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L'Araldo. Non crediate già di trovarvi sul suolo alemanno, nel paese ove hanno luogo le danze dei matti, dei diavoli, e dei morti. No; qui godrete d'una festa tutta allegria. Il padrone, andando in pellegrinaggio a Roma, ha pel suo meglio e pel vostro piacere valicato le alte Alpi, e conquistato per sé un dominio, ove ha sede la gioja. L'imperatore dopo avere invocato dalle sante pantofole la consacrazione del suo diritto e del suo potere, ed essere andato in cerca di una corona, ha portato con sé anche la cappa del buffone. Ed eccoci tutti, dal primo all'ultimo, rigenerati. Ogni uomo di mondo se la tira con disinvoltura sulla fronte e sugli orecchi. Essa lo eguaglia ai pazzi, ed egli così imbacuccato fa quel che può per parere un saggio. Io li veggo già questi personaggi aggrupparsi, separarsi, poi accoppiarsi con piena e scambievole fiducia. Un coro è sollecito di unirsi ad un altro coro: tutti sono in moto, entrano, escono senza mai stancarsi. Proprio vero che oggi come per l'addietro, il mondo colle sue centomila chiappole non è esso pure che un gran matto.
Alcune Giardiniere (canto con accompagnamento di mandolini). Per cattivarci il vostro favore, ecco che noi pure, donzelle di Firenze, ci siamo questa notte riccamente abbigliate per unirci allo splendido seguito della corte alemanna.
Vedete quanti fiori dai gai colori sono intrecciati nelle brune ciocche dei nostri capelli, che gale e che flutti di seta ci adornano e ci ondeggiano intorno.
Poiché ciò che noi teniamo in gran pregio e meritevole d'elogi egli è lo splendore artificiale de' nostri fiori, che fioriscono tutto l'anno.
Vedete come abbiamo disposto in bell'ordine simmetrico nei nostri panieri ogni sorta di frastagli e d'ogni colore; voi li potete criticare in dettaglio, ma l'insieme, convenitene, è molto attraente.
Giardiniere e galanti, possiamo essere più gentili a vedersi? Nelle donne l'arte è così vicina alla natura!
L'Araldo. Mostrate i ricchi panieri che pompeggiano sulla vostra testa e sulle vostre braccia. Che ciascuno scelga ciò che più gli piace. Suvvia! Lungo i viali, sotto il fogliame, sorga tosto un giardino; la folla vi accorrerà attirata dalla mercanzia e più dalle venditrici.
Le Giardiniere. Avanti, avvicinatevi a questi ridenti posti, ma non istate a mercanteggiare! Un motto di spirito vi farà sapere che cosa vi toccherà.
Un ramo d'olivo in fiore. Io non porto invidia alle ajuole fiorite; non ho l'indole piagnona né battagliera. Non sono io forse preziosa essenza de' campi ed il simbolo della pace? Io spero che oggi avrò la fortuna di ornare una bella fronte.
Una corona di spighe d'oro. Cerere con questi doni soddisferà le vostre aspirazioni. V'auguro che l'utile — ossia ciò che v'ha di più desiderabile fra tutti i beni della terra — diventi pure bello dal momento che ve ne adornerete.
Una corona fantastica. Una quantità di fiori variati, che pajono malve, smaltano in modo mirabile i tappeti d'erba! Ciò non ha a che fare colla natura, ma... è un portato della moda.
Un mazzo di fantasia. Lo stesso Teofrasto non vi saprebbe dire il mio nome; pure ho la speranza di piacere, se non a tutte, almeno a qualcuna a cui vorrei appartenere, e che intrecciandomi ne' suoi capelli, m'accordasse un posto nel suo cuore.
Provocazione. Che le più screziate fantasie, per favorire la moda, inventino strani prodigi ignorati dalla natura; verdi steli, campanule d'oro dondolatevi fra le ricche capigliature. — Ma noi...
Bottoni di rosa. Noi ci teniamo nascosti; fortunato colui che ci scopre quando siamo freschi! Al giungere dell'estate il bottone di rosa s'infiamma; chi potrebbe non aspirare a tanta ventura? Nel regno di flora col promettere e mantenere si signoreggiano al tempo stesso lo sguardo, i sensi ed il cuore.
Un Giardiniere (canto accompagnato da tiorbe). Guardate con qual grazia i fiori serenamente sbocciati adornano le vostre teste; le frutta stesse non hanno una eguale seduzione; è d'uopo assaggiarne per poterne godere.
Esse vi mostrano i loro bruni aspetti; ecco ciliege, pesche e prugne regali: comperate! La lingua ed il palato sono giudici assai migliori dell'occhio.
Avanti! assaporate voluttuosamente le frutta le più mature. Si può far del lirismo sulle rose; ma bisogna metter fra i denti le mele.
Ci sia concesso d'emulare il fiore rigoglioso della vostra gioventù, e di sfoggiare accanto a voi l'abbondanza della nostra succulenta mercanzia.
Sotto la volta frondosa, entro i recessi di verdi boschetti voi trovate ad un tempo bottoni, foglie, fiori e frutta.
(Mentre si cantano queste strofe alternate, ed accompagnate da mandolini e tiorbe, i due cori continuano ad ammonticchiare le loro mercanzie e ad offrirle ai passanti).
La madre. Quando, piccina mia, tu sei venuta al mondo, io ti ho messa una cuffietta nuova; avevi un visino così vezzoso e un corpo sì delicatamente leggiadro, che io sognavo già di fidanzarti al giovane più ricco; mi figuravo che tu fossi sua sposa.
Ahimè quanti anni sono trascorsi senza che il sogno si verificasse! La schiera de' diversi sposi è sparita rapidamente; cogli uni tu ballavi agilmente, a un altro di soppiatto toccavi il gomito col tuo.
Avevamo un beli'affannarci ad inventare divertimenti; era inutile; i giuochi innocenti non approdavano a nulla. Al dì d'oggi i matti sono libertini: provati a mostrare il tuo seno, qualcheduno si lascerà cogliere al laccio.
(Altre donne giovani e belle s'uniscono a loro e si mettono a chiacchierare).
Pescatori ed Uccellatori (entrano portando reti, vischio, ed altri arnesi di caccia e si mescolano coi crocchi delle giovani. Succede una mischia, ove gli uni inseguono gli altri; alcuni fuggono di mano, altri sono agguantati, e questi reciproci tentativi producono il più aggradevole scambio di motti).
Taglialegna (con modi rozzi e villani). Largo! Largo! fateci posto, abbiamo bisogno di spazio, noi! Noi atterriamo gli alberi che cadono rumorosamente; attenti quindi alle teste, quando passiamo portando grossi carichi! — Proclamatelo a nostra lode; poiché se i villani non si dessero attorno nel paese, come farebbe la gente delicata con tutto il suo spirito a trarsi d'impaccio? Tenetelo bene a mente, se a noi non venisse fatto di sudare, voi tremereste dal freddo.
Pulcinella (melenso, scipito). Voi siete i pazzi — nati col gobbo; — noi siamo i saggi — che non portiamo mai nulla — fuorché giacche, cappucci, e i nostri cenci così facili a portarsi. — Sempre in ozio — calzati di pantofole, — ce la godiamo — correndo di qua, di là — pei mercati e per le fiere — attraverso la calca — scivoliamo come anguille, — balliamo, facciamo un diavoleto, — urli e fischi ci accompagnano — ma noi ce ne ridiamo. — Lodateci, biasimateci, per noi già fa lo stesso.
Parassiti (adulatori ingordi). Bravi taglialegna — e bravi carbonai, vostri cugini, — voi siete gli uomini che fanno per noi; noi non sappiamo che farne d'inchini, — d'approvazioni, di frasi contorte, — e di equivoci; tutto ciò non ci fa né caldo né freddo, a meno che non lo si voglia. Se non ci fossero legna e carbone per riempire il camino e farlo fiammeggiare, bisognerebbe che torrenti di fuoco scendessero dal cielo. Il fuoco arde, — la zuppa bolle, — la carne cuoce, — l'arrosto è a buon punto; il vero ghiottone, — il parassita — sente l'odore dell'arrosto, — e del pesce, — e gli vien l'acqua in bocca pensando al pranzo del cliente.
Un ubbriacone fuor di sé. Che tutto mi vada a seconda oggi, — mi sento così forte ed indipendente! Aria fresca, ed allegre canzoni, — le intono io stesso, e bevo, e trinco, e trinco. Bevete voi altri, tin, tin, tin. E tu pure laggiù, vien qua, — tocca, trinca, e la è finita.
La mia sposina andava in collera, e faceva in pezzi questo bell'abito; — e se mi risentivo sul serio, — mi trattava da pupattolo; ma io bevo, bevo, bevo, — al tintinnio de' bicchieri. Voi altri pupattoli trincate; quando i bicchieri tintinnano, non c'è di meglio a fare.
Non istate a dire che io vo fuori di carreggiata; sto bene ove sono; se l'oste non mi fa credito, me lo fa l'ostessa, od alla fine me lo farà la servente. Io bevo, bevo, io bevo sempre! Suvvia, voi altri, tin, tin, tin, tutti d'accordo! e sempre di seguito. Mi pare che non si può dir meglio.
Io me la spasso, come e dove, non monta; lasciatemi dormire a questo posto, giacché non posso più tenermi in piedi.
Il Coro. Coraggio, amici, beviamo, bevete tutti! qua, un brindisi spigliato, tin, tin, tin. Reggetevi saldi sul banco, o sullo scanno. Per chi rotola sotto la tavola, la è finita.
L'Araldo (annunzia poeti d'ogni specie: naturalisti, di corte, cavallereschi, gli uni ispirati, gli altri sdolcinati. In questa gara di concorrenti, ognuno impedisce al suo vicino di farsi avanti. Uno di loro passa dicendo solamente alcune parole).
Un Satirico. Volete sapere qual è la cosa di cui io poeta godrei più d'ogni altra al mondo? Sarebbe di dire e cantare ciò che nessuno vorrebbe sentire.
(I poeti della notte e delle tombe si fanno scusare, adducendo che sono impegnati in una conferenza delle più interessanti con un vampiro recentemente risuscitato, conferenza che potrebbe dare origine ad una nuova Poetica. L'Araldo non potendo respingere le loro scuse, evoca intanto la mitologia greca, la quale sotto la maschera moderna non perde nulla del suo carattere e della sua attrattiva.)
Le Grazie.
Aglae. Noi infondiamo grazia alla vita; mettetene anche voi nel donare.
Egemone. Mettetela nel ricevere; è così dolce il veder soddisfatti i nostri desideri!
Eufrosina. E mentre i vostri giorni scorrono placidi e felici, la vostra riconoscenza s'informi alla grazia.
Le Parche.
Atropo. Questa volta sono stata invitata anch'io, la più anziana delle filatrici. Quanti pensieri, quante riflessioni vi suggerisce la fragilità del filo della vita! — Affinchè esso vi riesca elastico e morbido l'ho scelto del più fino lino; l'abilità di questo dito saprà renderlo liscio, dolce, eguale. — Se in mezzo al vortice dei piaceri e delle danze vi accorgete d'essere sul punto di traviare, fate senno, riflettete alla qualità di questo filo, pensate che è soggetto a rompersi!
Cloto. Pochi giorni sono, sappiatelo, la condotta della nostra sorella maggiore era così poco soddisfacente, che mi vennero rimesse le cesoje. Essa ordiva continuamente i più inutili tessuti con trame fatte d'aria e di luce; e spezzandoli uccideva le speranze d'ogni più nobile facoltà. — Non è meno vero che anch'io nella foga giovanile mi sono molte volte ingannata; cosicché presentemente per moderare il mio ardore ho rinchiuso le forbici nel loro astuccio.
E mentre io sorrido di contentezza trovandomi così vincolata, voi approfittate di queste ore di libertà per abbandonarvi ai tripudii ed all'orgia.
Lachesi. A me, la sola ragionevole, è stato affidato il compito di mantenere ordinato il lavoro; ed il mio arcolajo, sempre in moto, non si è ancora sconnesso una sola volta. — I fili scorrono, s'inaspano, seguono la strada che io indico loro, affinchè s'avvolgano regolarmente intorno al fuso. — Se io avessi ad essere per un solo momento disattenta, tremerei pel mondo; le ore suonano, gli anni passano, e le matasse passano continuamente fra le mani del tessitore.
L'Araldo. Guardate chi viene ora; foste anche cento volte più versato nelle antiche scritture, voi non riconoscereste quelle figure. Esse fecero tanto male, eppure voi le direste le benvenute,
tanto sono giovani, avvenenti, e graziose! Provatevi a trattarle, e vedrete che queste colombe morsicano come serpi. — In fondo fanno le sornione; ma oggi che ogni pazzo fa pompa de' propri errori, esse non hanno più ragione di volersi far credere degli angeli, e si proclamano veri flagelli delle città e delle campagne.
Aletto. Che importa? Voi vi fiderete di noi che siamo giovani, gentili, e ci mostriamo così dolci. Se alcun di voi ha in qualche luogo la ganza, noi gli mettiamo una puntura nell'orecchio, sino a che sarà venuto il momento di dirgli a viso aperto, che dessa fa dei segni al tale od al tal altro, che è scapata, gobba, e zoppa; e, se gli è fidanzata, che non è donna da sposarsi. — Noi poi non lasciamo di tormentare anche la fidanzata. Il suo promesso, le diciamo, conversando con un'altra ha parlato male di lei e mostrato di averla a sdegno. E così quand'anche facessero la pace, rimane sempre un poco d'astio fra loro.
Megera. Inezie son queste! Lasciate prima che si congiungano e m'incarico io di loro; io saprò in ogni emergenza avvelenare, col farli accapigliare, la loro più dolce felicità. L'uomo è mutabile, e variano le ore. — Nessuno sta soddisfacendo un suo desiderio, senza struggersi per un altro più vivo, da cui si sente invaso quando ha raggiunto l'apice d'una felicità sognata, alla quale finisce per avvezzarsi. Ei fugge il sole, vorrebbe dare calore al ghiaccio. — Io so bene come bisogna comportarsi con questa gente: chiamo meco il mio fedele Asmodeo perché semini la iattura a tempo debito, ed ecco così distrutta la genia umana a due a due.
Tesifone. Io preparo stocco e pugnale, e sotto forma di lingue malediche me ne servo contro il traditore. — Ama il tuo simile, e presto o tardi ti toccherà darti in braccio alla disperazione. — È necessario che il miele si cangi da un momento all'altro in fiele ed assenzio; bando ai riguardi ed alla pietà; ha commesso l'atto, deve pagarlo. — Perdona, o mia canzone! Io getto i miei lamenti alle rupi, e l'eco, ascolta, ripete: vendetta! Colui che è mutabile non deve durare in vita.
L'Araldo. Vogliate tirarvi un poco da parte, poiché ciò che viene a questa volta non ha alcuna somiglianza con voi. — Ecco avanzarsi una montagna coi fianchi ricoperti di lussureggianti e variati tappeti, la testa armata di lunghe corna, e d'una tromba che si muove come fanno i serpenti. È un mistero e ve lo spiego. — Una donna delicata e gentile, seduta sulla nuca di essa la dirige abilmente col mezzo di una sottile bacchetta; un'altra posata maestosamente sul vertice è circondata da uno splendore che abbaglia. Alcune nobili dame camminano incatenate ai loro fianchi; l'una inquieta, l'altra tutta lieta; questa tormentata da desideri, quella libera di cure. Orsù che ciascuna dichiari l'esser suo.
La Paura. Le faci fumanti, le lampade, i candelabri spargono una luce tremolante attraverso l'armeggio della festa; i miei ceppi, ahimè, mi trattengono immobile in mezzo a queste parvenze ingannatrici!
Via di qua, o voi che ridete e siete voi stessi ridicoli! Il vostro sghignazzare sveglia i miei sospetti. Questa notte tutti i miei antagonisti mi assalgono. Un amico s'è cangiato in nemico, — m'è nota la sua maschera. — Un altro voleva assassinarmi! Ora che è stato scoperto, se la svigna. — Oh! come bramerei fuggirmene dal mondo, per andar altrove, non importa in che posto! — Ma laggiù vi è il nulla che mi sgomenta; ed io pendo incerta tra le tenebre e l'orrore.
La Speranza. Vi saluto, amate sorelle! Jeri ed oggi avete passato il vostro tempo in divertimenti, in mascherate; ma a me consta indubitamente, che voi pensate a deporre la maschera. E se il fiammeggiare dei doppieri non ha per noi uno speciale prestigio, andremo alla luce del giorno guidate unicamente dalla nostra volontà, ora a drappelli, ora sole, percorrendo le belle praterie, riposandoci o movendoci a nostro talento, menando una vita senza pensieri e senza privazioni, e fisse ad una meta. Benvenute dovunque, entriamo qui arditamente; in qualche posto deve trovarsi il bene supremo.
La Prudenza. Io tengo imprigionati lontani dalla moltitudine due dei più grandi nemici dell'uomo: La Paura e la Speranza. Fate largo! e siete salvi. — Quel colosso animato, vedete come io lo conduco caricato di torri; egli cammina passo passo senza attriti a traverso sentieri scoscesi. — Ma là in alto sul pinacolo sta codesta dea dalle ampie ali vigorose ch'essa spiega per volare alle conquiste nelle quattro parti del mondo. — Cinta di splendore e di gloria che s'irradia da tutte le parti e brilla da lontano, regina della più grande operosità, si chiama la Vittoria.
Zoilo-Tersite. Olà, olà, son qui a proposito per malmenarvi tutti. Ma quella che mi sono proposto di prender di mira è lassù, è monna Vittoria! Con quelle sue ali bianche s'illude d'esser un'aquila, e s'imagina che le basti volgersi da una parte qualunque perché tutto, popolo e paese, diventi sua proprietà. Pazienza! Io già mi sento trasportar dalla collera ogni volta che assisto a qualche glorioso avvenimento. Vedere portato in alto ciò che deve strisciare al basso, ed abbassato ciò che deve stare in alto, veder la curva svolta in linea retta, e la retta in curva, ecco ciò che soltanto mi va a sangue, e che desidero si faccia su tutta la terra.
L'Araldo. Che la santa sferza ti flagelli, malvagio mascalzone, e le tue membra si contorcano sotto uno spasimo convulso! — Guardatelo, questo doppio nano s'aggomitola su se stesso trasformandosi in una massa schifosa! — Oh! prodigio! — La massa diventa uovo, l'ovo si gonfia, s'apre, e n'escono due gemelli: la vipera e il pipistrello. L'una striscia sull'arena, l'altro prende il volo verso la soffitta. Ambedue hanno premura d'andarsene fuori per stringere amicizia; io non vorrei essere il terzo socio!
Mormorii. Attenti, che già si balla laggiù! — In fede mia, vorrei essere lontano. — Non t'accorgi come ci avvolge ne' suoi lacci questa capricciosa genia? Io me li sento scivolare ne' capelli e attorno ai piedi. — Nessuno di noi è offeso, ma siamo tutti atterriti. — Ogni allegria è abbujata. — Quelle due bestie hanno raggiunto il loro intento.
L'Araldo. Dal giorno che fui investito delle funzioni di araldo, io veglio con sollecitudine all'ingresso di questo luogo di piaceri, affinchè nulla di funesto vi succeda e possa colpirvi. Malgrado che io sia severo ed inesorabile, temo che gli spiriti dell'aria riescano a sgattajolare dentro, giacché dagli incantesimi delle stregonerie io non saprei garantirvi. Se prima era il nano che vi faceva terrore, ora è quella folla che s'agita furibonda là in fondo. Io amerei per debito d'ufficio darvi spiegazioni sul carattere e sulle forme di costoro, ma come definire ciò che non si capisce? Venite adunque tutti in mio ajuto. Vedete quel magnifico carro a quattro cavalli che scivola entro la folla, penetra dappertutto, senza fendere la calca, senza che alcuno si scansi? Guardate che faville colorate esso slancia tutto intorno, in mezzo a mille stelle tremolanti; lo si direbbe una lanterna magica. Eccolo che s'avvicina collo scroscio d'un uragano furioso. Largo, largo! io rabbrividisco!
Un fanciullo (che guida il carro). Fate alto, o corsieri! ripiegate l'ali, obbedite al solito freno; rallentate la corsa, quando io v'avverto di moderarla; slanciatevi velocemente quando vi eccito. — Rendiamo omaggio a questi luoghi. — Vedete come cresce intorno a voi la folla meravigliata! All'opera, adunque, o araldo! e prima che fuggiamo di qui manifesta a tuo modo i nostri nomi e l'esser nostro. — Tu devi conoscerci, poiché noi siamo le allegorie.
L'Araldo. Non saprei come chiamarti; potrei piuttosto descriverti.
L'Araldo. Prima di tutto, giova confessarlo, sei giovane e bello, un adolescente che le donne vorrebbero fosse già adulto; tu mi sembri un vagheggino in erba, della razza dei seduttori.
Il Fanciullo. S'intende! Continua, svela il brillante senso dell'enigma.
L'Araldo. Come splendono le tue nere pupille, e come spicca sul bruno della tua capigliatura quello sfolgorante diadema! Con qual grazia quel tuo mantello con fregio di porpora e d'oro ti scende dalle spalle ai talloni! Ti si prenderebbe facilmente per una fanciulla, eppure scommetterei che tu saresti già capace di far loro dar volta al cervello; sei stato alla loro scuola.
Il Fanciullo. E quegli che, personificando la magnificenza, pompeggia sul carro come un re in trono?
L'Araldo. Ei m'ha l'aria di un re possente e grazioso. Fortunato colui che sa cattivarsi il suo favore! A che ormai potrebbe egli aspirare? Il suo sguardo discerne e previene il bisogno; e la gioja che prova nel donare è più pura e più grande di quella che gli procura il possedere una tanta fortuna.
Il Fanciullo. Non limitarti a questo; pensa che ti si appartiene il descriverlo esattamente.
L'Araldo. La dignità non può essere descritta, bensì il suo viso fresco e rotondo come la luna piena, le sue guance dai vivi colori, e rigogliose di sotto al turbante, e il ricco drappeggiare della sua veste! Che dire poi della sua prestanza? Io credo ravvisare in lui un monarca.
Il Fanciullo. Desso è Plutone, il dio della ricchezza, che si reca qui in tutta la sua pompa, chiamato dai più caldi voti del grande imperatore.
L'Araldo. Ed ora informaci minutamente de' fatti tuoi.
Il Fanciullo. Io sono la Prodigalità, sono la Poesia, sono il poeta che scialacqua i suoi tesori soddisfacendo se stesso. Io pure sono immensamente ricco, e mi credo l'eguale di Plutone. Sono l'anima, l'onore delle sue feste ai suoi banchetti, e ciò che gli manca glielo do io.
L'Araldo. Riesci assai bene nella parte del fanfarone; ma vediamo un poco ciò che sai fare.
Il Fanciullo. Guardate, basta che io faccia scoppiettare le dita perché lampi e scintille guizzino intorno al carro. Ecco una collana di perle (facendo sempre scoppiettare le dita). A voi i fermagli, a voi parimenti gli orecchini, i monili d'oro; a voi i pettini, i diademi, le gemme preziose, incastonate negli anelli; io getto delle piccole fiamme, e sto a vedere ove vadano ad appiccarsi.
L'Araldo. Come acchiappa ed afferra ogni cosa quella cara moltitudine, dando l'assalto al donatore. I giojelli piovono come in sogno, e ciascheduno vuole avere la sua parte. Ma vedete stranezza! Ciò ch'essi agguantano con tanta avidità non arreca loro alcun profitto; quei tesori sfuggono loro dalle mani. Il vezzo di perle si rompe, ed il povero diavolo non si trova stringere che un pugno di scarafaggi, i quali si dibattono nelle sue mani; egli le scuote, ed essi si mettono a ronzargli intorno alla testa. Gli altri invece di oggetti di valore non hanno acchiappato che farfalle. Ah! che furfante! Promette tesori e non da che orpello!
Il Fanciullo. Sì, lo veggo: tu sai cogliere il significato delle maschere; ma andare al fondo e scoprire l'essenza degli esseri non è impresa da araldo di corte; è questo un compito per gente di maggior finezza e penetrazione. Ma io voglio evitare ogni disputa ed è a te, mio signore, (volgendosi verso Plutone) che io rivolgo le mie domande. Non m'hai tu affidato l'incarico di guidare le tue quattro focose cavalle? Non le ho io manovrate felicemente a seconda de' tuoi voleri, e non arrivo io sempre al punto che mi indichi? Non ho io saputo, librandomi sulle rapide ali, conquistarti la palma? Per quante volte io abbia combattuto, per te non ho sempre vinto? Gli allori che ti cingono la fronte non ti furono procurati dal mio senno, ed intrecciati dalla mia mano?
Plutone. Se è necessario, io lo attesto volontieri: tu sei la mente della mia mente, l'esecutore de' miei voleri, e più ricco di me; ed in omaggio ai tuoi servigi io tengo in maggior pregio questo verde ramo di tutti i miei diademi. Lo proclamo qui davanti a tutti e dal fondo del cuore; mio diletto fanciullo, io sono contento di te.
Il Fanciullo (alla folla). La mia mano ha sparso d'ogni parte i più ricchi doni. Io veggo di qua, di là, delle teste su cui brilla una fiamma che io vi ho fatto divampare, che guizza dall'uno all'altro, attaccandosi a questi, sfuggendo a quelli. Di rado essa si alza, s'avviva e riluce splendidamente nel suo breve passaggio; ma su molti, prima ancora che si siano accorti della sua presenza, essa si consuma e si spegne tristamente.
Chiacchierio di donne. Quello là, poggiato in alto sul carro, è un ciarlatano. Dietro lui sta accovacciato Hanswurst così magro e sfinito per fame e sete, da non parer più lui; non sente nulla nemmeno a pizzicarlo.
Il Dimagrato. Un canchero alle schifose carogne! So che per esse sono sempre il mal capitato. Quando la donna era ancora la buona massaja mi chiamavano l'Avarizia; allora la casa era ben governata; vi entrava molta roba, non ne usciva nulla. Io facevo la guardia allo scrigno ed all'armadio; locché per certo era una cattiva abitudine. Ma dacché in questi ultimi anni la donna ha disimparato l'economia, e che al pari d'ogni cattivo pagatore si trovò avere più desiderii che scudi, all'uomo non rimase che soffrire, e debiti da ogni parte. Se guadagna qualche cosa, lo spende per adornarsi o per il ganzo. E così essa mangia bene e beve ancora meglio insieme a quel maladetto branco di drudi.
Una Donna (la più distinta). Vada al diavolo il dragone, e tutti i dragoni del mondo! In fin dei conti tutto questo non è che trufferia e menzogna. Egli viene ad aizzare gli uomini, come se non fossero già abbastanza uggiosi anche senza codesto.
Le Donne in massa. Vile fantoccio! Che lo si schiaffeggi! Come può saltare in mente a questa rozza da strapazzo di minacciar noi? Davvero che ci cale molto delle sue smorfie! I dragoni sono di carta o di legno. Dalli! dalli! piombategli sul carcame.
L'Araldo. In nome del mio bastone! chetatevi! Ma è inutile ch'io vi aiuti; guardate come i mostri furiosi spaziando nell'aria spiegano le duplici ali, e come i dragoni adirati s'agitano vomitando fuoco dalle scagliose gole. La folla fugge, la piazza è sgombra. (Platone discende dal carro).
L'Araldo. Eccolo che viene; quale maestà regale! Dietro un semplice suo segno i dragoni sono in moto; essi hanno levato dal carro lo scrigno colmo di danaro e di avarizia, e l'hanno messo a' suoi piedi: davvero che tutto ciò ha del prodigio!
Plutone (al Fanciullo). Eccoti alleggerito di questo pesante fardello; ora sei libero di prendere il volo verso la tua sfera. Essa non è certo qui, ove grotteschi fantasmi ci assediano, la confusione e il rumore ci attorniano. Vanne colà ove puoi contemplare l'ambiente sereno e puro al pari di te, ove tu senti di essere padrone di te stesso, e di te solo fiducioso; là ove solamente hanno pregio il Bello e il Buono. Alla solitudine! In questa va a creare il tuo mondo.
Il Fanciullo. È così che io mi stimo un degno messaggero, è così che io ti amo come il mio più prossimo parente. Ove tu risiedi regna l'opulenza, ove son io, ognuno nuota in un mare di tesori. In questa vita assurda, l'uomo pende sovente incerto se deve darsi a te o a me. Coloro che ti seguono possono a dir vero acquietarsi nell'ozio; ma chi corre sulle mie orme ha sempre qualche cosa a fare. Io non agisco nel segreto; solo che mi faccia a respirare, e ciò basta per essere tradito. Addio, dunque! tu m'abbandoni alla mia felicità! Ma appena avrai proferito sommessamente il mio nome, tu mi vedrai ritornare. (Esce come è venuto).
Plutone. È ormai tempo di tirar fuori i tesori. Basta che io tocchi le serrature colla bacchetta dell'araldo, perché esse si schiudano. Mirate! Un sangue d'oro circola entro i forzieri di bronzo. Qual pompa di diademi, di catene, di monili sfarzosi! Qual massa d'oro! Potrebbe struggersi ribollendo!
Diversi clamori nella folla. Guardate, guardate che rilucente fusione! essa riempie il forziere sino all'orlo. I vasi si cambiano in un liquido d'oro, i rotoli di ducati scorrono come appena usciti dalla zecca. Oh come mi batte il cuore! Ho una vertigine di desideri. Vi si offrono tesori, accettateli subito; non avete che ad abbassarvi per diventar ricchi. Noi, ratti come il baleno, c'impossessiamo del forziere.
L'Araldo. Che fate, insensati? Non c'è in tutto questo che una commedia da mascherata, e non si chiede di più per questa sera. Vi siete forse immaginati che vi sarebbe stata regalata copia d'oro e di valori? Ma delle marche da giuoco sarebbero anche troppo per voi in questa congiuntura. Malaccorti! che vorreste convertire uno scherzo grazioso nella schietta verità. A che vi gioverebbe la verità? Voi vi gettate a corpo perduto nell'errore grossolano. O Plutone da carnevale, o eroe da mascherata, cacciami via di qui tutta questa gente.
Plutone. Mi servirà egregiamente il tuo bastone; prestamelo un momento, ch'io l'immerga nella liquida fiamma. Ed ora, o maschere, state in guardia. Che lampi, che scoppii, che razzi sfavillanti! Vedete, il bastone è già tutto in fiamme! Guai a chi gli viene troppo vicino. Orsù, io comincio il mio giro.
Strida e confusione. Ahi! ahi!... Siamo perduti. Si salvi chi può! Indietro, indietro, tu che mi stai troppo dappresso! Il mio viso è spruzzato di scintille! Come mi pesa questo bastone di fuoco! Indietro, maschere insensate. Largo, largo! Ah se avessi delle ali per volarmene via!
Plutone. Già il cerchio s'è allargato, e nessuno, io credo, s'è scottato; la folla cede, si disperde presa da spavento. Nonostante, come garanzia dell'ordine che si è fatto, io voglio tracciare un cerchio invisibile
L'Araldo. Tu hai compiuto un'opera esimia; grazie infinite sien rese alla tua possanza!
Plutone. Non siamo ancora alla fine, nobile amico; un po' di pazienza! Nuovi tumulti ci minacciano.
L'Avaro. Con della buona volontà, non è difficile stare a contemplare questo cerchio, e provarne piacere, poichè le donne quando si tratta di esercitare la curiosità, o di carpire qualche cosa, sono sempre al primo rango. Quanto a me, io non sono ancora così male in arnese; una bella donna è sempre appetibile; e poiché oggi non costa nulla voglio farne una spanciata. Ma siccome però in un luogo che rigurgita di gente, non tutte le parole sono intese a dovere, così tenterò di esprimermi il più chiaramente possibile colla pantomina e spero di riescirvi. Se le mani, i piedi, i gesti, non sono sufficienti, ebbene, ricorrerò a qualche gherminella: mi servirò dell'oro come se fosse umida creta, a cui si dà la forma che si vuole.
L'Araldo. Che cosa salta adunque in mente a questa stupida mummia? Quell'affamato pitocco vorrebbe forse fare dello spirito? Tutto l'oro diviene nelle sue mani una pasta molle. Come la rimesta e la spappola! E ciò malgrado non riesce a dargli che una forma ignobile. Ed ecco che si volta alle donne; ed esse strillano, si dimenano ignobilmente, e cercano di fuggire. Il mariuolo ha una brutta accoglienza, ed è facile che usi modi sconvenienti, e tali che io non potrei tacermi. Dammi adunque il mio bastone, ché io voglio scacciarlo.
Plutone. Non sarà lui che affretterà i malanni che ci minacciano di fuori. Lascialo pure sbizzarrirsi da quel pazzo che è; gli mancherà il posto per le sue pasquinate. La legge è potente, ma più ancora la necessità.
Tumulto e canto. Drappelli di gente silvestre accorrono dall'alto dei monti, dal folto dei boschi, per festeggiare il loro gran dio Pane. Sanno dessi ciò che nessun altro sa; e si slanciano nel cerchio vuoto.
Plutone. Io vi conosco, voi, il vostro gran dio Pane e le forti imprese che avete compiuto in sua compagnia! Io so benissimo ciò che non è noto a tutti e ben volentieri v'apro l'accesso a questo stretto cerchio. Che la fortuna li assista! Possono far senza del meraviglioso; non sanno ove vanno; davvero che non sono accorti.
Canto selvaggio. Genia imbellente, massa di lustrini! bruti, brutali arrivano a salti arditi, lanciati a corsa furibonda; eccoli tutti forti e gagliardi.
I Fauni. La schiera dei Fauni dalla danza lasciva, coi crespi capegli coronati di rami di quercia, un viso largo, un nasino camuso, un orecchio sottile ed aguzzo che spunta fuori dalle ciocche, incontrano ciò malgrado il favore delle donne. Quando il fauno porge loro la zampa, la più bella di loro non fa la schizzinosa.
Un Satiro. A noi che abbiamo il piede di capra e la gamba sottile, s'addicono membra asciutte e nervose. Come fanno i camosci sulle vette dei monti, il satiro si diletta a spingere lo sguardo da tutte le parti e baldo di libertà deride il fanciullo, l'uomo, la donna, che laggiù nelle nebbie delle bassure credono ingenuamente di vivere anch'essi, mentre egli solo, là in alto, in quell'aria pura, e scevro di pensieri, vive davvero, e può credersi padrone del mondo intero.
I Gnomi. Ecco venire trotterellando la tribù dei Pigmei, che non sa camminare per due. Coperti d'un abito di muschio, si dimenano dinoccolati colle loro piccole lanterne, ciascuno a suo modo, formicolando come lucciole, con un moto incessante, per dritto e per traverso. Prossimi parenti dei sacri tesori, rinomati come anatomisti del granito, noi facciamo salassi alle montagne e spilliamo dalle ricche loro vene. Noi caviamo fuori i metalli, animandoci al lavoro col grido: Che la sorte ci sia favorevole! un grido che sgorga dal cuore, perché noi siamo gli amici della brava gente. Frattanto noi esponiamo alla luce l'oro pei ladri e pei mezzani, ed abbiamo cura di non lasciar mancare il ferro all'uomo riottoso che inventò l'assassinio su larga scala. Colui che disprezza i tre comandamenti, non tiene alcun conto degli altri. Di tutto questo noi non abbiamo colpa; e perciò abbiate pazienza.
I Giganti. Gli uomini selvaggi, — è questo il loro nome, — sono assai conosciuti là sui dirupi dell'Harz. Nudi e fieri della loro forza antica, camminano a schiere con un incedere da veri giganti, con un tronco d'abete nella mano destra, una grossolana cintura intorno al corpo, e i fianchi coperti da fogliami. Sono guardie tali che il papa stesso non ha l'eguali.
Coro di Ninfe (circondano il dio Pane). Ecco qua anche lui, il sublime Pane, il simbolo di tutto quanto v'ha nel mondo. Le più graziose fra voi intreccino a lui d'intorno le danze più spigliate; benché buono e grave egli ama l'allegria. Sempre desto sotto l'azzurra volta del cielo, si compiace del dolce mormorio dei ruscelli, e delle brezze che lo cullano soavemente invitandolo al riposo; e quando s'assopisce verso il meriggio, le foglie cessano di stormire, e l'aroma delle piante fiorite gl'imbalsama l'aria silente; la ninfa interrompe i suoi trastulli, s'arresta, e si addormenta sul punto stesso ove si trova. Ma se ad un tratto risuona la sua voce, poderosa al pari del rombo del tuono o del muggito del mare, nessuno sa più da qual parte volgersi, la forte armata si sperde, e nella confusione i brividi assalgono l'eroe. Onore adunque a chi spetta! salute a colui che qui ci adduce.
Deputazione di Gnomi (al gran dio Pane). Se lo splendente e supremo bene s'annida e scorre nelle vene del granito, e non rivela i suoi tortuosi meandri che al magico potere della bacchetta divinatrice, — noi edifichiamo nelle oscure grotte la nostra casa di trogloditi, mentre alla pura luce del sole, dispensi generosamente i tesori. Ed ecco che qui presso noi abbiamo or ora scoperto una sorgente meravigliosa, che promette darci senza lavoro ciò che appena si potrebbe sperare da una fortunata conquista. Da te solo dipende la piena riuscita di questo affare; prendila, o sire, sotto la tua protezione! Nelle tue mani ogni tesoro diventa retaggio dell'universo.
Plutone (all'Araldo). Sappiamo comportarci con grandezza e lasciamo che si compia ciò che si sta preparando. A te il coraggio non è mai mancato. Ora sta per succedere qualche cosa di sì orribile che né il mondo né la posterità non vorranno prestarvi fede; prendine nota esatta ne' tuoi protocolli.
L'Araldo (afferrando la bacchetta che Plutone tiene in mono). I nani conducono adagio adagio il dio Pane presso la sorgente del fuoco che scaturisce gorgogliando dalle viscere della terra, poi ricade nella voragine, la cui bocca rimane spalancata ed oscura, ed ove il gorgoglio ondeggia ancora bollente e fumante. Il gran dio Pane assiste di buon umore a uno spettacolo che lo entusiasma. Una schiuma di perle spruzza da ogni parte. Egli si china per guardare; ma ecco che gli casca dentro la barba. Chi è mai costui con quel mento raso? La sua mano ce lo nasconde. Sopra viene un grande malanno: la barba prende fuoco e in un momento una striscia di fuoco incendia la corona, il capo ed il petto; la gioja è convertita in tormenti. La schiera dei gnomi accorre a spegnere le fiamme, e più quelli s'affannano per soffocarle, più queste avvampano e si moltiplicano. Avviluppato dall'elemento ardente un drappello intero di maschere arrostisce. Ma che ascolto? Quale novella le bocche susurrano agli orecchi? O notte eternamente terribile, quanti malanni ci hai arrecato! nella giornata di domani si udrà quello che nessuno vorrebbe udire. Da ogni parte si grida che è l'imperatore che soffre codeste torture! L'imperatore brucia co' suoi fidi. Sia maledetto colui che lo ha spinto a circondarsi di fascine resinose ed a venir qui a fare tanto strepito, per riuscire alla distruzione generale! O gioventù! o gioventù! non saprai mai mettere un freno alla tua gioja! — O grandi! o grandi! non saprete mai conciliare nei vostri atti la ragione al potere che esercitate?
Già tutto è preda delle fiamme; già montano a lambire l'armatura del tetto; un incendio generale ci sovrasta. La desolazione ha colma la misura; chi mai ci salverà? Domani si vedrà la grande magnificenza imperiale giacere al suolo, ridotta durante la notte in un mucchio di cenere?
Plutone. Bando allo spavento! è tempo di arrecar loro soccorso. O potere di questa bacchetta! Che il suolo frema e rimbombi al suo tocco! e tu, o etere infinito, riempiti di un tiepido vapore! Voi, nebbie, posatevi qui! O nembi gravidi di pioggia, ammassatevi su questa fornace romoreggiante; o piccole nubi, stendetevi, condensatevi in acquazzoni, fate ogni sforzo per ispegnerla, cangiate in una procella questo vano tramestio di fiamme. Quando gli spiriti congiurano a nostro danno spetta alla magia a scendere in campo.