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Prospetto del palazzo di Menelao in Sparta.
Elena si avanza, attorniata da un coro di prigioniere trojane. Pantalide, corifea.
Elena. Io, Elena, tanto ammirata e tanto vituperata, qui giungo dalla spiaggia ove siamo sbarcate, — ancora sconvolta dall'ondeggiare dei marosi che dai campi di Frigia, sul loro dorso spumoso e sublime, col favore di Poseidon e colla forza di Euro, ci portarono nel golfo della patria. Laggiù, a quest'ora, il re Menelao si rallegra del ritorno, circondato dai suoi più prodi guerrieri. Ma tu, accoglimi come un'ospite a te gradita, palazzo sublime che Tindaro, mio padre, ritornando dalla collina di Pallade, innalzava secondo il suo gusto, e ch'egli teneva arredato con magnificenza fra tutti i palazzi di Sparta, quando io cresceva insieme a Clitennestra amandola come una sorella, ed in compagnia di Castore e di Polluce passavo i miei giorni nei più allegri divertimenti. Salvete o voi battitoi della gran porta di bronzo, che nell'aprirsi ospitaliera, fu cagione che il prescelto fra tutti, Menelao, mi apparisse splendido sotto le sembianze del fidanzato. Apriti un'altra volta dinanzi a me, che io adempia fedelmente un messaggio del re, come conviene alla sposa. Lascia che io penetri! che ogni cosa rimanga dietro di me; tutto quanto fino a questo giorno mi colpì con triste fatalità! Poiché dal momento in cui, fiduciosa, io abbandonava questi luoghi per visitare il tempio di Citerea, come era mio sacro dovere, colà ove l'uomo di Frigia stese su di me la sua mano rapace, successero tante di quelle cose che gli uomini raccontano molto volontieri, ma che non sono udite con piacere da colui che sente la sua storia, sempre più alterata, e che finisce poi in una favola.
Il Coro. Non sdegnare, o nobile donna, il glorioso possesso del più grande di tutti i beni! perché a te sola è concessa la più grande felicità, la gloria della bellezza sopra tutte meravigliosa. L'eroe è preceduto dal famoso suo nome, e perciò egli cammina superbo. Ciò nondimeno l'uomo più inflessibile sente il suo spirito soggiogato dinanzi alla bellezza che tutto doma.
Elena. Or bene! Io approdai qui col mio sposo, ed ora per ordine suo lo precedo nella sua città. Eppure da qual sentimento è egli animato? Non lo posso indovinare. Vengo io qui come sposa? come regina? come vittima destinata ad espiare l'acerbo dolore del principe, i rovesci dei Greci sofferti da sì lungo tempo? Sono io sua conquista o sua prigioniera? lo ignoro, perché gl'immortali mi hanno serbata una fama, un destino equivoco, fatali satelliti della bellezza, che colla loro presenza cupa e minacciosa mi tormentano fino su queste soglie. E già, dal fondo della nave, lo sposo non mi guardava che a rari intervalli; nessuna parola benevola usciva dalla sua bocca. Egli sedeva dinanzi a me, come se la sventura fosse l'oggetto dei suoi pensieri; e al nostro arrivo nella profonda baja dell'Eurota, appena che le prue delle navi salutarono la spiaggia, egli disse, come inspirato dalla divinità: "Qui scendano con ardire perfetto i miei guerrieri, ond'io li passi in rassegna sulla riva del mare. Ma tu, va più lungi; segui la riva abbondante di frutti del sacro Eurota, avviando i corsieri sui prati rugiadosi, fino a che tu raggiunga la ricca pianura ove Lacedemone, — un tempo campo vasto e fertile circondato da un vicino cerchio di aspre montagne; — ove Lacedemone, dico, fu costrutta. Entrerai quindi nella casa reale fortificata, e passerai in rassegna le ancelle che io vi lasciai, come vecchia e prudente massaja. Là tu vedrai i ricchi tesori che tuo padre ed io stesso, sia in guerra come in pace, aumentandoli sempre, vi abbiamo accumulati. Troverai ogni cosa in bell'ordine perché è prerogativa del principe ritrovare al suo ritorno ogni cosa nel luogo ove egli l'aveva lasciata: non avendo il servo facoltà di effettuare da sé il più piccolo cambiamento.
Il Coro. Appaga or dunque gli occhi in questo magnifico tesoro, sempre accresciuto, e dilata il cuore. Poiché le guarniture delle catenelle e il bagliore della corona, stanno là vantandosi di essere pur qualche cosa. Entra e li provoca, e saranno ben presto in armi. Io gioisco nel vedere la bellezza scendere in campo coll'oro, colle perle e colle pietre preziose.
Elena. Così continuò il signore con voce imperiosa: "Quando avrai, secondo il mio ordine, visitato ogni cosa, prendi tanti tripodi quanti ne crederai necessari, ed i diversi vasi di cui il sacrificatore ha bisogno di avere alla mano, per compiere il sacro rito; le caldaje e le coppe, come pure il cilindro. Che l'onda la più pura delle sacre sorgenti sia chiusa in grandi anfore; oltre a ciò, non lasciate che manchi legna secca, che la fiamma rapidamente possa divorare. Sia pure pronto un coltello ben affilato; lascio poi a te la cura del rimanente." Così disse, spingendomi alla partenza; ma nel suo comando non fece cenno della vittima da immolarsi in onoranza agli Olimpiadi. Questo merita che vi si pensi; eppure non voglio pensarvi più; e che ogni cosa accada secondo il volere degli dei! Che gli uomini percorrano la buona o la cattiva via, noi mortali dobbiamo rassegnarci. Già parecchie volte il sacrificatore alzò nel momento del sacrifizio la pesante scure sulla testa ricurva dell'animale, senza ch'egli potesse compiere l'atto augusto, perché trattenuto dall'intervento del nemico incalzante o da qualche divinità.
Il Coro. Quanto deve accadere non puoi imaginarlo, o regina; avviati là coraggiosamente! Il bene ed il male giungono inattesi all'uomo; e quand'anche fosse avvisato, egli non vi presterebbe fede. Troja andò in fiamme; abbiamo veduto la morte dinanzi a noi, morte ignominiosa ed infame. Ed ora non siamo noi qui tue compagne; felici di servirti non miriamo noi forse lo splendido sole del cielo e quanto havvi di più bello sulla terra, tu, vogliam dire, con nostra grande felicità?
Elena. Avvenga ciò che vuole! Qualunque sia il destino che m'aspetta, devo senza indugio ascendere nella casa reale che da lungo tempo deserta, rimpianta e quasi perduta, s'innalza ancora non so come, dinanzi ai miei occhi. I miei piedi non salgono più sì leggeri gli alti gradini sui quali io volava nella mia ardente fanciullezza.
Il Coro. Scacciate, o mie sorelle, voi, infelici prigioniere, scacciate ogni triste pensiero! Dividete la gioja della vostra sovrana, la rara ventura d'Elena che s'avanza verso il focolare paterno con passo lento e tardo, ma però fermo e risoluto! Ringraziate i santi numi, propizi riparatori, i numi protettori del ritorno! Chi riacquista la libertà sormonta a volo le più ardue vette, mentre il prigioniero in preda ai suoi desiderii si strugge e stende invano le braccia dall'alto delle mura della sua cella. Ma un dio prese l'esule e dalle rovine d'Ilio la portò qui nell'antica casa degli avi, nuovamente adornata, affinchè dopo indicibili gioje ed angosce, riavutasi, ella rammentasse i bei giorni dell'età primitiva.
Pantalide (corifea). Lasciate i canti festosi, e volgete il vostro sguardo alle imposte della gran porta! — Che vedo, sorelle? La regina non ritorna ella verso di noi, con passo celere e tutta sbigottita? Che fu, grande regina? Che hai tu dunque trovato di spaventoso nelle vaste sale del tetto paterno invece dell'affettuoso saluto dei tuoi? Non potresti nasconderlo, perché leggo sulla tua fronte l'affanno, la sorpresa mista alla nobile ira che ti accende.
Elena (commossa, lasciando la porta spalancata). La tema volgare mal s'addice alla figlia di Giove, e l'ala di uno spavento passeggiero la sfiora appena; ma il terrore che uscito fin dal principio dal seno dell'antica notte, irrompe sotto mille forme, come le nubi infuocate irrompenti dall'infiammato abisso della montagna; — un simile terrore scuote il petto dell'eroe. Per questo le terribili potenze dello Stige mi hanno oggi designato la soglia della casa, affinchè pari all'ospite che si scaccia, io fossi ridotta ad allontanarmi con gioja da un limitare spesso varcato, e verso il quale erano diretti i miei sospiri. Ma no! io me ne fuggii in pieno meriggio, e voi non mi scaccerete più oltre, potenze, qualunque voi siate! Voglio tentare un sacrificio, affinché dopo la purificazione, la fiamma del focolare saluti la sposa, come saluta lo sposo e monarca.
Il Coro. Rivela, o nobile donna, rivela alle tue ancelle che ti circondano rispettose, ciò che ti è accaduto.
Elena. Ciò che io vidi, lo vedrete coi vostri occhi stessi, a meno che la notte non abbia tosto inghiottito l'opera sua nel seno dei suoi abissi, da dove sfuggono i prodigi; ma affinchè lo sappiate, ve lo dico ad alta voce: mentre io attraversava con passo solenne l'austero vestibolo della casa reale, pensando ai miei nuovi doveri, il silenzio di quel religioso e deserto revinto mi sorprese. Né lo strepio sonoro di gente che va e viene colpì il mio orecchio, né l'affaccendarsi sollecito e vigilante si presentò ai miei occhi; non un'ancella m'apparve, non una massaja, di quelle che nei giorni andati salutavano affabilmente ogni straniero. Intanto, mentre io mi avvicinava al focolare, scorsi, vicino ad un tizzo riarso e ridotto in cenere, seduta sul suolo, non so qual donna alta di statura e velata, nell'atteggiamento della meditazione piuttosto che del sonno. La mia voce sovrana l'invita al lavoro, stimandola dapprima una fantesca posta là dalla previdenza del mio sposo; ma ella rimane impassibile, avviluppata nel panneggiamento della sua tunica. Da ultimo, ella alza in seguito alla mia minaccia, il suo braccio destro, come per scacciarmi dall'atrio e dalla sala. Irritata, mi volto e salgo i gradini del palco sul quale posa il talamo sontuosamente guernito, vicino alla stanza del tesoro. La visione si alza anch'essa, e, attraversandomi il passo con gesto imperioso, si mostra a me nella sua gigantesca statura, scarna, cogli occhi infossati, livida e sanguinante, come un truce fantasma che turba la vista e lo spirito... — Ma io parlo invano, ché la parola non è capace di descrivere un simile aspetto. — Guardate voi stesse! essa non teme la luce! Noi solo possiamo regnare qui fino all'arrivo del nostro signore e sovrano. Febo, l'amico della bellezza, ricaccia ben lungi nelle tenebre gli schifosi fantasmi della notte, o li soggioga e sottomette.
(Una Forcide si avanza sul limitare, in mezzo ai battenti della porta.)
Il Coro. Io vissi lunghi anni, sebbene la mia bionda capigliatura ondeggi intorno alle tempie; io vidi molte scene d'orrore, le desolazioni della guerra, e la notte in cui Ilio cadde. In mezzo ai nembi di polvere ed al feroce scontro dei guerrieri, udii gli dei gridare con voce terribile; e lo strido della Discordia rimbombare lungo la pianura dalle parti dei bastioni.
Ahimè! le mura d'Ilio erano ancora in piedi; ma la vorace fiamma si avvicinava stendendosi qua e là, portata dall'infuriare del vento sulla trista città.
Vidi fuggenti, attraverso il fumo e le brage, attraverso i turbini dalle cento e mille lingue di fuoco, avanzarsi i corrucciati numi; vidi camminare forme strane, gigantesche, in mezzo a densi vapori illuminati da ogni parte.
Se io abbia veduto tanta confusione, o se il mio spirito in preda alle più vive angustie, se la sia figurata, non lo potrei dire; ma ora che io contemplo questo mostro coi miei propri occhi, oh! non posso dubitare. Lo toccherei colle mani se la paura non mi trattenesse! Quale delle figlie di Forco sei tu dunque? perchè suppongo che tu appartenga a quella razza. Saresti tu mai una di quelle Graie nate decrepite, che hanno fra tutte e tre un sol occhio ed un sol dente che va da una all'altra per torno?
Ardisci tu, o mostro, di comparire vicino alla bellezza, di mostrarti alla vista di Febo che ti smaschera? Non importa, vieni pure avanti, egli non vede la deformità, come appunto il suo sacro sguardo non vide mai ombra di sorta.
Ma noi, nate mortali, pur troppo! siamo condannate a vedere inaudite sconcezze che l'ignobile e maledetto dall'eternità svela ai cuori amanti della bellezza. Ascolta dunque tu, che ci sfidi arrogantemente, odi la maledizione, odi l'invettiva e la minaccia uscire dalla bocca nemica delle felici creature formate dalla mano degli dei!
La Forcide. È vecchia sentenza, il cui senso resta sempre oscuro quanto verace, che la Pudicizia e la Bellezza non vanno mai assieme, tenendosi per mano, attraverso i verdi sentieri della terra. In entrambe dura un odio inveterato che ha profonde radici. Qualunque sia il luogo ove esse s'incontrano, ognuna volge le spalle all'altra, e prosegue dopo la sua strada, afflitta la Pudicizia, la Beltà superba e tracotante, finché la notte tenebrosa dell'Orco le avvolge finalmente, se non furono domate prima della vecchiaia.
In quanto a voi, sfacciate, piene ancora della baldanza dei paesi stranieri, mi sembrate uno sciame strepitoso e rauco di gru che vola in lunghe file nell'aria, e fa sentire dall'alto il suo crocidare, i cui suoni costringono il tacito viaggiatore ad alzar la testa; le gru proseguono il loro viaggio, lui segue la sua via: e così sarà di noi.
Chi siete voi dunque, voi che pari a furibonde Menadi, pari a donne ubbriache, ardite suscitare il disordine nel sublime palazzo del re? Chi siete voi dunque, voi che abbajate alla fantesca della casa come la muta di cani alla luna? Credete voi che io ignori a qual razza appartenete? — Tu, giovane creatura generata nelle guerre, cresciuta nei combattimenti, lussuriosa, sedotta e seduttrice ad un tempo, fiacchi volta a volta la forza del guerriero e del cittadino! Nel vedervi in gruppi, sembrate uno stormo di cavallette cadute sulle bionde messi! — Voi sciupatrici del lavoro straniero, ghiotte, e flagello della nascente prosperità; e tu, merce involata, venduta al mercato, e cangiata!
Elena. Sgridare le ancelle al cospetto della loro signora, è usurpare i diritti della casa; perché alla sola sovrana compete di distribuire lodi e castighi. Io sono soddisfatta dei servizi ch'esse mi resero quando la sublime rocca d'Ilione fu assediata e cadde, e quando sopportammo i comuni travagli della vita errante, dove ciascuno pensa a sé. Qui faccio ancora calcolo sul vigile drappello. Il padrone non chiede ciò che sia lo schiavo, ma solo come egli è capace di servire; e perciò t'impongo di tacere e di non farti beffe di loro più a lungo. Hai tu ben custodito la casa reale invece della sovrana? Ciò ti porterà fortuna; ma ora ella ritorna, ed è tuo dovere cedere il passo, affinchè tu non deva ricevere il castigo invece della meritata ricompensa.
La Forcide. Minacciare gli ospiti della casa rimane un illustre diritto che la nobile sposa del sovrano amato dagli dei si è acquistato con molti anni di saggio governo. Dacché riconosciuta solo da oggi, vieni di nuovo ad occupare il tuo antico grado di regina e di padrona, afferra le redini da lungo tempo abbandonate; mettiti ora al governo, e prendi possesso del tesoro e di noi. Ma prima di tutto proteggi me, la più attempata, contro questo gregge di fanciulle, che vicino al cigno della bellezza, non sono guari più che oche spennate e ciarliere.
La Corifea. Oh! come la bruttezza riesce orribile vicino alla beltà!
La Forcide. Oh! come la sciocchezza riesce sciocca vicino alla ragione!
(Da questo punto ciascuna delle donzelle replica, uscendo fuori dal drappello.)
Prima del Coro. Parlaci dell'Erebo tuo padre, e di tua madre la Notte.
La Forcide. E tu parla di Scilla, tuo cugino germano.
Seconda del Coro. I mostri popolano il tuo albero genealogico.
La Forcide. Va! cerca nell'Orco la tua parentela.
Terza del Coro. Coloro che abitano colà sono tutti troppo giovani per te.
La Forcide. Va ad amoreggiare col vecchio Tiresia.
Quarta del Coro. La nutrice d'Orione è tua pronipote.
La Forcide. Immagino che le Arpie ti hanno allevata nelle immondezze.
Quinta del Coro. Con che cosa nutrì quella magrezza sì ben conservata?
La Forcide. Non è certo colla carne di cui sei tanto ghiotta.
Sesta del Coro. Tu non puoi essere avida che di cadaveri, cadavere tu stessa ributtante.
La Forcide. Denti di vampiro brillano nella tua arrogante boccaccia.
La Corifea. Io chiuderò la tua se dico chi sei.
La Forcide. Pronunzia per la prima il tuo nome, e non vi saranno più enimmi.
Elena. Io mi avanzo fra di voi senza collera, ma afflitta, e vi ordino di terminare un simile alterco. Nulla è più fatale al sovrano che la collera dei suoi fidi servi, alimentata in segreto: l'eco dei suoi ordini non gli torna più così armonico nell'azione rapidamente compita; molte voci ribelli brontolano intorno a lui, che smarrito, rimprovera invano. V'ha di più: nella vostra collera sfienata, voi avete ridestato delle funeste immagini, le quali mi circondano sì tenaci, che a dispetto delle verdi pianure della mia patria mi sembra di essere trascinata verso l'Orco. È forse un ricordo? Fu essa un'illusione? sarei io dunque il sogno, il fantasma di questi sovvertitori di città? Le fanciulle fremono; ma tu, la più attempata di tutte, tu che non hai perduta la calma, rispondimi e fa in modo che le tue parole siano intelligibili.
La Forcide. A chi rammenta le varie gioje per lunghi anni godute, il favore dei numi sembra un sogno; ma tu colmata oltre misura non hai trovato nel corso della tua vita che amanti trascinati dal desiderio alle più temerarie imprese. Teseo, acceso di lubriche vampe, ti adocchiò ben presto, Teseo, potente come Ercole, giovane, bello e nobile!
Elena. Egli mi rapì, svelta cervetta di dieci anni, e la borgata d'Afidna, nell'Attica, mi accolse fuggitiva.
La Forcide. Salvata poco dopo da Castore e Polluce, fosti corteggiata da una scelta schiera di eroi.
Elena. Eppure il mio segreto favore, lo confesso di buon grado, fu ottenuto da Patroclo, che tanto rassomiglia al Pelide.
La Forcide. Ma la volontà di tuo padre ti unì a Menelao, ad un tempo ardito navigatore e savio custode del focolare domestico.
Elena. Il genitore gli affidò sua figlia e l'amministrazione del proprio regno; il rampollo di quest'imeneo fu Ermione.
La Forcide. Ma mentre il tuo sposo andava lontano a conquistare con valore l'eredità di Creta, t'apparve un ospite nella tua solitudine, un ospite dotato di troppa bellezza!
Elena. Perché rammentarmi un tempo scorso in una mezza vedovanza, e le atroci sciagure che ne risultarono per me?
La Forcide. A me pure, che ebbi i natali in Creta, quell'impresa fu cagione di una lunga schiavitù.
Elena. Lo sposo ti elesse nello stesso tempo massaja qui, confidando non poco in te: la borgata ed il tesoro conquistato colle armi.
La Forcide. Che tu abbandonavi, rivolta verso le mura d'Ilio, ed alle gioje inesauste dell'amore...
Elena. Non rammentarmi quelle gioje: immense ed atroci angosce m'oppressero il cuore e la mente.
La Forcide. Ma corse allora la voce che tu apparisti come doppio fantasma in Ilio ed in Egitto.
Elena. Non accrescere il turbamento dei miei desolati sensi; già fin d'ora io non so chi io sia,
La Forcide. Si dice inoltre che Achille, fuggito dall'impero delle ombre, venne contro tutte le leggi del destino, ad unirsi focosamente a te ch'egli aveva tanto amata.
Elena. Io, fantasma, mi congiungo a lui, fantasma esso pure; era un sogno, le parole stesse lo affermano; io svengo e divento un fantasma per me stessa.
(Ella cade fra le braccia delle ancelle.)
Il Coro. Taci, taci, gelosa calunniatrice dalla bocca schifosa, provveduta di un sol dente! Che può mai uscire di buono da quelle fauci spalancate?
Il tristo che si finge buono, il lupo rabbioso sotto la pelle della pecora, mi spaventano assai più che il furore del cane dalle tre teste. Noi siamo inquiete, e ci domandiamo quando, come e dove ci venne quest'orribile mostro che veglia nelle tenebre.
Perché ora, invece di recarci conforto, e di spandere su di noi un fiume di dolci ed amichevoli parole, vai frugando nel passato, ricercando a preferenza il male che il bene, e lo splendore del presente si va oscurando insieme alla dolce luce della speranza dell'avvenire. Taci, taci! che l'anima della regina presso a fuggire, rimanga ancora, e conservi le più belle forme che il sole abbia mai rischiarato!
(Elena va rinsensando, e si rifà in piedi in mezzo al coro.)
La Forcide. Esci dai lievi vapori, splendido sole di questo giorno, tu che ci rapivi sebbene fossi velato, ed ora regna nella tua gloria sfolgoreggiante! Guarda tranquillo e sereno il mondo dilatarsi dinanzi ai tuoi occhi! Esse hanno un bel chiamarmi la schifosità, io però riconosco la bellezza.
Elena. Io esco fuori vacillando dal vuoto che mi circondava nella vertigine; vorrei ancora abbandonarmi al riposo; le mie membra sono stanche; ma le regine e gli uomini devono farsi animo e ricuperare le forze qualunque sia l'evento che li ha colpiti.
La Forcide. Tu ci stai dinanzi in tutta la tua maestà e bellezza; il tuo sguardo dice che hai comandato; che cosa comandi tu? Parla.
Elena. Si riacquisti il tempo perduto in arroganti litigi, e si compia con premura il sacrifizio ordinato dal re.
La Forcide. Ogni cosa è pronta, la coppa, il tripode, la scure aguzza; l'acqua lustrale, l'incenso: indicaci la vittima.
Elena. Il re non l'ha indicata.
La Forcide. Non te l'ha detto? O che pena!
Elena. Quale affanno ti stringe il cuore?
La Forcide. Regina, la vittima sei tu stessa!
Elena. Io?
La Forcide. E tutte costoro.
Il Coro. O sventura e disperazione!
La Forcide. Tu cadrai sotto la scure.
Elena. Orrore! Ma io l'ho presentito, me infelice!
La Forcide. Ciò mi sembra inevitabile.
Il Coro. Oh noi infelici! E qual è il nostro destino?
La Forcide. Ella morrà di nobile morte; ma voi, come fringuelli presi nelle reti del cacciatore, vi dibatterete sospese intorno all'alto balcone che sorregge la compagine del tetto. (Elena e le ancelle in atto di stupore e di raccapriccio, formano un gruppo armonicamente disposto.)
Fantasmi! Simili a statue immobili, voi state là, spaventate di dovervi separare dal giorno che non vi appartiene. Gli uomini, questi spettri che vi rassomigliano, non rinunziano volontieri all'augusta luce del sole; non una sola voce intercede per essi, nessun potere li può salvare dal destino. Essi lo sanno tutti; sono ben pochi coloro che vi si sottomettono. Non importa, voi siete condannate. Dunque, all'opera! (Batte palma a palma, ed entrano tosto parecchi nani colla maschera sul viso, che si affaccendano ad eseguire gli ordini.) Vieni qui, tu, mostro tenebroso, e dalla forma sferica! Va a rotolarti da questa parte! Coraggio! Vi è qui molto male da operare; satollatevi pure; fate posto all'altare dai corni d'oro! Che la scintillante scure sia deposta sulla sponda d'argento; riempite d'acqua le anfore per lavare l'orribile macchia del sangue nero, e spiegate sulla polvere il prezioso tappeto, affinchè la vittima s'inginocchi regalmente, e sia deposta — col capo, è vero, spiccato dal busto, — ma sempre con dignità!
La Corifea. La regina sta pensosa; le giovani donzelle si abbattono come l'erba mietuta dalla falce. A me dunque, a me, la maggiore di tutte, spetta il sacro dovere di scambiare la parola con te, vecchia decana. Tu hai l'esperienza e la saggezza; sembri pure essere ben disposta verso di noi, sebbene questa spensierata schiera ti abbia a tutta prima provocata. Io ti chiedo dunque se ci rimane una qualche via di salvezza.
La Forcide. Ne resta una sola e praticabilissima. Sta in mano della regina di salvare se stessa e noi tutte assieme; ma bisogna decidere senza indugio.
Il Coro. Oh la più rispettabile delle Parche! la più saggia delle Sibille! tieni aperte le forbici d'oro. Annunziaci subito lo scampo e la salvezza, perchè sentiamo già i brividi scorrerci per le ossa, e già spinte dai venti ci sembra che le nostre delicate membra ondeggino, mentre ben più dolce sarebbe rallegrarci nella danza, per riposarci dopo sul seno del nostro amante.
Elena. Lasciate fremere. Io sono afflitta, ma non spaventata. Ma se tu conosci un mezzo di salvezza, esso sarà accolto con gratitudine. All'anima saggia e perspicace, l'impossibile si rivela talvolta possibile; parla e manifesta il tuo pensiero.
Il Coro. Oh! sì, parla, mostraci presto come potremo sfuggire a questi orribili capestri che già sembra ci circondino il collo, pari a funesti collari. Ci manca già il respiro, o noi disgraziate, e moriremo soffocate anzi tempo, se tu, augusta madre di tutti gli dei, o Rea! non avrai pietà di noi.
La Forcide. Sarete voi abbastanza pazienti per sentire in silenzio svolgere la tela di lungo discorso? Vi ha più di una storia da raccontare.
Il Coro. Sì, saremo pazienti! Mentre ascoltiamo noi vivremo.
La Forcide. Per chi rimasto a casa a custodire il ricco tesoro, assoda gli alti muri della sua dimora, assicura il tetto contro l'uragano, per costui tutto andrà bene durante i lunghi giorni della vita; ma colui che varca facilmente con passo fuggitivo la sacra soglia della sua abitazione, egli trova al suo ritorno l'antico luogo, è vero, ma tutto cambiato, se non forse distrutto.
Elena. Dove vanno esse a parare codeste ben note sentenze? Tu dicevi di voler raccontare; non ridestare dunque alcun doloroso ricordo.
La Forcide. Quanto io dico è storia, e non un rimprovero. Menelao è corso da vero pirata di golfo in golfo; le spiagge, le isole, tutto fu da lui invaso, ritornando carico del bottino accumulato in questo palazzo. Egli rimase dieci lunghi anni dinanzi ad Ilio. Ignoro quanti ne impiegasse per il ritorno. Ma che si fa ora nel sublime palazzo di Tindaro? In quali condizioni si trova ora il regno?
Elena. L'invettiva è essa dunque così incarnata in te, che tu non possa muovere le labbra senza che il biasimo le sfiori?
La Forcide. Per molti anni ancora rimarrà deserta la montuosa vallata che si stende al nord di Sparta, — col Taigete a tergo, — dove, come un allegro ruscello scorre l'Eurota e viene in seguito, attraverso i canneti della nostra pianura a nudrire i nostri cigni. Nondimeno laggiù, dietro la montuosa vallata, prese stanza una razza avventuriera, uscita dalla notte cimmeria; sorse colà un borgo fortificato, inaccessibile, da dove quella razza domina a suo grado, la terra e gli abitanti.
Elena. Essi hanno potuto compiere una simile impresa? Ciò sembra impossibile.
La Forcide. Non è il tempo che fece loro difetto; essi ebbero circa vent'anni.
Elena. Hanno essi un capo? Sono forse masnadieri numerosi ed uniti?
La Forcide. Non sono masnadieri; ma essi sono diretti da un capo. Non ne dico del male, sebbene egli mi abbia già fatto soffrire. Egli poteva prendere tutto eppure si accontentò di lievi presenti, ai quali egli diede il nome di tributo.
Elena. Chi è costui?
La Forcide. È un uomo vivace, ardito, ben fatto, insomma un uomo saggio come ben pochi se ne vedono fra i Greci. Quel popolo viene chiamato barbaro; ma io penso che non vi si troverebbe un solo uomo crudele al pari di più di un eroe che fu veduto comportarsi come un antropofago sotto le mura d'Ilione. Io feci calcolo sulla sua grandezza d'animo, e mi diedi in sua balia. E il suo castello! Bisogna vederlo! È ben diversa cosa da queste massicce mura fabbricate alla meglio dai vostri padri, con informi massi ciclopici, ammucchiati gli uni sopra gli altri. Là tutto è artistico e simmetrico. Guardatelo dal di fuori; egli si slancia verso il cielo, dritto, fortemente costrutto, levigato come l'acciajo! Al solo pensare di arrampicarsi su quelle mura si sentono le vertigini. All'interno, ampi cortili circondati di opere architettoniche di ogni genere, e per qualunque uso. Là, colonne, colonnine, volte, archi acuti, balconi e gallerie dalle quali si vede ad un tempo l'interno e l'esterno, — non che i blasoni.
Il Coro. Che cosa intendi di dire con questi blasoni?
La Forcide. Ajace aveva dei serpenti attorcigliati, sul suo scudo; voi stesse l'avete veduto. I sette, dinanzi a Tebe, portavano, ognuno sul proprio scudo, ricche figure scolpite e tutte simboliche. Là scorgevansi la luna e le stelle sul firmamento notturno, dee, eroi, scale, faci e giavellotti, e tutto quanto serve per minacciare una città. Dal tempo dei suoi antenati, la nostra schiera di eroi porta nello splendore dei colori simili imagini; leoni, aquile, artigli, becchi, indi corna di buoi, ale, rose, piume di pavone; ed anche strisce d'oro e d'argento, rosse, nere ed azzurre. Simili immagini pendono in fila nelle sale vaste, immense come il mondo! Là voi potreste danzare a vostro bell'agio.
Il Coro. Di' un po', vi sono pure colà i ballerini.
La Forcide. I più leggiadri! Drappelli con roseo volto, con biondi capelli inanellati, olezzanti di gioventù. Da Paride soltanto emanava quel profumo di giovinezza, quand'egli venne troppo vicino alla regina.
Elena. Tu vai fuori di carreggiata: dimmi l'ultima parola.
La Forcide. Tocca a te di pronunziarla, proferisci solennemente un sì, ed io farò in modo che questo castello ti circondi all'istante.
Il Coro. Oh, proferiscila, questa breve parola, e salvati salvando noi pure!
Elena. Come! devo io credere che il re Menelao si mostri abbastanza crudele per farmi soffrire?
La Forcide. Hai tu dunque dimenticato come egli abbia mutilato il tuo Deifobo, il fratello di Paride, ucciso nel combattimento; Deifobo che ti conquistò, tu, vedova, dopo tanti sforzi, ed ebbe la fortuna di sposarti? Egli gli tagliò il naso e le orecchie, e ne mutilò più d'uno nella stessa guisa. Era cosa orribile a vedersi.
Elena. Lo trattò così per cagion mia.
La Forcide. Egli ti tratterà del pari. La bellezza è indivisibile. Chi l'ha posseduta intera, l'annienta maledicendo piuttosto che di condividerla. (Trombe festive da lungi. Il coro è colto da spavento.) Come il suono acuto della tromba lacera l'orecchio e scuote le viscere, così la gelosia s'aggavigna al cuore dell'uomo, il quale non dimentica mai quanto ha posseduto, e quanto ha perduto.
Il Coro. Non odi tu un echeggiar di trombe? Non vedi tu da lungi un luccicar d'armi?
La Forcide. Sii tu il benvenuto, mio signore e mio sovrano! Eccomi pronta a darti conto del mio operato.
Il Coro. Ma noi!
La Forcide. Lo sapete bene; voi vedete la sua morte dinanzi ai vostri occhi, e nella sua morte presentite la vostra. No, non vi è salvezza per voi. (Pausa.)
Elena. Ho pensato a quanto conviene di tentare. Tu sei un demonio, pur troppo lo conosco, e temo che tu non volga il bene in male. Anzi tutto voglio seguirti al castello; io so quanto mi resta a fare, e so pure che i segreti che la regina custodisce in seno restano impenetrabili a chicchessia. Vecchia, precedi i miei passi!
Il Coro. Oh! come camminiamo volentieri con passo leggiero, — colla morte alle spalle, e dinanzi a noi le inaccessibili mura del castello; — ch'esso ci protegga — come un tempo la rocca d'Ilione, — che dovette soccombere — per l'infamia di un tradimento! (Fitte nubi si dilatano a destra ed a sinistra, velano il fondo, ed occupano ad un tratto il proscenio.) Ma che? — O sorelle, guardate all'ingiro! — II giorno non era egli sereno? — Le nubi si accavallano, — uscite dalle sacre onde dell'Eurota. — Già s'invola al nostro sguardo — la deliziosa riva coronata di canneti, — ed i cigni pure, i cigni — liberi, alteri, graziosi, — che scorrono mollemente insieme — in gruppi amorosi sulle acque, — ahimè! gli stessi cigni sono scomparsi! Eppure, eppure — io li odo ancora, — odo in lontananza i loro rauchi gridi; — essi annunziano la morte! — Ah, purchè a noi pure — ahimè! essi non l'annunzino, — invece della promessa salvezza, — a noi candide sorelle dei cigni — dal niveo collo flessibile, — come alla figlia del cigno. Guai a noi! guai a noi! Le tenebre hanno già invaso — tutto lo spazio. — Noi ci vediamo a stento. — Che cosa succede? Camminiamo noi forse? — scivoliamo noi con rapidità? — Non scorgi tu nulla sul suolo? — Sarebbe forse Hermes quegli che ci precede? — Non vedi tu brillare il suo scettro d'oro, — che ci fa cenno e ci ordina — di rientrare in seno alle Iadi — triste e cupo soggiorno dove si trovano — fantasmi impalpabili, luoghi sempre pieni, sebbene siano sempre vuoti?
Sì, l'aria si oscura repentinamente, il vapore denso e grigio si dissipa senza lasciare che si manifesti la luce, e lo sguardo libero s'imbatte contro aspre mura. È forse un cortile? è forse un fosso profondo? In ogni luogo io non vedo che oggetti di spavento. Ohimè, sorelle! noi siamo prigioniere, or più che mai.