Alf.
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Vo sull'orme del Tasso, e in alcun loco
trovar nol so... nè al vostro fianco pure...
Ne sapreste novella?
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Princ.
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Ieri di
rado,
oggi nol vidi.
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Alf.
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È
vecchio error del vate
solitudine amar più che compagni.
Grave non m'è che delle turbe ei fugga
il discorde tumulto e star prescelga
tacito, sciolto a favellar col Genio;
ma lodar non poss'io che si sottragga
al drappel degli amici.
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Leon.
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In
lieta lode
presto, o che spero, muterai tuo biasmo.
Oggi il vidi da lunge:
avea tra mano
un volume ed un foglio, e in suo cammino
scrivea di forza. Ieri un fugace motto
dalle labbra gli uscì che omai compiuta
l'opra svelommi. Con solerte cura
pochi tratti ne immeglia, onde a tua grazia,
che il francheggia di tanto, offrir da sezzo
un degno omaggio.
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Alf.
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Il
benvenuto ei fia,
e a lungo andrà d'ogni dovere assolto.
Come più sue fatiche io prendo a core,
e per molti rispetti il suo gran carme
mi rallegra a ragion, così più al vivo
ardemi alfin l'impazïenza in petto.
Tôr la mano dall'opra egli non osa,
sempre lima e tramuta, incede lento,
poi sosta a lungo e le speranze illude.
Struggesi il core, se la gioia tardi
che vicina sognò.
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Princ.
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Di laude
è degno,
poichè, solerte e umil, piede anzi piede,
move a la meta. Sol mercè le muse
s'accolgono a un'idea cotanti versi;
ned altro ei brama che condurre a filo
il suo poema;
accumular novelle
a novelle non vuol, che fanno all'ore
un amabile inganno e sono alfine
vuota parola che sonando illude.
Non turbarlo, o fratel; perchè di bella
opra non tiene le misure il tempo.
Onde ammirino i tardi anni il lavoro,
spesso è mestier che la presente etade
dell'artista s'oblii.
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Alf.
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Concordi,
o cara
sorella, opriamo, e già d'assai ne valse:
mio fervor tu rattempra, a tua lentezza
io sarò sprone. Sì, vedremlo alfine
tenere, ardito salitor, sua cima,
come a lungo bramammo. Allor la patria,
il mondo allora stupirà di tanta
opra compiuta. Di sua gloria un raggio
godrommi io pure, e tornerà il poeta
infra i viventi. Un nobile mortale
non può l'indole sua temprar perfetta
in piccol cerchio:
il natio loco e il mondo
influiscan sovr'esso;
induri l'alma
alla gloria ed al biasmo:
ei così acquista
di sè e d'altrui la conoscenza vera.
A lui di dolci illusïoni il core
solitudine pasce:
ingrati veri
dirgli vuole il nemico, osa l'amico.
Così lottando opra il garzon sue forze,
suo valor riconosce ed uom si sente.
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Leon.
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De' tuoi molti favori al giovin vate
sarà questo il suggello. Anco in silenzio
sboccia il fior dell'ingegno:
il cor si tempra
sol ne' tumulti della vita. Oh possa,
come l'arte affinò, nella tua scola
educar l'alma!
Dal consorzio umano
più non s'involi nè il sospetto muti
in tema ed odio.
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Alf.
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Degli
umani teme
sol chi non li conosce, e chi li fugge
a sconoscerli impara. Erra Torquato
in cotanto deliro, e a poco a poco
quel suo libero spirto ombra e s'allaccia;
spesso ei così pel mio favor s'affanna
più che a lui non s'addice;
inverso molti,
ch'io so di certo non gli son nemici,
nudre fieri sospetti. Ov'egli incontri
che una lettra smarrisca, o che un suo servo
vada ad altro signore, o che di mano
gli cada un foglio, il tradimento ei vede
che gioioso in feral rete lo attragge.
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Princ.
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Mortal non è che se medesmo fugga;
rimembriamlo, o fratello. Ove un amico,
che compagno di via nosco ne venga
del piede infermi, volentier torremmo
d'allentar nostri passi ed a sostegno
la destra offrirgli.
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Alf.
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Ma il
miglior saria,
quando e' possa guarire, a providente
medico fido rassegnarlo, e poscia
col risanato ripigliar giocondi
il cammin nuovo della dolce vita.
Nè di ruvido medico la taccia
avrò, spero, o dilette. Il tutto io tento
a ravvivargli di fidanza il core:
al cospetto di molti a lui do spesso
cenni indubbii d'affetto; ove d'offesa
a me si lagni, io diligente esploro,
come or or che sconfitta a le sue stanze
credè la porta:
che se nulla scopro,
placido mostro a lui qual della cosa
giudizio io rechi:
e poi che vuolsi ad ogni
arte por man, la pazïenza io sempre
uso con esso (ed ei lo merta);
e in questo
so d'avervi compagne. Or che v'addussi
alla pace dei campi, anzi che annotti
riedo in Ferrara. Qui vedrete un breve
istante Antonio, che da Roma or giunto
mi ritorna in città. Seco assai cose
parlar deggio e trattar, prender partiti,
molte lettre vergar:
quindi è mestieri
ch'io ne rieda in Ferrara.
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Princ.
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E a noi
concedi
di venirne compagne?
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Alf.
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Or qui
restate,
o a Consandoli insiem volgete i passi;
l'aura godete de' sereni giorni.
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Princ.
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Perchè nosco non stai?
Qui come altrove
puoi gli affari sbrigar.
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Leon.
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Tu a noi
rapisci
sì tosto Antonio che potrìa gran cose
narrar di Roma?
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Alf.
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Qui
restar non posso,
dilette mie, ma tornerò con esso
il più tosto che sappia:
allor l'udrete
narrar di Roma, e il premieremo insieme
della nuova che spese in mio servigio
molta fatica. E non avremo appena
l'opra compiuta, qui verrà la corte,
sì che ancor la letizia esulti e rida
per li nostri giardini, e, come è dritto,
io pur talora per gentile incontro
qualche bella alle fresche ombre ritrovi.
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Leon.
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Noi fingerem di non veder.
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Alf.
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Sapete
com'io serbi i rispetti.
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Princ.
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Ecco a
noi viene
(guardando dietro la scena)
dalla lunga Torquato a lenti passi:
ei si arresta talor, come tra due
pensier sospeso, indi veloce incede,
indi indugia di nuovo.
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Alf.
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Oh! non turbate,
or ch'ei va poetando, i suoi fantasmi:
tacito, solo, a suo cammino ei vada.
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Leon.
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Ei ne vide e s'accosta.
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