Tasso.
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A lento
passo
vengo un'opra a recarti, e ancor non oso
porla in tua mano. Ella è imperfetta, il vedo,
benchè possa apparir già tratta al fine;
ma se offrirtela tale erami acerbo,
oggi un nuovo pensiero a ciò m'indusse:
non forse io sembri peritoso troppo,
non forse ingrato. All'uom, tanto che dire
eccomi ei possa, i rallegrati amici
fan cortesi accoglienze. Ed io pur dire
sol posso un motto:
abbila in grado.
(gli porge il volume)
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Alf.
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Il dono
improvviso mi giunge e torna in festa
questo bel giorno. Infra mie mani adunque
pur lo tengo una volta e in qualche modo
dir mio lo posso. Io desiai lung'ora
che tu, l'ultima lima alfin gittando,
dicessi: Or
basta.
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Tasso.
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È
l'opra mia perfetta,
s'ella a voi piace, perchè al tutto è vostra.
Quando le cure io penso a lei sacrate,
quand'io rimiro di mia penna i tratti,
dir posso: È mia! Ma se più addentro guardo
onde pregio e decoro abbian miei versi,
solo a voi ne ringrazio. A me natura
largì benigna il dolce don de' carmi,
ma da sè mi cacciò con fiera forza
pertinace fortuna. Il mondo immenso
coll'altero splendor di sue bellezze
me fanciullo invaghì, ma d'acre strale
la povertade de' parenti ingiusta
punse il giovine cor. Le labbra appena
al canto apersi che ne uscîr querele,
e con suoni sommessi io fei tenore
ai dolori del padre e alle supreme
materne angosce. Dalla serva vita
tu solo a bella libertà m'hai tratto,
disgombrando il mio cor di tutti affanni.
Ozi lieti mi festi, onde potessi
l'anima aprire agli animosi carmi.
Dunque qual sia di mio lavoro il pregio,
sol ne so grado a voi, perchè egli è vostro.
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Alf.
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Così più splende d'umiltà tua gloria,
te onorando e noi stessi.
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Tasso.
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Oh
pienamente
dir potess'io, come nel cor lo sento,
che mi venne da voi quanto or vi dono!
Potè inerte garzon dalla sua mente
tragger fiume di carmi, e l'avvisato
governo ordir della veloce guerra?
L'arte dell'armi, onde ogni eroe risplende
nel gran giorno de' fati, il forte braccio
del cavaliero, il preveder del duce
e la prudenza colla fraude in guerra,
tutto io pinsi verace a te mirando,
saggio principe invitto. Eri il mio Genio
che per labbro mortal svelar godea
le meraviglie di sua dia natura.
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Princ.
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Dell'opra esulta che a noi torna in gioia.
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Alf.
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Godi il plauso de' buoni.
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Leon.
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E
l'universa
tua bella gloria.
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Tasso.
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Mio
desire in questo
istante ha posa. Solo a voi rivolto
nel fervor de' miei carmi ebbi il pensiero;
mia piú dolce speranza era il piacervi,
scopo supremo il rallegrar vostr'alma:
cui gli amici non son del mondo invece,
degno non é che di lui parli il mondo.
Qui il mio loco nativo, in questo cerchio
gode l'alma trar l'ore, io qui ogni cenno
ascolto e noto. Nella vostra scola
l'esperïenza ed il sapere e il gusto
docile appresi. L'età mia qui veggio,
veggio i tardi avvenire. Erra e impaura
tra la folla l'artista;
e colui solo
che di voi sia simile intende e sente,
giudica e premia degnamente ei solo.
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Alf.
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Se di posteri invece e di presenti
a te noi siamo, ne si addice al certo
rimertarti del dono. Il bello segno,
onoranza del vate, e cui lo stesso
eroe, che sempre de' suoi carmi ha d'uopo,
senza invidia gli mira avvolto al crine,
qui dell'avo tuo grande in sulla fronte
splender vegg'io. (accennando il busto di Virgilio)
Fu la fortuna o il Genio
che trecciollo ed impose? Indarno a noi
qui non si mostra. Odo parlar Virgilio:
Perchè tanta alle fredde ombre onoranza?
Ebber premii, ebber gioie allor che il raggio
godean del giorno. Poi che a noi cotanta
reverenza v'atterra, anco ai viventi
qualche segno d'onor per voi si renda.
Assai di serti ebbe mio marmo:
ai vivi
la verde fronda dell'allor s'addice.
(Alfonso accenna a sua sorella: questa prende la corona d'in sul busto di Virgilio e
s'avvicina al Tasso. Egli retrocede).
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Leon.
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Peritoso ti stai? vedi qual mano
serto ti porge rifulgente, eterno!
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Tasso.
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Deh! tardar mi lasciate;
io non so come
sopravviver mi possa a questo istante.
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Alf.
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Consolato vivrai di quella gloria
che improvvisa t'opprime.
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Princ.
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(tenendo sospesa in mano
la corona)
Il raro gaudio
tu, Torquato, mi dai d'aprirti il mio
pensier tacendo.
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Tasso.
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Da tue
care mani
genuflesso io ricevo il bello incarco
sul mio povero capo.
(egli s'inginocchia e la
principessa lo incorona).
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Leon.
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(applaudendo)
Evviva il vate
ch'or s'incorona primamente!
Oh come
orna quel lauto la modesta fronte!
(il Tasso si alza)
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Alf.
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Un'imagine è questa delle frondi
onde avrai la corona in Campidoglio.
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Princ.
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Udrai colà di mille plausi il suono;
qui l'amistade con soavi voci
premio ti porge.
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Tasso.
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Oh! al capo mio togliete,
oh! togliete quel serto:
arde le chiome,
e qual raggio di sol che in fronte fieda,
ei le potenze del pensier mi strugge,
bolle come per febbre il sangue mio;
perdonate, egli è troppo!
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Leon.
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Anzi
tal fronda
è uno schermo al mortal che vêr le ardenti
regïoni di gloria il piede innoltra,
e gli tempra di fresche aure la fronte.
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Tasso.
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Non io, non io son di quell'aura degno
che soltanto agli eroi lambe la fronte.
Dei, prendetevi il serto e fra le nubi
lo vestite di luce, onde sublime
lassù a' miei sguardi inconquistato splenda,
e mia vita non sia che a quella meta
un eterno vïaggio!
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Alf.
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Uom che
per tempo
i cari beni di quaggiuso acquista
sa per tempo estimarne il nobil prezzo;
uom che giovin godè, certo non lascia
volentier le sue gioie infine a morte;
e qual possiede armar si debbe.
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Tasso.
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E forza
debbe in petto sentir che mai non falli
chi armarsi intende. Ed io non l'ho: nel gaudio
quell'ingenita forza or mi vien meno,
perchè durai tetragono alla sorte
e stetti altero all'ingiustizia incontro.
Forse a me questa cara estasi scioglie
il vigor delle membra?
I miei ginocchi
tremito invade! Un'altra volta, o donna,
a te mi prostro, odi mie preci e il serto
della fronte mi leva, ond'io risenta,
qual da sogni dolcissimi riscosso,
l'aure tepenti di novella vita.
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Princ.
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Se tranquillo ed umìl dell'alto ingegno
che gli dei ti largiro, il pondo porti,
te non gravi esta fronda, onde più bello
porgerti un dono non possiam. Cui cinse
essa una volta degnamente il capo,
è ghirlanda immortal.
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Tasso.
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Dunque
lasciate
che d'esti lochi vergognando io parta,
che mie venture occulti in denso bosco,
come già vi nascosi i miei dolori.
Là vo' errar solitario ove niun occhio
rimembri a me la non mertata sorte.
Se mai per caso limpida sorgente
in suo lucido specchio un uom mi mostri
che redimito di mirabil serto
nel riflesso del ciel posi in pensiero
tra le piante e le rupi, allor vegg'io
pinto sull'incantate acque l'Eliso.
Io medito in silenzio e chi, addomando,
chi sarà quell'estinto?
Quel garzone
dei dì che furo?
E sì bel serto il cinge?
Chi il nome e il pregio ne sa dir? Lung'ora
aspetto e penso:
oh qui venisse un altro
e un altro ancora a vicendar con ello
amichevoli detti!
Oh ch'io vedessi
i vati e i prodi dell'età vetuste
intorno intorno a questo fonte accolti
stringersi ancor dell'insolubil nodo
onde il raggio del Sol li vide avvinti!
Come il magnete per natia virtude
ferro a ferro costringe, egual desio
vate unisce ad eroe. Di sè obliato
tutta il Meonio consacrò la vita
a mirar due mortali, ed Alessandro
bramoso tra le elisie ombre va in traccia
del Pelide e d'Omero. Oh con quest'occhi
qui vedessi le grandi alme adunarsi!
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Leon.
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Ti risveglia, su via! nè farne accorti
che or tu il presente disconosci al tutto.
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Tasso.
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Me il presente esaltò! Non son distratto,
estatico son io!
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Princ.
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Godo, se
a' spirti
è tua favella, che sì umano parli,
e lieta ascolto.
(un paggio s'accosta al principe e gli dice alcun che sotto
voce).
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Alf.
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Ei
giunse in punto.... A noi
tosto lo adduci.... ecco ei ne vien.
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