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(Vertici di rupi frastagliate, gigantesche; passa una nube, si ferma, cala giù su un olmo sporgente: da ultimo si dirada.)
Cogli sguardi fissi sui profondi abissi, percorro solitario queste aride giogaje, mentre per l'aria si dilegua il carro che mi condusse alla pura luce, cullandomi dolcemente sulla terra e sul mare. Fugge il carro senza sciogliersi in nebbia: esso s'incammina verso l'oriente con lento volgere di ruote, così che lo sguardo lo segue meravigliato. Ora ecco che durante il suo corso la nube si discioglie e si agita come onda mobile e variopinta.
Essa prende forma! oh spettacolo! oh meraviglia! oh sorpresa! Sopra cuscini dorati, inondati di luce, si agita un'immagine gigantesca, ammirabile e serena. Ben io la vedo: è Giunone, è Leda, è Elena! Oh visione celeste! Ma infelice me, ecco è svanita.
Già l'informe massa si raccoglie a guisa di un manto di ghiaccio nel quale vedo riflettersi i bollenti affetti della mia giovinezza. Un dolce vapore sale dal colle e tiepido mi accarezza la fronte: scivola leggiero leggiero e prende forma a suo capriccio. Volto incantevole e dolce, prima gioja della mia prima giovinezza, solo bene che io rimpianga, suprema voluttà perchè ti prendi giuoco di me? Io sento tutti i tesori degli anni giovanili agitarmi il petto. Amica dell'aurora, nei tuoi dolci vapori io vedo quegli sguardi vivaci, ahimè! appena compresi e tuttavia i soli che io ricordo e che irradiino i tesori dell'anima umana coi loro vivi splendori. Come uno spirito immortale per la immensa distesa dei cieli, in una nube di fiamma e d'oro la splendida visione si dilegua portando seco la miglior parte di me.
(Uno stivale di sette teghe entra a balzi, un altro stivale gli tiene dietro subito. Mefistofele salta in terra. Gli stivali lesti lesti si allontanano.)
Mefistofele. In fede mia, ecco che cosa intendo io per camminare! Ma, dimmi un po' qual ghiribizzo ti viene ora in mente? Tu discendi nel bel mezzo di questi orrori, in quest'abisso di pietre spalancato. Io conosco perfettamente questo terreno sebbene esso non sia al suo posto; perché, a dire il vero, questo era il fondo dell'inferno.
Faust. Tu non hai mai finito colle tue leggende; eccoti di nuovo a spacciarne delle altre strane e facete.
Mefistofele (con tono serio e grave). Allorché Dio, il Signore — so benissimo il perché — ci scacciò dalle regioni aeree nei profondi abissi, là dove in mezzo ad una fornace la fiamma eterna si consuma da se stessa, noi ci trovammo in una luce troppo viva, calcati gli uni sopra gli altri, ed in una posizione assai incomoda. Allora i diavoli cominciarono a tossire ed a sternutare dall'alto in basso; l'inferno si empì di puzze e di acidi solforosi. Quali esalazioni! era una cosa prodigiosa! In brevissimo tempo la crosta della terra, per quanto spessa e dura fosse, dovette scoppiare con gran fracasso. D'allora in poi tutto fu capovolto: ciò che un tempo era al basso, forma oggi la sommità. Da ciò alcuni tolsero la loro dottrina d'innalzare quanto è basso e di abbassare quanto è in alto, perocchè noi passammo allora dalla soffocante schiavitù dell'abisso all'assoluta sovranità dell'aria libera, mistero evidente e che fu così ben custodito, che non venne rivelato ai popoli se non molto tardi.
Faust. La massa delle montagne resta per me in nobile silenzio, non cerco né il come, né il perché. Quando la natura prese forma da sè stessa, essa arrotondò semplicemente il globo terrestre e si compiacque d'innalzare qui un picco, di scavare là un abisso, di appoggiare roccia contro roccia, monte contro monte; indi ordinò le facili colline, mitigandone il pendìo che digrada nella vallata. Tutto è verzura e vegetazione, e per dimostrarsi contenta la natura non ha certo bisogno di sobbalzare come un insensato.
Mefistofele. Tu credi ciò! ti sembra chiaro come il giorno; ma colui che fu presente al fatto spiega le cose ben altrimenti. Io ero là quando dalle ime profondità l'abisso bollente si gonfiò, schizzando fiamme; quando il martello di Moloch, fabbricando la catena delle rupi, lanciava in alto le schegge di granito; il suolo ne geme ancora tutto coperto di quelle pesanti masse eterogenee. Come spiegare una simile eruzione? Il filosofo non ne comprende nulla. La roccia è là, bisogna lasciarla; e noi perdiamo in fin dei conti la bussola. — II popolo ingenuo e grossolano è quello che solo comprende e resta irremovibile nelle sue idee. Da lungo tempo non vi sono più dubbi su questo soggetto: ammesso il miracolo, se ne renda onore a Satana! il mio pellegrino, appoggiato sulla gruccia della fede, visita zoppicando, la pietra del diavolo ed il ponte del diavolo.
Faust. Bisogna però confessare, essere oltremodo interessante il vedere come i diavoli rendono conto a se stessi della natura.
Mefistofele. Canchero della natura! ch'essa sia pure ciò che le piace, poco importa! È questo per me un punto d'onore: il diavolo era presente! Noi siamo gente capace di operare grandi cose: scompigli, forza brutale, stravaganze! ecco ciò che lo attesta. — Insomma, per spiegarmi chiaramente, non havvi nulla che ti piaccia sulla nostra superficie? I tuoi sguardi, vagando negli spazi infiniti, hanno veduto "i regni del mondo e la loro magnificenza." Ma, diffìcile ad accontentare come tu sei, non avrai forse provato alcuna sensazione!
Faust. Eppure, qualche cosa di grande mi ha sedotto; indovina!
Mefistofele. È presto fatto. Dal canto mio, ecco la capitale che mi sceglierei. Nel cuore della città, fondachi di commestibili per i borghesi, viottoli stretti, pinacoli aguzzi, mercato limitato, cavoli, rape, cipolle; banchi da beccaio ove le mosche s'accalcano per divorare le carni polpose. Là trovi ad ogni istante fetore ed operosità. Poi grandi piazze, strade spaziose, per darsi una cert'aria di grandezza; e infine dove non vi è più alcuna porta a limitare lo spazio, sobborghi a vista d'occhio. Mi divertirebbe il rumoreggiare delle carrozze, il tumulto della gente che va e viene, l'eterno movimento confuso di questo sparpagliato formicolaio, e sempre, sia a cavallo, sia in carrozza, sarei io il punto centrale, onorato e riverito dalle miriadi.
Faust. Ciò non potrebbe soddisfarmi! Si prova un bel diletto a vedere un popolo moltiplicarsi, vivere a suo modo nel benessere, formarsi ed istruirsi, e crescere intanto alla ribellione.
Mefistofele. Poscia mi fabbricherei, in un luogo ameno, un castello di stile grandioso, quale a me si conviene, per andarvi a diporto, con boschi, colline, pianure, prati e campi messi a giardino con grande magnificenza. Lungo i tappeti dei muri verdeggianti, vorrei vi fossero sentieri allineati, ed ombrie condotte con arte, cascate cadenti di rocca in rocca e getti d'acqua di ogni specie. In seguito, per le donne, per le belle donne, fabbricherei piccoli casini comodi e maestosi; vorrei passar colà ore infinite in una solitudine bellissima e socievole. Io dissi donne perché, sia detto una volta per sempre, in fatto di belle io aspiro alla pluralità.
Faust. Cattivissimo gusto d'oggidì! Sardanapalo!
Mefistofele. Si può forse indovinare la meta alla quale tu aspiri? Qualche cosa di sublime senza dubbio. Tu che in questo tragitto ti sei innalzato così vicino alla luna, vorresti forse sollevarti fino ad essa?
Faust. Niente affatto. Questo globo terrestre offre ancora uno spazio sufficiente per le grandi opere. Qualche cosa di grande sta per compiersi. Sento in me le forze necessarie per una temeraria impresa.
Mefistofele. Desideri dunque ardentemente la gloria? Si vede che ti sei fregato colle eroine.
Faust. Voglio conquistare una corona, voglio uno stato! Il concreto è tutto, la gloria un nulla.
Mefistofele. Eppure vi saranno poeti per annunziare ai posteri la tua grandezza, per infiammare la follia colla follia.
Faust. Ciò non ti riguarda. Conosci tu forse i desiderii dell'umanità? La tua natura ingrata, piena di amarezza e di fiele, sa ella forse ciò che all'uomo abbisogna?
Mefistofele. Sia come tu desideri! Confidami dunque tutti i tuoi capricci.
Faust. Il mio sguardo vagheggiava la distesa dei mari che sollevati in montagne i flutti impetuosi, schiudevano sotto di sé orribili caverne: indi racchetatisi spingevano le loro onde ad invadere le basse spiagge e le adiacenti pianure. E ciò m'irritava come l'arroganza irrita lo spirito libero che rispetta i diritti di tutti, così che divampandogli il sangue entro le vene sente un malessere mortale. Dapprima lo credetti un accidente, e guardai con maggior insistenza; l'onda si fermava, indi si riversava ancora e si allontanava dalla meta raggiunta con orgoglio; ora ecco che ritorna, e sta per ricominciare l'assalto.
Mefistofele (agli spettatori). Finora non imparo nulla di nuovo; lo so tutto questo da più di centomila anni.
Faust (proseguendo con enfasi). L'onda si avanza strisciando e per ogni dove, sterile ella stessa, porta la sterilità: ella si gonfia e cresce, ed oltrepassa i limiti della sabbia incolta. Là, flutti su flutti regnano sovrani; essi si ritirano senza aver fecondato nulla. Ah! ecco ciò che mi tormenta e mi dispera! Forza sprecata degl'indomiti elementi! Allora il mio spirito spiega le sue ali per sollevarsi al disopra di se stesso. Là vorrei lottare, là vorrei vincere!
E ciò è possibile! — Per quanto burrascosa sia l'onda, essa si piega dinanzi ad ogni prominenza. Ella ha un bel muoversi con orgoglio, la più piccola altura le mostra una fronte superba, la minima cavità l'attira irresistibilmente. Quindi, nel mio spirito, piano succede a piano: pervenire alla suprema gioja di scacciare dalla spiaggia il prepotente mare, di restringere i limiti dell'umida pianura, e di ricacciarla alla lontana entro se stessa, ecco il mio desiderio. Poco alla volta mi sono ciò fitto in capo. Cerca tu ora di appagarmi! (Tamburi, e musica guerriera dietro gli spettatori, in lontananza da man dritta.)
Mefistofele. Sono bagattelle! — Odi tu strepito di tamburi laggiù?
Faust. Sempre la guerra! essa ripugna al saggio.
Mefistofele. Guerra o pace! Gli è da saggio il trar profitto da ogni circostanza. Si sta spiando il momento propizio. Ecco l'occasione, o Faust; or sappi afferrarla.
Faust. Ti ringrazio di simili enimmi! Insomma, di che cosa si tratta? Spiegati.
Mefistofele. Nel mio viaggio, nessuna cosa mi è rimasta celata. Il buon imperatore si trova nel più grande imbarazzo, tu lo sai. Da quel giorno in cui ci divertimmo e versammo nelle sue mani delle false ricchezze, il mondo intiero sembrò essere suo. Egli era giovane quando gli toccò il trono, ed egli concluse pazzamente che ciò poteva accordarsi a meraviglia, ed essere cosa invidiabile e bella il regnare e gioire ad un tempo.
Faust. Profondo errore! L'uomo destinato a regnare deve trovare la suprema felicità nel governo, il suo petto deve albergare una sublime volontà; ma ciò che egli vuole nessuno deve saperlo. Ciò ch'egli susurra all'orecchio dei suoi confidenti si compie immediatamente, ed il mondo ne è sorpreso. Di modo che egli sarà sempre il primo fra tutti, il più degno. Il godimento abbrutisce.
Mefistofele. Il caso nostro è ben diverso. Egli si diede in braccio al godimento, e come! Intanto, il regno cadde nell'anarchia: grandi e piccoli, qua e là si mossero guerra; i fratelli si spodestavano, si sgozzavano, feudo contro feudo, città contro città, i popolani alle prese colla nobiltà, il vescovo col capitolo e colla parrocchia; quanti s'incontravano nemici; nelle chiese, omicidi; dinanzi alle porte, mercanti e viaggiatori, malmenati e ridotti a mal termine. E in tutti cresceva a gara l'ardire; vivere voleva dire combattere per difendersi. — Ma, via! le cose andavano avanti.
Faust. La cosa andò, zoppicò, si rialzò, cadde, e finì per fare un capitombolo, e andar tutto a soqquadro.
Mefistofele. In verità nessuno aveva il diritto di lagnarsi di uno stato simile di cose; ognuno voleva aver credito e l'otteneva; l'uomo il più abbietto si dava l'aria di un personaggio importante. Intanto, per venire alla conclusione, i migliori trovarono che la demenza diventava troppo grande; i valorosi si levarono con stizza e dissero: sovrano è colui che ci dà calma e riposo; l'imperatore non può darne e non vuole, scegliamo dunque un nuovo signore, facciamo risorgere l'impero; e mentre egli porgerà sicurezza a ciascuno, sposeremo la pace alla giustizia in un mondo rigenerato.
Faust. Ecco una tirata da sagristia.
Mefistofele. Erano appunto i preti che volevano mettere al sicuro il loro grosso ventre; essi erano più interessati degli altri. La ribellione rumoreggiava, e dopo aver posto buone radici scoppiò così che il nostro imperatore, che tempo fa abbiamo tanto divertito, si ritira in questi luoghi, per combattere forse la sua ultima battaglia.
Faust. Mi fa compassione, lui così buono e schietto!
Mefistofele. Vieni, osserviamo; chi vive deve sperare. Se lo cavassimo fuori da questa stretta vallata! Sia salvo questa volta, e lo sarà mille altre. D'altronde si sa forse come possano cadere i dadi? Che la fortuna gli sia propizia, ed egli avrà di nuovo vassalli.
(S'inerpicano sulla montagna di mezzo, e contemplano l'ordinarsi delle truppe nella valle. Uno strepito di tamburi e di musica militare fossi intendere dal basso.)
La posizione, da quanto vedo, è ben presa; passiamo dalla loro parte e la vittoria è assicurata.
Mefistofele. Stratagemmi per vincere battaglie. Fatti coraggio e pensa al tuo scopo. Conserviamo all'imperatore il suo trono ed i suoi stati, e tu piega un ginocchio a terra e ricevi a titolo di feudo un territorio senza confini.
Faust. Hai già fatto molte cose. Ebbene, vediamo, vinci una battaglia.
Mefistofele. No, sei tu che vincerai! Questa volta sei il generale in capo.
Faust. Onore in verità legittimo: comandare da qui donde io non sento nulla!
Mefistofele. Lascia fare allo stato maggiore, ed il Feld Maresciallo è salvo. Le calamità della guerra mi sono note da lungo tempo; ed ho preparato da lunga pezza un accordo tra la forza primitiva dell'uomo e quella delle montagne; felice chi seppe congiungerle.
Faust. Che è ciò che io vedo laggiù coperto d'armi? Hai tu sollevato il popolo della montagna?
Mefistofele. No, ma ad imitazione di mastro Pietro Squenz, di tutta la moltitudine, ho saputo trarre la quintessenza.
Mefistofele. To', ecco i miei sozi! Tu li vedi, di età diversa, di armature e di vestiti differenti; non ne sarai malcontento. (Agli spettatori.) Tutti sono oggi frenetici per le armi e per le gorgiere; ed, allegorici come essi sono, questi mascalzoni piaceranno maggiormente.
Raufebold (giovine armato alla leggiera, assisa a più colori). Se qualcuno mi guarda nel bianco degli occhi, gli caccio il mio pugno nella gola; ed il vile che volesse fuggire, lo afferro per i capelli della nuca.
Habebald (corporatura maschia, armamento convenevole, uniforme di gala). Le sterili querele non sono che ciance, tempo sprecato. Mostrati solo infaticabile nel far bottino; in quanto al resto avrai sempre il tempo per informartene dopo.
Haltefest (vecchio, armato fino ai denti, senza assisa). Col saccheggio non si va molto lungi. Una gran fortuna svanisce presto, portata via dai flutti rumorosi della vita. In verità, il prendere è una buona cosa, ma il conservare è assai meglio. Lascia fare al vecchio prode, e nessuno ti prenderà mai la più piccola cosa. (Calano tutti insieme giù nella valle.)