Johann Wolfgang von Goethe
Faust

PARTE II

ATTO Quarto

La tenda del pseudo imperatore Ricchi addobbi: trono

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La tenda del pseudo imperatore
Ricchi addobbi: trono

 

Habebald e Eilebeute.

 

Eilebeute. Eccoci per i primi!

Habebald. Non vi è corvo che voli ratto come noi.

Eilebeute. Oh! quanti tesori ammucchiati qui! Per dove dobbiamo cominciare? Dove dobbiamo finire?

Habebald. La tenda ne è colma! Non so dove mettere le mani.

Eilebeute. Quel coltroncino farebbe bene per me, il mio letto è spesso assai male provveduto.

Habebald. Vedo pendere qui una mazza d'acciajo; è da lungo tempo che io desidero di averne una simile.

Eilebeute. Questo mantello di porpora, bordato d'oro, è tale quale lo avevo sognato.

Habebald (brandendo la mazza). Con questo si fa presto, si uccide l'avversario e si va avanti. Tu hai già raccolto moltissime cose, eppure non hai messo nel sacco nulla che valga. Lascia stare tutti questi orpelli e prendi una di queste cassette! Dentro c'è il soldo destinato all'esercito; sono piene zeppe d'oro.

Eilebeute. Il loro peso è enorme! Non posso sollevarla, non posso portarla.

Habebald. Su presto, chinati! curva le spalle, e io la carico sul tuo dorso.

Eilebeute. Oi! oi! sono spacciata. (La cassetta batte sul terreno e va in pezzi.)

Habebald. Che bel mucchio di zecchini! Presto, all'opera, e muovi le mani.

Eilebeute (accosciandosi). Presto nel grembiale! Ne avrò ad ogni modo abbastanza.

Habebald. Basta così! Fa presto, sbrigati dunque! (Eilebeute rizzasi in piedi.) Misericordia! il grembiale si è sfondato! Ad ogni tuo passo, tu spargi l'oro a profusione.

I Lanzi (del nostro Imperatore). Che fate voi qui nel santuario? Che frugate voi nel tesoro imperiale?

Habebald. Abbiamo messo in pericolo la nostra vita e prendiamo la nostra parte del bottino nelle tende del nemico, secondo l'usanza; noi siamo soldati.

I Lanzi. Soldato e mariuolo non è cosa consueta. Colui che sta a fianco del nostro imperatore deve essere un soldato onesto.

Habebald. Onestà! la conosciamo benissimo; essa si chiama contribuzione. Voi zoppicate tutti d'un piede: date qua, canaglia! ecco la parola d'ordine del mestiere. (A Eilebeute.) Fuggi e porta via il tuo gruzzolo! Non siamo ospiti benvenuti qui! (Escono.)

Primo Lanzo. Dimmi un po', perchè non hai tu schiaffeggiato quell'insolente mariuolo?

Secondo Lanzo. Non lo so; mi mancò il coraggio: essi avevano una cert'aria da fantasmi.

Terzo Lanzo. Avevo gli occhi invischiati; mi tremolava dinanzi un certo lume, non potevo vedere ben chiaro.

Quarto Lanzo. È strano, non so come spiegarmi la cosa; ha fatto così caldo tutto il giorno, l'atmosfera era pesante, angosciosa, l'uno resisteva, l'altro cadeva, s'inciampava e si combatteva ad un tempo. Ad ogni colpo un avversario cadeva. Si sentiva come una nebbia dinanzi agli occhi. S'udivano oltre a ciò zufolamenti, tintinnii e fischi dentro le orecchie, continui, incessanti. Ora eccoci salvi, e non sappiamo comprendere neppure noi come ciò abbia potuto accadere.

(L'Imperatore e quattro principi s'avanzano. I Lanzi si ritirano.)

L'Imperatore. Che importa! la vittoria è nostra, ed il nemico sbaragliato e disperso scompare nell'aperta campagna. Qui sorge il trono abbandonato; il seducente tesoro coperto di tappeti, ingombra tutto lo spazio. Noi colmi d'onori, circondati dai nostri bravi lanzi, aspettiamo con maestà gl'inviati del popolo; giungono da ogni parte buone notizie; oh! scenda la pace su quell'impero che riconosce con gioja la nostra sovranità! Se la stregoneria vi prese anche parte, noi l'abbiamo pagato colla nostra persona. Il caso si dichiara favorevole ai combattenti; grosse pietre cadono dal cielo, piove sangue sul nemico, e dal seno delle caverne gridano voci strane, voci potenti, fatte per dilatare il nostro petto e per stringere il cuore del nemico. Il vinto è caduto a sua vergogna eterna; il vincitore, nella sua gloria, canta un inno alla propizia divinità, e tutti cantano con lui, senza ch'egli abbia bisogno di comandarlo, Te Deum laudamus, per miriadi, a squarciagola! Intanto, per sublime omaggio, io volgo verso la mia propria coscienza un pio sguardo, ciò che altre volte mi accadeva ben di rado di fare. Che un giovane principe felice di vivere sciupi follemente i suoi giorni; gli anni s'incaricheranno di fargli conoscere l'importanza di un istante. E perciò, senza indugiare, vi congiungo a me, voi i quattro più degni, affinché mi possiate ajutare a reggere la famiglia, la corte e l'impero. (Al primo.) A te, o principe, noi siamo debitori della saggia direzione dell'esercito e dell'ardire ed eroismo ch'esso dimostrò nell'istante decisivo. Continua a fare durante la pace ciò che le circostanze renderanno necessario; io ti nomino maresciallo ereditario e ti conferisco la spada.

Il Maresciallo Ereditario. Quando il tuo fedele esercito fino ad ora occupato all'interno, si spingerà verso le frontiere per consolidare la tua potenza ed il tuo trono, ci sia consentito, in mezzo all'immenso concorso di gente raccolta per le feste nelle vaste sale del castello de' tuoi avi, il dar ordine alla cerimonia. Dinanzi a te, ai tuoi fianchi, voglio portare questa spada sguainata, eterna salvaguardia della più grande maestà.

L'Imperatore (al secondo). Tu che congiungi la delicatezza e la cortesia al valore, tu sarai gran ciambellano; la dignità che ti conferisco non è poi cosa di poca importanza. Tu meriti la precedenza fra tutta la gente della mia corte, la quale divisa dalle discordie intestine, si è convertita in un'accolta di servi cattivi e traditori; serva il tuo esempio d'ora in poi a dimostrare qual sia il modo che si deve adottare per acquistarsi il favore del signore, della corte e di tutti!

Il Gran Ciambellano. L'eseguire i grandi concetti del mio signore, mi mette in grado di ajutare i buoni e di non nuocere ai cattivi, di mostrarmi sicuro senza artifizio, calmo senza astuzia. Se il tuo sguardo legge nella mia coscienza, sire, ciò mi basta. L'imaginazione può ella rappresentarsi una simile festa? Quando ti siedi alla mensa, sono io che ti presento la coppa d'oro, io che tengo gli anelli, onde in quel voluttuoso istante la tua mano si rinfreschi, intanto che un tuo sguardo mi rallegra.

L'Imperatore. Io mi sento, a dire il vero, troppo preoccupato per poter pensare a comandar delle feste; ma sia; la gioja porta anch'essa fortuna. (Al terzo.) Io ti scelgo per grande scalco! La caccia, l'uccelliera, i nostri tenimenti, siano da ora in poi sotto la tua ispezione, ed abbi cura che mi sieno serviti in ogni tempo le mie pietanze favorite, secondo la stagione e preparate con grande cura!

Lo Scalco. Che un austero digiuno sia per me il più gradito dovere fino a che sia posto dinanzi a te un piatto gustoso e succulento! Gli ufficiali delle cucine dovranno unire i loro sforzi ai miei per ravvicinare le distanze ed affrettare le stagioni. Non sono i piatti ricercati, né le primizie colle quali si copre la tua mensa che ti piacciono, tu preferisci i cibi semplici e sostanziosi.

L'Imperatore (al quarto). Poiché si tratta qui di feste, tu, mio giovane eroe, trasformati in coppiere. Arcicoppiere dell'impero, abbi cura d'ora innanzi che le nostre cantine siano riccamente provviste di squisiti vini, e tu stesso sii sobrio e non lasciarti trascinare dalla tentazione di sorpassare nel bere i limiti di una conveniente allegria.

L'Arcicoppiere. Sire, gli adolescenti, purché si abbia fiducia in loro, diventano uomini assai più presto di quanto si pensi. Ed io mi vedo in mezzo a questa gran festa; io dispongo con magnificenza la credenza imperiale, la copro con vasellame di gran prezzo, d'oro e d'argento; ma io scelgo per te la coppa incantatrice di un puro cristallo di Venezia in fondo alla quale è riposta ogni felicità, coppa che al vino un sapore più piccante e ne tempra i principii inebbrianti. Spesso fidiamo troppo nel potere di simili talismani; la tua sobrietà, sire, è però la miglior garanzia.

L'Imperatore. A quali cariche io vi abbia destinati in quest'ora solenne, voi l'udiste in confidenza dalla mia bocca infallibile. La parola dell'imperatore è potente e vi assicura il benefizio; e ciononostante, perché all'atto autorevole nulla manchi, occorre ancora il titolo uffiziale, la firma. Per redigerla colla voluta forma, ecco l'uomo indispensabile che viene a proposito. (Entra l'Arcivescovo.) Ciò che una volta fu commesso alla tua chiave, resta incrollabile per secoli e secoli. Tu vedi qui quattro principi! Noi abbiamo testé concertato insieme la costituzione della nostra casa imperiale. Ora poi, tutto ciò che questo impero comprende nel suo seno, voglio che si appoggi su cinque personaggi con forza e potenza. Voglio ch'essi siano primi fra tutti per possessi, e per ciò io aumento da quest'istante la distesa dei loro dominii col patrimonio di coloro che si sono separati da noi. A voi, o miei fidi, assegno belle borgate, aggiungendovi il sovrano diritto di stendervi più lontano ancora, secondo l'occasione, sia per eredità, acquisto o scambio. Inoltre abbiate facoltà di esercitare pacificamente i diritti di signoria che vi spettano. Come giudici voi pronunzierete sentenze assolute; nessuno potrà appellarsi contro questo tribunale supremo. Saranno pure di vostra spettanza le imposte, i censi, i diritti d'omaggio e di scorta, i pedaggi, i monopolii delle miniere, delle saline, delle zecche; perché a provarvi appieno la nostra riconoscenza, vi abbiamo dato il primo grado dopo la nostra maestà.

L'Arcivescovo. A nome di tutti, abbiti i nostri più vivi ringraziamenti! tu ci fai forti e potenti, consolidando la tua potenza.

L'Imperatore. Voglio ancora elargire a voi tutti cinque dignità più elevate di queste. Io vivo ancora per il mio impero, ed ho vivissimo desiderio di vivere; ma la catena dei miei avi fa sviare il mio sguardo pensieroso da questo turbinio di faccende che mi suscita in mente idee cupe e sinistre. Io pure, quando ne sarà giunto l'istante, mi separerò dai miei fidi. Che il vostro dovere vi chiami allora a nominare il mio successore. Quando egli sarà coronato, guidatelo vicino al santo altare, e possa in quei giorni finire nella pace l'uragano al quale abbiamo ora assistito!

L'Arcicancelliere. Coll'orgoglio in seno, ma umili nel gesto, i principi, che godono il primato sulla terra s'inchinano dinanzi a te. Infino a tanto che il nostro sangue fedele circolerà nelle nostre vene, noi saremo il corpo che la tua volontà fa muovere a suo piacere.

L'Imperatore. Ora per conchiudere, quanto abbiamo deliberato fino ad ora con atti ufficiali firmati da me, sia attestato per tutti i secoli a venire! Voi avete dunque il possesso intero e libero, a patto però ch'esso resterà indivisibile, ed in qualunque modo voi accresciate i beni da me ricevuti, al solo primogenito sarà dato di ereditarli.

L'Arcicancelliere. Vado tosto, tutto lieto ad affidare alla pergamena questo decreto importante, per la felicità dell'impero e per la nostra. Il farne la copia e l'apporvi il suggello imperiale sarà il compito della cancelleria. E tu, o sire, ti degnerai di confermare l'atto colla sacra tua firma.

L'Imperatore. Ed ora vi do' commiato, affinché ognuno di voi possa nel raccoglimento meditare su questo grande giorno. (I principi temporali si allontanano.)

Il Principe della Chiesa (parlando con enfasi). Il cancelliere si allontana, il vescovo rimane, un grave presentimento lo spinge vicino al tuo orecchio, per avvertirti del pericolo; il suo cuore paterno trema ansioso ed affannato per te.

L'Imperatore. Quali angosce possono dunque straziarti in quest'ora di gioja? Parla!

L'Arcivescovo. Con quanta amarezza e dolore non vedo io in quest'ora, il sacro tuo capo in alleanza con Satana! Assicurato è vero, da quanto pare, sul trono; ma ahimè! a dispetto di Dio nostro signore, a dispetto del santo padre. Se lo sapesse il papa, egli t'imporrebbe subito un terribile castigo, e la sua santa folgore annienterebbe il tuo impero, impero del peccato; perché egli non ha ancora dimenticato come nel giorno della tua incoronazione, tu salvasti lo stregone. Il primo raggio di grazia, splendente dal tuo diadema, andò a posarsi a danno della cristianità su quella testa maledetta! Ma ora batti il tuo petto, e rendi di questa fortuna illegittima una parte onesta al santuario. L'ampio territorio sparso di colline dove s'ergeva la tua tenda, dove gli spiriti maligni vennero in tuo soccorso, dove hai prestato un facile orecchio al principe della menzogna, sia da te in uso pio convertito destinandolo a qualche santa opera. Aggiungivi per dote la montagna e la fitta boscaglia per tutta la loro estensione, le alture verdeggianti di un eterno pascolo, i laghi limpidi e ricchi di pesci, gl'innumerevoli ruscelli che serpeggianti con rapidità, si precipitano nella vallata; ed altresì quella vallata coi suoi prati, le sue pianure, ed i suoi burroni: tutto ciò dirà abbastanza chiaro quanto sei pentito, e la grazia scenderà su di te.

L'Imperatore. L'immensità della mia colpa mi empie di spavento! Indica tu stesso i confini; io me ne rimetto al tuo senno.

L'Arcivescovo. Prima di tutto questo spazio profanato dove venne consumato il peccato sia fin d'ora votato al culto dell'Altissimo. Nel mio spirito, già vedo elevarsi forti e potenti mura; lo sguardo del sole che sorge illumina già il coro; l'edifizio in costruzione si allarga prendendo la forma di una croce; la nave si prolunga, s'innalza, con viva gioia dei fedeli. Già tutti infervorati, essi fan ressa come flutti dinanzi all'augusta porta. Il primo rintocco delle campane echeggia attraverso i monti e la valle, ed il suono si propaga dall'alto delle torri che s'innalzano verso il cielo. Il peccatore si avanza per rinascere alla vita. Al giorno sublime dell'inaugurazione — oh possa egli spuntar presto! — la tua presenza sarà il più bello ornamento della festa.

L'Imperatore. Un'opera così grandiosa attesti la nostra pia volontà di rendere omaggio al signore e di espiare i nostri peccati! E ciò basti! Sento già il mio spirito sollevarsi.

L'Arcivescovo. Come cancelliere, io m'incarico dei decreti e delle formalità.

L'Imperatore. Un documento in buona forma, per il quale la chiesa sia investita di questi dominii! Tu me lo farai vedere, ed io lo firmerò con vivissima gioja.

L'Arcivescovo (dopo essersi congedato, torna indietro). È inteso, che l'assegno al nuovo santuario, di tutte le rendite del luogo, dei censi, delle decime, sarà perpetuo. Occorrono grandi somme per provvedere convenientemente ad una fondazione come questa, ed una scrupolosa amministrazione costa assai caro. Per affrettare l'erezione del monumento sopra un terreno incolto come questo, tu ci darai un poco d'oro del tuo ricco bottino. — Inoltre, non posso fare a meno di parlare di ciò, bisognerà che tu ci provveda il legname che manca completamente in questi dintorni, la calce, le ardesie ed altri simili materiali. Il popolo s'incaricherà dei trasporti, tosto che sarà informato dal pulpito che la chiesa benedice colui che lavora per essa. (Esce.)

L'Imperatore. Enorme ed orribile il peccato di cui mi sono macchiata l'anima! Quel maledetto popolo di stregoni mi ha messo in gravi impicci.

L'Arcivescovo (tornando un'altra volta ed inchinandosi profondamente). Perdonami o sire: quell'uomo triste al quale hai dato in feudo le spiagge del regno, farà andar male ogni cosa se non conferisci, tutto compunto, le decime, i censi e le rendite di quel dominio alla chiesa.

L'Imperatore (impazientito). Ma quelle borgate non esistono ancora; esse riposano tuttora in fondo al mare.

L'Arcivescovo. A chi ha diritto e pazienza non manca di spuntare il suo giorno. Che la tua parola sia per noi inviolabile. (Esce.)

L'Imperatore (solo). S'io continuo a dar retta a costui, sarò costretto a firmare l'atto di donazione di tutto quanto l'impero!

 

 

fine dell'atto quarto.

 


 

 

 


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