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Una volta si faceva chiamare Ottone di Banzole: sei lustri furono che diede fuori Le Memorie inutili, a ventun'anni; dove, con fresca baldanza giovanile, non aveva ossequio per la critica alta e bassa e scriveva secondo il suo temperamento, i suoi entusiasmi, le sue preferenze.
Innerbò la floscia dicitura italiana, che allora si andava leziosando nel pathos di un isterismo maschile, colla truculenza guerrazziana, che prediligeva, con una pompa di erudizione, cui sfoggiava, con una nobile alterezza simpatica. Spesso vagheggiava repubblica di Mazzini e libertà vera e grande italiana; né sarebbe stato romagnolo, se, almeno in gioventú, non si fosse piegato alla nostra dottrina.
A lui sorrise, nelle lettere, fortuna; fu accolto e rispettato. Incominciò a foggiare delle imagini personali ed inedite; a farsi una sintassi propria; a dimostrare un carattere speciale stilisticamente: ed in quelli anni di transazione, col Carducci e coi classici della Rinascenza, insegnò qualche cosa al d'Annunzio, il quale per sé elaborava una integrazione di forma, mentre ideologicamente, portò, nel romanzo moderno, alcuni motivi di rappresentazione e di discussione fino allora lasciati da parte.
I vecchi areopagiti si ricorderanno dello scandalo suscitato dal No, dal Nemico, dal Al di là, scandalo pimentato dalla curiosità afrodisiaca dei racconti. Perché, se, in pubblico, le labra mormoravano riprovazioni ed anatemi, in secreto, assai e troppo si dilettavano di quelle cantaridate letture ed il volumetto tremava nelle mani commosse ed alquanto febbrili.
Ottone di Banzole, che prendeva a farsi chiamare dal suo vero nome, Alfredo Oriani, aveva la specialità dei torbidi e dubii casi erotici. Preferiva li amori lesbici e le religiosità greche di certe offerte passionali alla Paphia; per il primo, tra noi, propagine del parnassiano e procace Mendès, del molto parigino e libertino René Mazeroy, ci portava il contributo di alcune osservazioni piccanti e salaci intorno alle alcove inquiete, sull'origliere delle quali, in bello intreccio ed abbandono, si confondono le treccie bionde e brune delle ginandre e riposano le stanche testoline feminili morfinomani.
Fu specialista, cosí, di tipi paradossali, signorilità feminili perverse ed ingenue ad un tempo, cerebrali cortigiane di lusso, per cui la bellezza plastica è fatta valere dalla coltura e dall'ingegno; amò queste fragili e crudeli divinità moderne e le circonfuse di pompa, di arte, di assoggettazioni maschili e di virili vigliaccherie.
Della donna, spesso, fece la femina di lussuria ed un agente di distruzione; ed è bene osservare, come la natura prima e l'istinto non vengono sotto il fittizio dell'apparecchio attuale soffocati, ma, per logica reazione, risorgano, a dominio sulla civiltà. Donde una sua ragione sociale lo sosteneva nel filo delle favole imaginate, ed a me piaceva per le deduzioni pessimiste, per l'orgoglio di un carattere che si differenziava, per la esuberanza dell'eloquio, per la vivacità delle descrizioni e del maligno sorriso gratificando l'uomo, l'homo sapiens, ed il suo prodotto il progresso: disincantato, era un ironista ed un aggeminatore di metalli curiosi: alcune sue descrizioni, credo, possono far testo di nobile italiano, ancora, rarità squisita e veramente lodevole.
Ma Ottone di Banzole, ora mai decisamente Alfredo Oriani, era ambizioso.
Si aggrappò alla politica corrente e questa gli fece vedere, che per arrivare, doveva lasciar da parte la repubblica, o almeno adombrarla di un velo molto spesso e nero, di gramaglie.
Venne a far lo storiografo, vagellando con La lotta politica in Italia, saggio che accetta partecipazione di principe con libertà di popolo, regno con imperio popolare, intiepidendosi nella democrazia costituzionale.
Poi, diresse le sue armi contro il divorzio ed ammise, vecchia superstizione, la giustizia del tue-la barbara, a difesa del minacciato adulterio: quindi divenne consigliere provinciale del Ravennate, ed ora badalucca forse per la deputazione. Fra tanto, tra un drama ed un articolo di giornale, canta Giobbe nostro, non il cavallo, figlio del deserto, ma un suo surrogato, la Bicicletta machina e gingillo d'acciaio rispecchiante al sole delle strade e polverose, rapide ruote correnti, ministre, all'umanità, nei viaggi e nello sport delle relazioni internazionali; iperbole curiosa, ma non esagerata davanti allo sviluppo del ciclismo.
E però, lo scrittore solitario di Casola Valsenio, per un susseguente raffreddamento di temperatura cerebrale va facendosi piú tiepido e meno generoso. Già smussa le punte aspre del suo stile; la prosa gli si rende piú calma, ma meno viva; le imagini sono lasciate da parte; le esagerazioni scansate; i colori smunti, ricerca piú tosto i luoghi comuni accetti da tutti e rifiutati dai pochissimi delicati; Alfredo Oriani si ricrede in letteratura, dei molti vizii che formavano una sua virtú, ed in politica, di quelle cosí dette utopie, che erano una libera attitudine del suo pensiero. Ed, attendendo a sognare di fuochi accesi, per vendetta, nel Ravennate, ad incendio dei fienili di chi osta alle Leghe (come l'altro giorno, il nostro Alberto Babini, da queste stesse colonne, ci avvisava) anche ascolta lietamente le lodi ed odora l'incenso della critica per bene, turibolato senza economia e per La Bicicletta e per l'Olocausto, l'uno e l'altro volume recentissimi.
Non io mi farò, diacono, in questa cerimonia di elogi; troppo mi hanno irritate le lente ma progressive disillusioni sopportate in causa della involuzione del romanziere; perché, considerato in sulle prime in quella virtú d'eccezione, a poco a poco, lo accorsi discendere, impelagandosi nella mediocrità produttiva e professionale, dando sempre meno di quanto poteva rendere per meglio farsi accettare. Prova di decadenza reale, o di pratico riconoscimento commerciale?
Tale l'Olocausto, una novella, che svolge un fatto di cronaca, inscritto sotto la rubrica «Corruzione di minorenni», una novella che si gonfia, fuor di proposito, in romanzo. L'autore, senza sdegno, senza partecipare, rivoltola a piene mani la lordura del ruffianesimo domestico e del sacrificio della carne per il soldo; non ha gridi di sdegno, non ha né meno dilettazione sadica; non approva, non condanna; è freddo, racconta. Tilde è la creatura dell'Olocausto; una magra vergine aggraziata, una primavera umana tarda e compressa; muore dopo la deflorazione e di peritonite. Allevata nel vizio e nella miseria, ha una ingenua onestà di rifiuto; tra la madre che vende, ex cortigiana invalida, ed una vicina di casa, parassita di lupanari, si spegne con una smorfia di terrore e di sdegno, per la verginità sanguinosa, lacerata e mercata.
Ogni cosa, i mobili in disordine, le tende, le lenzuola nella casa, ogni cosa bianca appare brutta e macchiata: anche il cielo azzurro ed aperto di Firenze è basso, nuvoloso, pesante.
L'Oriani ha accumulato tutti i colori oscuri della sua tavolozza, tutte le tinte tristi e smorte: non il tono rosso della rivolta efficace ha sopra posto a quell'ombre; di pallidi sorrisi si è accontentato d'illuminare la bocca dolorosa della martire.
Ai bei principii del documentismo letterario, verso il 1881, ciò avrebbe potuto bastare come tentativo di esperimento, come audacia di notazioni fisiche; il borghese si sarebbe spaventato ed interessato di un volume che narra una turpitudine senza scusarla e senza maledirla. Ora, cerchiamo qualche cosa di piú; non la semplice constatazione di fatto, ma la legge, non la fisica di un gesto, ma il rapporto di questi con gli altri; non una monografia, ma la filosofia della storia.
Per miseria, per ignoranza, per vizio, per egoismo, una fanciulla muore della prostituzione: ricerchiamone il perché generale, facciamo il processo alla società che permette non solo, ma che ordina, pena la morte di fame. Non è sufficiente dire: «Accade questo», ma è necessario soggiungere: «E questo è infame, ed è infame un ordine di cose che ciò lascia accadere». Alfredo Oriani tace, fossile novelliere.
Non mi sdegnerò delle sozzure esposte e delle brutalità salaci che le accompagnano: sono troppo corazzato di buona morale letteraria per farne caso. Vorrò lamentarmi invece della secchezza impersonale del racconto, il quale mi fa desiderare le squilibrate eroine di Gelosia e di Al di là, per quanto piú pericolose, perverse e superbe.
Non amo le prostitute ridotte a farsi procuratrici di piacere; non amo le acerbità delle carni violate senza arte e scienza d'amore. L'oltraggio grida alla vendicazione incondizionale e mi rivoltola il cuore boccheggiante di sdegno e di azione violenta; il delitto non può essere raccontato senza commozione, collo stile di una diagnosi medica e severa. In questo caso lo scrittore deve anche eccedere dovesse esserne condannato, perché la virtú dell'arte è nell'eccesso; deve scendere a battaglia armato di tutto l'odio e di tutte le sofferenze, o dimenticarsi di aver veduto, di sapere e di narrare: taccia. Preferisco all'impassibile, Nerone, che declama l'incendio di Troja sull'incendio di Roma, turbinante ai suoi piedi sotto la torre: ma questa è leggenda e per ciò bellezza.
L'Olocausto è troppo vero, è un dettaglio, non è sostenuto dalla imaginazione e per ciò non può essere tra le cose belle: io non credo che sia utile.
[In «L'Italia del Popolo», a. XI, n. 606, 2-3 settembre 1902.]