Johann Wolfgang von Goethe
Torquato Tasso

ATTO PRIMO

SCENA I. Giardino adorno coi busti dei poeti epici; sul proscenio, a destra Virgilio, a sinistra l'Ariosto. Principessa e Leonora.

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ATTO PRIMO

 

SCENA I.

Giardino adorno coi busti dei poeti epici; sul proscenio, a destra Virgilio, a sinistra l'Ariosto.

 

Principessa e Leonora.

 

Princ.

Me riguardi e sorridi, e te medesma

pur guardi e arridi. Or che hai tu? lo svela

ad un'amica! Pensierosa sembri,

ma pur gioconda.

Leon.

Meco stessa io godo

ambo vederne in villereccio ammanto.

Noi sembriam due felici pastorelle:

diversa alla loro è l'opra nostra;

noi trecciamo corone. A me tra mano

questa a fiori diversi ognor più cresce;

con più nobile core e più sublime

intelligenza tu lo snello hai scelto

allôr gentile.

Princ.

A degno capo or tosto

verranno i rami che trecciai pensosa;

grata io n'orno Virgilio...

(incorona il busto di Virgilio)

Leon.

Ed io l'allegro

mio colmo serto sull'altera fronte

pongo al gran Lodovico...

(incorona il busto d'Ariosto)

Egli, i cui scherzi

fioriran senza tempo, abbia del nuovo

april suo dono.

Princ.

Noi compiacque Alfonso

di tosto addurne in questi giorni ai campi;

qui possiamo esser nostre e per molt'ore

l'aureo tempo de' vati andar sognando.

Amo assai Belriguardo, ove in letizia

più giorni vissi di mia prima etade:

questo sol, questo verde al cor mi avviva

il sentir di quel tempo.

Leon.

Un nuovo mondo

d'ogn'intorno ne appar: l'ombra di questi

sempreverdi ci alletta, e ne consola

il rumor d'este fonti: i nuovi rami

tremoli al mattutin vento si piegano,

e a noi volgono i fior d'in su le aiuole

l'ingenuo sguardo amico: il giardiniero

agli aranci ed a' cedri allegro scopre

la vernina magion: tinto in azzurro

il ciel s'effonde placido, e la neve

sul lembo estremo dei lontani monti

si risolve in lievissimo vapore.

Princ.

Cara avrei primavera, ove l'amica

non mi rapisse.

Leon.

In questi dolci istanti

non membrar che sì presso è il mio partire.

Princ.

Quanta gioia qui lasci, a cento doppi

in tua grande città ti fia renduta.

Leon.

Dover traggemi e amore al mio consorte,

che d'assai tempo mi desia. Suo figlio,

che nel volger d'un sol venne in tal fiore,

ritornando gli adduco e a parte vegno

di sua gioia paterna. È signorile

Fiorenza e grande, e nondimeno il pregio

de' suoi tutti tesori in mucchio accolti

cede alla gemma di Ferrara. A quella

diede il popolo vita; a prenci suoi

reca Ferrara sua grandezza.

Princ.

O meglio

ai valorosi che qui accolse il caso,

e fortuna annodò.

Leon.

Ciò ch'ei raduna

sperde il caso di lieve: accoglie i prodi

prode mortale giammai li perde.

Tale è vostro costume: a te d'intorno

e a tuo fratello si rassembran spirti

ben di voi degni, e de' grand'avi al certo

degni voi siete. Qui dapprima il bello

lume rifolgorò della scïenza

e del franco pensier, quando la cupa

barbara notte possedea la terra.

D'Ercole d'Este udii fanciulla il nome

e d'Ippolito d'Este; il padre mio

solea di Roma e di Fiorenza al paro

pregiar Ferrara. Oh qual pungeami brama

di raccormi in sue mura! ed or vi sono!

Qui onoranza ed ospizio ebbe Petrarca;

qui Lodovico ritrovò suoi tipi;

ogni più sommo onde l'Italia ha vanto

si sedè festeggiato a questi lari.

Avventuroso l'ospite del Genio!

Se d'un dono il consoli, ei te lo rende

d'assai più bello; divien sacro il loco

ove il buono pon l'orma, e ne risuona

fino ai tardi nipoti il detto e l'opra.

Princ.

Quando al pari di te chiudano in petto

fervido il core. Di sì caro dono,

quanta invidia ti porto!

Leon.

Un dono è questo

che purissimo godi in tuo secreto,

come pochi mortali. In me repente

alla piena del cor dan varco i labbri,

tu meglio senti e più profondo, e... taci.

Te non abbaglia dell'istante il lampo,

corrompe l'arguzia, a te l'orecchio

blandisce indarno la lusinga accorta.

Saldo regge il tuo senno e puro il gusto;

tuo giudizio è sicuro; e a ciò che è grande

l'alma ti ferve, chè tu il grande intendi

come te stessa.

Princ.

La sottil lusinga

già non dovresti ricoprir col velo

di verace amistà.

Leon.

Giudice retta

è l'amistade, e può sol una il giro

comprender tutto de' tuoi merti. E lascia

che da fortuna io riconosca in parte

tuo perfetto costume. Or ne vai lieta

e a quante donne nostro tempo onora

siedi reina colla tua sorella.

Princ.

Questa lode io rifiuto, ove il mio poco

valor discorra e come ad altri il deggio.

Le antiche lingue dalla madre appresi

e il retaggio miglior dei tempi antichi:

ma di senno eguagliarla e di scïenza

non potêr le due figlie; e se a lei presso

merta alcuna venir, Lucrezia è quella.

mai di sorte o di natura i doni,

credi, amica, al mio detto, io mi recai

a possesso od onore. Emmi letizia

porgere ascolto al favellar de' savi,

perchè segue mia vista a lor parola.

O le imprese e il valor di qualche antico,

pongan rigidi in lance, o di scïenza

amin parlar, che per cimenti estesa

avvantaggia il mortale e lo sublima,

ove il discorso dei gentili invita

gioconda io seguo, perocchè m'è lieve.

Loro argute tenzoni udir mi piaccio,

quando un facondo labbro in su le forze,

che sì amiche e tremende i petti umani

agitan sempre, grazïoso scherza;

e quando il sofo a perscrutar si pone

la regal sete di possanza e gloria;

e quando di prudente uomo il sottile

accorgimento con dolcezza svolto

a dottrina ci torna e non a inganno.

Leon.

Indi, partite da colloqui austeri,

noi l'orecchio e la mente inebrïamo

nelle rime del vate, il qual pur sempre

con sue care armonie ci sveglia in petto

i più dolci sentiri. Un vasto regno

la tua sublime intelligenza abbraccia;

all'isola dei vati io mi raccolgo

infra selve d'allori.

Princ.

Odo che il mirto

assai piú d'altra pianta alligna in questo

gentil paese. Molte son le muse,

ma rade volte fra di lor si sceglie

la compagna e l'amica allor ch'al vate

vuolsi incontro venir, che par schivarne,

anzi fuggirne e gir di cosa in traccia

certo a noi tutte ed a lui forse ignota.

Oh il leggiadro pensier, se, in ora lieta

noi due cogliendo, ei d'un bell'estro acceso

pure in noi quel tesoro affigurasse

onde indarno da tanti anni va in cerca

per l'immenso universo!

Leon.

In grado io tolgo

di tua facezia la leggier puntura:

debito onore a ogni mortale io rendo

e non son vêr Torquato altro che giusta.

Ei la terra d'un guardo appena degna,

ei l'unisono intende di Natura;

ciò che insegua la storia, offre la vita,

pronto e volente ei nel suo petto accoglie;

sua mente in una ciò che lunge è sparso,

le morte cose il suo sentir ravviva;

quanto a noi par volgare ei d'aurea luce

sovente abbella, e ciò che in pregio avemo

calca a paro del fango. In questo suo

magico cerchio l'ammirabil vate

sempre s'aggira e noi v'attragge e sforza

a volger seco, a palpitar per lui.

Par che a noi si raccosti, ed è lontano;

par che in noi fissi il guardo, e in nostra vece

spiriti forse agli occhi suoi si stanno.

Princ.

Delicata ed arguta il vate hai pinto

che i regni vola de' soavi sogni;

pur, se mal non mi appongo, il vero ancora

forte lo alletta e in signoria lo tiene.

Dimmi: i bei canti che alle piante inserti

qua e noi troviamo, aurate poma

che ricordano Esperia in loro olezzo,

dolci frutti non son di vero amore?

Leon.

Ed io pur de' bei fogli ho mio diletto.

Con molteplice spirto in tutte rime

sola onora una imago; or, la innalzando

entro splendida gloria infra le stelle,

le si prostra adorante, ed angiol pare

sovra le nubi; or per li queti campi

a lei move furtivo e d'ogni fiore

le intreccia il serto. Se la dea si parte,

ei consacra il sentier che d'orma lieve

segnò il bel piede; in un cespuglio ascoso,

simile ad usignol, l'innamorato

cor disfogando, i boschi adempie e l'ôre

colla blanda armonia de' suoi lamenti.

Cantobello, sì soave affanno

ogni orecchio governa ed ogni core.

Princ.

E tutte volte che sua fiamma ei nomi,

Leonora la dice.

Leon.

Al par che il mio

quest'è il tuo nome. Io di portarlo ho caro:

godo ch'ei veli coll'ambiguo suono

quanto affetto a te nutre, e di me ancora

memore il faccia l'armonia del nome.

Non è questo un amor che impadronirsi

vuol dell'amato, il posseder sol uno

e celarlo geloso a tutti i guardi.

S'ei tue laudi in beata estasi ammira,

anche si puote trastullar co' miei

poveri pregi. Noi non ama, – il detto

tu mi perdona! – ma, da tutte sfere

ciò ch'egli ama involando, il nostro nome,

quaggiù ne adorna e il suo sentir ne infonde.

Amar l'uomo a noi pare, e al par di lui

solo amiam quel sublime a che levarsi

può nostro affetto.

Princ.

Di cotal scïenza

ben sei tu penetrata entro gli arcani:

a me viene ad orecchio tua parola,

ma non penetra il petto.

Leon.

Or non comprendi

tu, scolara a Platon, la ciarla audace

d'un'inesperta? Erro fors'io: no certo;

vero il cuore mi parla. In questa mite

scola Amore non è, sì come altrove,

un fanciul malavvezzo; egli è garzone

che con Psiche s'ammoglia, e seggio e voce

ha nel concilio degli dei. Non vola

furente e iniquo da l'un petto all'altro;

con dolce inganno non s'apprende tosto

a corporea beltà, di gravosi

tedi castiga una fugace ebrezza.

Princ.

Venir veggio il fratello: oh! ch'ei non sappia

ove di nuovo il favellar volgemmo;

noi pungerebbe di scherzosi motti,

come già i nostri vestimenti irrise.

 

 


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