla Religion della souffrance humaine dei de Goncourt, noi passammo alla Religione dell'operare: fisica e metafisica trovano il loro maritaggio fecondo. Fummo, cosí, gli amanti della sofferenza; e siamo gli entusiasti dell'opera, perché il pianto non oltre gema o singhiozzi.

[In «L'Italia del Popolo», a. XI, n. 643, 9-10 ottobre 1902.]


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