Tasso.
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Te seguo, o donna, con incerti passi,
e nell'alma mi fervono pensieri
senz'ordine e misura. A me, o che parmi,
Solitudine accenna e bisbigliando
soavemente dice:
– Or vieni, io sciolgo
i nuovi dubbi del tuo cor. – Ma quando
a te volga uno sguardo o da tue labbra
un accento l'orecchio avido beva,
mi rifulge d'intorno un dì novello,
tutti cadon miei lacci. Il cor segreto
t'apro di grado: da un soave sogno
me aspramente svegliò l'uom che improvviso
ci sopravvenne;
in sì mirabil guisa
sue fattezze colpirmi e sue parole
ch'io più che mai sento me stesso e ancora
in gran tempesta di pensieri ondeggio.
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Princ.
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Vecchio amico non può, se lungi trasse
strania vita lung'ora, al rivederne
sè repente sentir qual era avanti.
Pur mutato non è;
sol pochi giorni
ch'ei riusi con noi, torna la prima
tempra alle corde, fin che ancor le annoda
una gioconda melodia felice.
Quando ei vegga più addentro a qual lavoro
desti or l'ultima mano, emulo degno
ti dirà di colui che qual gigante
oggi a fronte ti pon.
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Tasso.
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Dalle
sue labbra
il preconio sentir di Lodovico
fu delizia più assai che non offesa.
Dolce è vedere in così alto scanno
l'uom che hai tolto a modello;
al cor segreto
parla allora un pensier:
– Se de' suoi pregi
alcun tu acquisti, alcuni raggi ancora
vestirai di sua gloria. – Altro, ben altro
i profondi del mio petto commosse
e tiene ancor la signoria dell'alma.
Son quelle forme d'un mirabil mondo
che vivente, attivissimo, ammirando,
si rivolge temprato intorno a un grande,
fior di tutta prudenza, e il cerchio corre
cui prescrivergli ardisce il semidio.
Avido attesi ed ascoltai giocondo
dell'esperto mortale il dir sicuro;
ma più, lasso! l'udia, più sempre vile
mi faceva a' miei sguardi e impauriva
di svanir, pari a un eco infra le rupi,
di dileguarmi come un suono, un nulla.
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Princ.
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Pur sì addentro sentir testè parevi
come il vate e l'eroe vive un per l'altro,
come l'un l'altro cerca, e invidïarsi
tra lor non denno. Opra di canto degna
cosa è invero gentil, ma bello è pure
le forti imprese tramandar con alto
carme ai futuri. Non avere a sdegno
da quel piccolo stato ove hai difesa
tranquillo contemplar, quasi da lido,
la procellosa correntía del mondo.
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Tasso.
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E non è questo il suolo, ov'io dapprima
vidi qual si largisca al valoroso
nobil mercede? Improvvido garzone
Ferrara entrai, che per continue feste
fatta il convegno dell'onor parea.
Oh che vid'io! La larga piazza, dove
il provato valor splender dovea,
era avvolta da un cerchio il cui simìle
rado vedrà l'eterno occhio del sole;
dense sedean le più leggiadre donne,
gli uomini onde ha sua cima il secol nostro
sedeano densi. Attonito lo sguardo
scorrea l'inclita folla, e questa intorno
voce s'udia: –
Tutti costor la patria,
un sol, cinto dal mar, paese angusto
inviava a Ferrara;
il più sublime
tribunale essi son che mai librasse
onor, merto, virtude;
ad uno ad uno
cercali pure, e non vedrai tra loro
cui del proprio vicin venga vergogna. –
S'apron le sbarre, ed ecco di destrieri
un calpestio, d'elmi e di scudi un lampo,
un affollar di scudieri, uno squillo
di tube, un croscio di scheggianti lance,
di celate e rotelle un cozzar cupo,
e ravvolta in un vortice di polve
l'onta de' vinti e de' vincenti il vanto.
Deh! tu d'un velo lo spettacol tutto,
a me troppo seren, coprir mi lascia;
onde soverchiamente in sì bell'ora
non mi punga il pensier di mia pochezza.
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Princ.
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Se quel nobile cerchio e quelle gesta
t'infiammarono allora ad alte imprese,
tu da me pure allor, giovine amico,
apprendere la muta arte dovevi
del sofferir. La festa che tu esalti,
che mille labbra mi vantaro allora,
che mi venner per molti anni vantando,
io già non vidi. In tacito ricinto,
dove appena morian gli echi supremi
di quelle gioie, il dì tardo io traeva
inferma e in tristi fantasie sommersa.
Innanzi a gli occhi colle larghe penne
alïava la morte, e la veduta
a me chiudea del sempre giovin mondo.
Solo talor mi si facea lontana
lasciandomi veder, quasi per velo,
i diversi colori della vita,
pallidi e pur giocondi:
allor scorgea
soavemente moversi di nuovo
forme viventi. Quando uscii dapprima
ancor poggiata di mie donne al braccio
dal mesto albergo, a me Lucrezia accorse
lieta di vita, e te per man guidava.
Eri il primo tu allor che nuovo e ignoto
mi venisse allo sguardo in quel novello
cammin degli anni; una gioconda allora
de' tuoi fati e de' miei speme mi prese;
nè c'ingannò finora.
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Tasso.
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Ed io, rapito
da quel vortice denso di tumulti,
da quei lampi abbagliato e acceso l'alma
da varii affetti, traversava muto
al fianco di tua suora i taciturni
portici della reggia, infin che entrai
dove appoggiata di tue donne al braccio
apparisti improvvisa.... Oh quale, oh quale
ora fu quella! Deh perdona!
Come
dall'ebrezza occupato e dal deliro
tosto l'uomo risensa all'appressarsi
d'un benevolo Iddio, così di mille
mie fantasie, di tutte brame, d'ogni
fallace impulso mi rifece sano
mio primo sguardo nel tuo sguardo affisso.
Se vagava disperso in mille obbietti
l'inesperto desire, allor me stesso
ricovrai vergognando, allor conobbi
cosa degna d'affetto. A questa guisa
cerchi indarno la perla in fra le immense
sabbie del mare, che nascosta posa
nella prigion di tacita conchiglia.
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Princ.
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La primiera per noi d'avventurose
ore fu quella; e
se il signor d'Urbino
non rapiane la suora, una gioconda
di molti anni vicenda a noi volgea.
Or ne torna in gran doglia aver lontano
il cor sereno, il vivo spirto ardente
dell'amabile donna e il suo d'arguzie
fecondo ingegno.
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Tasso.
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Ah! ben vegg'io: dal giorno
ch'ella parti, non potè alcun ridarti
quelle limpide gioie. Oh come spesso
mio cor gemeane!
Come spesso i miei
per te dolori confidava all'ombre
della tacita selva!
Ah! dicea meco,
nullo, tranne la suora, ha il gaudio, il dritto
d'esserle in pregio? Più non batte un core
degno a cui si confidi? E non è spirto
che col suo si concordi ad una tempra?
L'ingegno è spento e l'intelletto? E sola,
sola una donna per quantunque diva
rapío di tutte le virtudi il fiore?
Deh! perdona, o gentile. Allor sovente
di me pensando io desiai venirti
in qualche pregio. In opre e non in detti
un tuo plauso mercarmi, ancor che lieve,
forte io bramava e palesarti a prova
come in silenzio a te sacro è il mio core.
Eran vane lusinghe;
anzi sovente
dall'errore travolto opre commisi
che ti furono affanno;
offesi l'uomo
cui largivi tua grazia, incautamente
ciò che scior tu bramavi avviluppai.
E così sempre che accostar ti volli
più da te mi partiva.
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Princ.
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I tuoi
desiri
sempre, o Tasso, conobbi, e ben so come
artefice tu sei de' proprii danni.
Con ciascuno mortal, qual ei pur sia,
ben sa mia suora temperar la vita:
tu non trovi da tanti anni un amico
in cui posi tuo spirto.
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Tasso.
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Oh! non
tacciarmi;
ma un mortal tu m'addita, una mortale,
cui del pari che a te svelare io possa
francamente i pensier?
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Princ.
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fidar dovresti.
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Tasso.
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È il mio
signor: non certo
il selvaggio desir che freni sdegna
a me commove procelloso il petto.
L'uomo non nacque a libertà, nè volge
ad animo gentil più eletta sorte
che ad un prence servir cui tenga in pregio.
Cotal per fermo è il mio signore; ed io
tutto sento il valor d'esta parola.
A tacer quando ei parla apprender deggio,
ed a lui pur, quand'ei comandi, a lui
forte opporsi potrian la mente e il core.
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Princ.
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Questo col mio fratel mai non ha loco.
Ed or novellamente un savio amico
hai nel reduce Antonio.
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Tasso.
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Io lo
sperava:
quasi or dispero. Il conversar con ello
vera scuola a me fora e il suo consiglio
scampo in più casi. Confessarlo io deggio,
ogni dono ei possiede ond'io vo scemo.
Ma pur fra tutti gl'immortali accorsi
di cari doni ad abbellir sua culla,
ahi! non parver
le Grazie; e cui non fulse
il sorriso divin di quelle miti,
benchè molto possegga e molto dia,
petto non ha dove un mortal riposi.
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Princ.
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Pur egli è fido, e questo è assai. Da un solo
non dêi chiedere il tutto, e questi attiene
quanto promette. Se ti chiama amico,
quando manchi a te stesso ei t'ave in cura.
Bello è ad entrambi andar congiunti: ed io
stringerò sì bel nodo, ove non t'abbia,
come suoli, ritroso. Ecco gran tempo
Leonora gioimmo, una gentile
indole arguta, a cui vicin più leve
vola la vita; ma
nè a lei volesti
confidente accostar, bench'ella assai
vaga ne fosse.
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Tasso.
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Compiacer
ti volli;
chè fuggita l'avrei, se ciò non era.
Benchè amabile sia, rado io poteva
tutti aprirle i miei sensi;
e quando ancora
drizza al ben degli amici il suo pensiero,
grata ad un tempo e sconcertata è l'alma.
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Princ.
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Per questa via non troverem compagni:
essa in solinghi boschi a errar ne mena
e in tacite convalli:
il cor più sempre
malamente si adusa e più si prova
a compor dentro sè con vani sforzi
quell'aureo tempo che al di fuor gli falla.
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Tasso.
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Oh! che dicesti?
Ove fuggì quell'aureo
tempo, inutil desio di tutti i cuori?
Allora a guisa d'esultanti greggi
si spandeano i mortali a coglier gioie
sulla libera terra;
allor sul vario
smalto de' prati un albero vetusto
il pastore ospitava e la compagna
alle dolci ombre; un giovine cespuglio
coll'intreccio de' rami un fido velo
dava al fervido amor; limpido sempre
per lucenti lapilli il rivoletto
avvolgea placidissimo una ninfa;
dileguava innocente in mezzo all'erbe
l'aspe atterrito, e dal garzon gagliardo
castigato fuggia l'audace fauno;
ogni augel per le aperte aure alïando,
ogni fera vagante in monti e in valli
allor diceva all'uom:
S'ei piace, ei lice.
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Princ.
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L'aureo tempo svanì, diletto amico,
ma pur virtude lo ritorna in vita.
E se aprire io ti deggio il mio pensiero,
l'età dell'oro onde ne alletta il vate
la bellissima etade unqua non era,
come non è; che
se una volta fulse,
ell'era tal che può rifulger sempre.
Ben s'annodan concordi anime ancora
le delizie a goder dell'aureo tempo;
un motto solo della tua sentenza
vuolsi, amico, mutar:
Piaccia, se lice.
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Tasso.
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Oh se un convegno universal d'egregi
sedesse a giudicar di quanto lice!
Ma dell'utile suo ciascun mortale
fa norma al dritto. Ecco al prudente, al forte
lecito è tutto, ed ogni ardir ben torna.
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Princ.
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Se conoscer ben vuoi ciò che conviensi,
fanne domanda a costumate donne;
perchè lor preme assai che non sia cosa,
salvo decente. Invïolato schermo
al fragil fiore del femineo sesso
è la decenza: ove
costume ha regno
tien lo scettro la donna;
ove impudenza,
ella perde ogni pregio. E se tu entrambi
ben cerchi i sessi, libertá vuol l'uomo,
vaga è la donna di gentil costume.
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Tasso.
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Disfrenati, selvaggi e sordi il core
dunque ne chiami?
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Princ.
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Tolga il
ciel! ma sempre
vostro spirito intende a ben lontani,
e violento è ognor l'intender vostro.
Voi per l'eternitade oprate audaci:
poco ed unico bene in questa terra
noi vorremmo tener, forte bramose
che giammai non ne fugga. Il cor dell'uomo,
per quantunque divoto a noi si sacri,
è mal certo possesso, e la bellezza,
a cui sola il desio vostro s'appunta,
è fuggevole lampo;
il resto è nulla,
perchè più non v'alletta. Ove quaggiuso
uomini avesse d'estimar capaci
qual di fede e d'amor dolce tesoro
cor di donna racchiuda;
ove dell'ore,
di cui non ha la vita altre più belle,
calda serbaste la memoria in petto;
ove il vostr'occhio, pur sì acuto altrove,
penetrasse oltre il vel di che ne copre
vecchiezza o infermitade;
ove il possesso,
in che l'angoscia del desio si queta,
voi non facesse d'altre gioie vaghi;
splenderebbero ancora al nostro sesso
lucidi soli, e festeggiar potremmo
nostra etade dell'oro.
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Tasso.
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sento nel cor rifremere le mie
sopite cure.
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Princ.
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Schiettamente mi parla.
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Tasso.
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Udii
sovente
e più assai questi giorni, e senza udita
preveder lo dovea, che nobil prenci
di tua mano han desio. Quel ne spaventa
che aspettar ci dobbiamo, e in disperanza
quasi veniam. Tu lasceraine e ignoro
come potremo sopportar tal duolo.
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Princ.
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Non vi prenda per or cura di questo,
anzi giammai, se il mio veder non erra.
Qui restar m'è soave, e un caro nodo
non mi s'offre finor. Che se vi accora
il mio partir, vostra concordia il mostri.
Così a voi lieta volerà la vita,
e a me lieta per voi.
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Tasso.
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Deh! tu m'apprendi
a far tutto ch'io posso. A te devoti
sono i miei giorni. Quando il cor s'effonde
le tue laudi inneggiando e i tuoi favori,
me la più pura delle gioie invade
che sia data a mortal;
da te sol una
la più viva mi venne aura de' cieli.
Dalla stirpe dell'uom sono distinti
gli dei terrestri, come l'alto fato
dal consiglio e voler fin del più saggio.
Molte cose varcar, quasi liev'onda,
lasciano inavvertite anzi il lor piede,
che a noi paiono flutti uno sull'altro
proromperti a battaglia;
essi quel turbo
che introna e atterra noi non odon punto;
sentono appena il pregar nostro, e l'aere
ci lasciano ferir di pianti e strida,
come da noi si fa con tapinello
soro fanciullo. Tu sovente, o diva,
me sofferisti, e il guardo tuo, qual sole,
la rugiada asciugò da mie pupille.
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Princ.
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Egli è ben dritto che d'assai cortesi
ti si porgan le donne;
il tuo poema
è la corona del femineo sesso.
Sempre la donna, o tenera o guerriera,
d'alti sensi tu pingi e d'amor degna:
odiosa è Armida, pur la tornan cara
passïone e beltà.
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Tasso.
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Che se
sovente
delle stesse armonie suona il poema,
tutta mia n'è la colpa. Io già non vedo
un'indistinta spiritale imago
volarmi innanzi che talora all'alma
abbagliante s'accosti e talor fugga.
Di virtude il modello e di bellezza
con questi occhi io mirai;
ciò che a cotanto
esempio io finsi vincerà l'oblio.
L'eroico amore di Tancredi, l'alto
cor di Sofronia, il dolorar d'Olindo,
il tacito d'Erminia inavvertito
costante affetto ombre non son da vana
idea prodotte; ei
sono eterni, io 'l sento,
perchè oggi han vita. E quale è degna cosa
a vincer gli anni e ad operare occulta
più che il mistero d'un amor gentile
umilmente fidato a dolci carmi?
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Princ.
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E parlarti degg'io d'altra eccellenza
che inavvertita il tuo poema abbella?
Ei ne viene allettando a poco a poco:
più l'orecchio porgiam, più intender parne,
e biasmar non possiam gli intesi sensi;
così alla fin ne signoreggia l'alma.
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Tasso.
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Oh qual mai paradiso apri a miei sguardi!
Se il baglior non m'acceca, un'insperata
scender vegg'io felicitade eterna
sovra fulgidi rai.
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Princ.
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Non più,
Torquato!
Sono palme quaggiù che vïolenti
pon rapire i mortali;
ad altre invece
temperanza soltanto e sofferenza
guidar li ponno. Se non mente il grido,
la virtude è tra queste e amor, che sempre
le vien compagno. A ciò ben pensa.
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