IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Queste pagine ed altre simili le abbiamo lette un po' per ogni dove, scorrendo i mille ed uno florilegi poetici che profumano sulla bella terra italiana, a proposito ed a sproposito. Si ripetono e si seguono con una disgraziata monotonia; ci annoiano ad ogni canto di via, come una sgolata canzonetta di Piedigrotta, sformata ed insulsa, nel girare pel mondo, sulle tavole lubriche dei Café-concerts; donde la carneval-nation ci rimane a titolo migliore, dopo quelli della pellagra e dell'analfabetismo.
Di tanto in tanto, perché le azioni editoriali piú valgono quanto piú bassa è la produzione che le macchine tipografiche danno fuori, questi bouquets di lirica e di stile per bene vengono raccolti, disposti in bell'ordine, e, dalle vetrine, si espongono, corbeilles per le nozze di una fastosa ignoranza e di un gusto niente raffinato.
Anche, appaiono, vecchie cocottes imbellettate, a richiamare di moine svenevoli e sentimentali, colle lustre dell'acconciatura e col lucicchio delle gemme false, il grosso provinciale che passa per la città, affaccendato alla compera dei grani e dei suini, promettendo. Ma, spesso, il provinciale, incappato nella ragna tesa, dopo l'atto ed il regalo non povero d'uso, tornando, nella mattina brumosa ai campi, va ripensando, tra il rullare e lo schiammazzare ferrato del treno, se quella Fanny di dubia stirpe nobile non valga meno della guardiana delle oche, ch'ebbe di sorpresa, sul margine, in un bel tramonto di sole.
Comunque, Fanny, corbeilles e raccolte liriche; siano femine appassite ed avariate; siano poveri fiori di serra, educati col fomento chimico e sforzati in terreni medicati, presto caduchi; siano lamentose e compiacenti colascionate, vanno per la maggiore ed hanno un pubblico di clienti non esiguo. Necessità di cronista mi sforza, qualche volta, a trovarmi con questo; onde, per vostro amore, la penitenza che mi infliggo in tale compagnia e la noia che mi procuro eccedono: cosí vogliatemi scusare, se, per tornar me stesso, abbia bisogno di non essere in tutto compito.
Or ora ho sfogliato il Cor Sincerum: e, della sincerità millantata in sulla copertina, ho trovato dentro la utilità del piaggiatore: il Panzacchi lo produce e gli è ministro, in isquisita veste, il Treves.
Cor Sincerum, versi, versi; tutta la gamma della metrica italiana; gamma danzante negli ottonari, gamma fluida negli sdruccioli, gamma saltellante nei settenarii, gamma piana dell'endecasillabo. Il pensiero del Panzacchi si sdraia volontieri nel letto piccolo e forzato di questa prosodia; il suo piccolo pensiero riempie egregiamente questo piccolo verso. Vi troverete la solita abilità, per cui ostenta un grande lavoro colla minore fatica; e tutto giova ai superficiali, perché è sommamente superficiale. Mio dio, trent'anni sono, quando la Scuola, cosidetta Bolognese, usciva pei tipi Zanichelli, sembrava una grande audacia ed al seguito del Carducci venivano lo Stecchetti ed il Panzacchi; l'ultimo non troppo ligio, né troppo deferente al maestro, ma assai esperto a sfuggire, vagellando, alle asperità dell'esistenza. Egli, compiacente il Sommaruga, componeva alcune novelle (Infedeltà) e ne faceva pompa come di capolavori; egli, compiacente la critica, sfoggiò i suoi versi, Nuove liriche ed il resto. Figlio d'autentici contadini (deve essere una sua frase) ascese a Montecitorio per sedere al Centro destro (ahi! il ventre della Costituente francese) soddisfatto e pingue di parecchie e rimuneratrici sinecure.
Cosí, altalenando tra i legislatori, apparendo il meno possibile alle obbligate lezioni del suo ministerio, passando qualche ora alla pinacoteca di Bologna, dove conserva le tele, trova modo di effondere il suo cuor sincero, nel Cor Sincerum.
Oh! si effonda, si diffonda, si riversi e si svuoti il piccolo cuore, nel piccolo verso. Tale, un giorno, non conformista, il Carducci sferzava:
Mirate,
o creature, il re di cuori.
Il mio cuore, il cuor vero;
e seguitava, samosatense lirico:
Egli
è tenero e duro, è dolce e forte,
Ariete ed agnello:
Come
tortora tuba, e rugge a morte
Peggio di un lioncello;
Questo cibreo del cuore, in verso e in prosa.
Perciò, sinceramente, qui pulsa, secondo il colore del tempo e l'opinione dei maggiori, che reggono la baracca del governo e l'arte. Mai di un fiotto caldo e nuovo, di un ardire personale immette vita alle arterie, anima alle carte. Il cuore è decente sopra tutto; sa dove giungono i confini della licenza e non entra in quel campo; schiva le insegne (nere e gialle, cosí io le ho viste sulla cima dello Stelvio ghiacciato, a dividerci dai fedelissimi Kaiser-jäger) che segnano il permesso, e fa suo campo in un corridoio di reggia.
Perciò, sinceramente, vi racconterà quanto meglio vorrà che sappiate per sua futura gloria o per opportunità presente di réclame; come egli, ad esempio, fu di tra coloro che vegliarono (e s'invoca all'amico Giacosa), Verdi morto (Verdi è morto!) perché è sempre bene essere il necroforo di un illustre; come anche inviato commissario italiano all'ultima Esposizione di Parigi, abbia voluto gettare una qualche poetica lordura sullo strascico della Parisienne, statua eretta, modernità di lusso e di ribellione antiacademica, in sul frontone della entrata; come, in fine, ad ogni lieto evento (non ricordiamo i funesti) de' Savoia, la sua chitarra pizzicasse l'obbligatorio epitalamio, battuta mitologica e cortigianesca, contagioso tripudio per greppie ufficiali, non avare di avena.
Non monta, cuore pallido, per cui la sistole e la diastole male soffiano e le valvole s'impacciano nell'adipe; non monta, ottimo cuore d'egoismo, cuor duro d'indifferenza alle comuni atrocità del giorno: il ricantare, sotto lo stellone d'Italia (noi tutto dí lo ripuliamo di lagrime; dicesi che il sangue ridoni al vecchio oro mirabili splendori) stellone, doppio pentaclo disabusato, doppia squadra massonica senza vírtú, tra le raggiere cinigliate del padreterno; il ricantare, a qualche cosa profitta. Profitta a messer Beckmesser la squisita sopercheria di svolgere curiosi e sinceri (oh, allora sinceri!) motivi da Pascoli, passandogli vicino non curarne in vista, ma attentissimo in fatto, come nelle Voci della Villa; profitta, senza che lo si accorga, di ripresentarsi in Certi Poeti, auto-prosopopea oh, qui sincera e modesta:
Occhieggianti con fiera bramosia
le allodolette immemori del sole,
e dilettanti di chinchaglieria.
Non cerchiamo, nei trumeaux poetici, se di questa chincaglieria araldica e cavalleresca si rinvengano esemplari; accontentiamoci di passar oltre e di assicurarci, che, in questo ordinato sinfoniale, gustoso alle orecchie comuni, noi non noteremo una frase nuova, un sentimento personale, una parola viva, un effetto di pensiero che lavori, un affetto convinto alle sofferenze e multiple; ma un lento, continuo, noioso zampillare di tisane medicate, da un mascherone uso classico di fontana spillato e saltellante nel bacino muto di gioia e torbido di preoccupazioni egoistiche.
Fiorirono, in tal modo, sotto ai pergolati del Brenta, i sonetti dell'Arcadia di Pier Emiliano Giudici, tra il belare delli agnelli ed il ruzzare dei caproni. Confesso, che, qualche volta, capriccio mi ispira di rileggerli: ed, a constatazione storica e per suggestione mi riportano davanti parrucche, zendali, guardinfanti, panciotti ricamati, moine e ventagli e spadini a verrocchio. Ma questa arcadia è morta; peggiore è l'arcadia che si ostina a vivere sotto l'occhio mirifico del sole del XX secolo, quando già un Walt Withman, un Mallarmé, un Tennyson ed un Tailhade hanno incitate le lettere per nuove avventure miracolose: taccia l'arcadia moderna; o, meglio, non chiameremo alla riscossa di nuovo il Carducci?
Un
buon beccajo rosso ed aitante
L'entragno d'un vitello
Infilò s'una picca; e, gocciolante,
Con tanto di cartello
Ove «Cuor d'aristocrate» in grandioso
Caratter nero scrisse,
Se lo portava intorno glorioso,
Con le pupille fisse.
. . . . . . . . . . . . . .
Venite, o buona gente, al cuore, al cuore!
Oh limpido Carducci, profeta non ancora rigovernato dall'Eterno feminino regale!
Ma, di una Teofania, tragedia, che Ugo Fleres, dal solio del «Fanfulla della Domenica» dove pontifica, invia all'orbe, che diremo? — Nulla se non che questa ci appare perfetta inutiliità.
Qui faccia la sua azione e la modernizzi, lasciando da parte lo sciolto di Alfieri e di Monti, per cullarsi nel martelliano, pallida contraffazione dell'alessandrino di Racine. Qui, in alcune battute ironiche, tenti uno Shakespeare di contrabbando, con tale ingenuità da irritare; qui in mezzo allo sfarzo della Corte Bizantina (non aveva che a ricorrere alla Teodora di Sardou, per arricchirsi di erudizione istrionica) passano i casi tumultuosi di una fine di regno e di millennio, in cui, nella decadenza delle armi, nella mollezza delle lettere, nella cortigianeria spavalda, nelle congiure di palazzo si succedevano li imperatori e permanevano le imperiali Messaline ora insediate al Bucoleon, ora relegate nei conventi di Morea e del Corno D'Oro.
La Teofania del Fleres è poco di tutto ciò: l'eroina è una indecisa amorosa che vuole e disvuole; Giovanni d'Armenia, lo Zimisce, è un primo uomo debole di voce e di prestigio; i congiurati delle marionette, a cui i fili sono messi da capriccio inspiegato; la folla, il coro, urla alcune grida sconnesse e stupisce sempre; la folla, il personaggio piú nobile e piú difficile per il trageda, ridotta ad una comparsa.
Teofania, nella storia fu ben altra creatura. La Raccolta degli storici bizantini, incominciata da Agatia di Mirina semplice e corrente e completa da Niceforo Gregorio, iperbolico e lezioso, la Scielta di cronografia di Giorgio il Sincello, ben altro tipo ci danno della Despoina, eccessivamente mutevole di desiderii erotici, cinicamente uxoricida. Riassumiamo: sapremo, che Teofane, o Teofanone, o Teofania, come vuole piú italicamente il Fleres, portò, nel palazzo della Santa Saggezza, i vizii della natia taverna, rispecchiando, con meno ingegno ed assai ipocrisia, Teodora cui non poté offuscare. Sapremo, che, sposa prima a Romano, figlio di Costantino VIII, un Basileo piú artista e letterato e musico che re, avvelenò di farmachi e di voluttà il marito. Sapremo che i puttini autocrati, Basilio e Costantino IX, vennero privati del trono da un amasio della madre, sciancato e crudele, Niceforo Foca, terrore dei nomadi arabi e del clero bizantino, a cui smussò le corna e tolse privilegi; finché, un Giovanni Zimisce, il d'Armenia, stratega e politico, entrato nelle grazie, per mutabilità di appetiti, della Basilissa lo scannò dormiente, e, lei, per farsi perdonare il delitto e non perdere il dominio, rinchiusa in un convento, doppia assassina e complice sua. Donde trova modo, morto di veleno il Giovanni, di riuscire con un nuovo drudo Basilio, associata all'impero dei due figlioli, finalmente emancipati.
Fra tanto in torno, erano guerre contro gli Arabi e per i Bulgari; sfarzo di reggia, di ricchezza, d'apparati da stupire il Longobardo Leitoprando, vescovo, mandato in ambascieria da Berengario d'Italia; vi erano pragmatiche di etichetta e di preminenze, per cui il Sebaste, il Protosebaste, il Protovestiario, il Panispersebaste ed il Gran Drungario si bisticciavano vivacemente nelle processioni.
Il Basileus si faceva adorare, il Sebastocratore non scriveva che con cinabro, intorno al Cathisma si cantava il salmo: «Ponesti i nemici miei a sgabello dei piedi miei», il popolo ripeteva quaranta volte: Kyrie eleison. Tutto questo sapremo: per ciò alla Teofania, che muore pugnalata da un geloso dell'ultima ora, alla incoronazione di Giovanni d'Armenia, per la dovuta crisi della tragedia, noi non crederemo, di ben altre rappresentazioni bizantine compresi, di maggior movimento di folle variopinte e sgargianti, di ben altri tumulti sanguinosi, di ben altre esplosioni di passione. Noi vi citeremo, tra le nostre conoscenze moderne, per non ricercare le fonti antiche e greche, che forse impacciano il Fleres, una Byzance di Jean Lombard, evocatore di un'epoca; vi ricorderemo Les Byzantins, Princesses Byzantines, Basile et Sophia, drammi ed epopee indimenticabili di Paul Adam.
Ma Ugo Fleres non sa od ha dimenticato; e fa bene; per essere convinti del proprio valore, non è mai conveniente porsi in paragone: una fiammella, che splenda solitaria per una notte affatto buia, si pretende un sole: tal sia. Ma qualche stella, annubilata dal capriccio della nebbia, le può rispondere, classicamente celiando: Me lucente, silebit. Che, se non rampogna per cortesia, si schiva per non mettersi in giostre e sorride, silenziosamente.
[In «L'Italia del Popolo», a. XI, n. 686, 20-21 novembre 1902.]