Johann Wolfgang von Goethe
Torquato Tasso

ATTO SECONDO

SCENA IV. Alfonso e detti.

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SCENA IV.

 

Alfonso e detti.

 

Alf.

In qual lite improvvisa io vi sorprendo?

Ant.

Placido starmi a un furibondo innante,

signor, mi vedi.

Tasso.

Come un dio ti prego

perchè un tuo sguardo m'ammonisca e freni.

Alf.

Narra, Antonio, di', o Tasso, infra mio tetto

come discordia entrò? Come voi prese

e dal cammino del gentil, del retto,

benchè prudenti, traviò in deliro?

Stupito io sto.

Tasso.

Tu non conosci entrambi,

io ben lo credo. Cotestui, che ha grido

di costumato e saggio, operò meco

da maligno e crudel, qual malcreato

uomo del volgo. Io l'accostai fidente,

ei mi respinse; con costante amore

io più sempre insisteva, ed ei non stette

finchè con motti ognor più amari in tosco

ebbe mutato il sangue mio. Perdona!

Simile ad un furente or qui m'hai côlto.

Se reo son io, torna a costui la colpa.

Ei violento rattizzò la fiamma

che me riarse e l'uno e l'altro offese.

Ant.

Un sublime il riarse estro di vate!

Tu a me dapprima, o prence, i detti hai vôlto;

me domandasti: almen mi si conceda

che dopo questo parlator frettoso

io pur favelli.

Tasso.

Oh! narra il tutto a punto.

Se ogni sillaba puoi, se ciascun gesto

a tal giudice esporre, or su l'ardisci!

Te stesso offendi una seconda volta,

contro a te testimonia! Io per converso

un sol respiro mentirò un gesto.

Ant.

Parla, s'altro dir vuoi; se no, t'accheta,

miei detti turbar. Prence, tu chiedi

se da me la tenzone avesse inizio

o da quest'alma ardente, e a qual dei due

torni la colpa. È tal question cui certo

dee precorrere un'altra.

Tasso.

Or come? A quale

spetti di noi torto o ragion, la prima

question mi pare.

Ant.

Ella non è qual forse

mente sfrenata se lo pensa.

Alf.

Antonio!

Ant.

Tuoi cenni onoro, ma tacer gli imponi.

Favellato che avrò, parli a sua posta;

a te il giudizio. Odi mio detto: io seco

piatir non posso accusarlo o mie

discolpe opporgli gittargli il guanto,

però ch'ei non è libero. Severa

su lui vige una legge a cui di molto

tua grazia al certo temprerà l'asprezza.

Qui minacciò, qui disfidommi e a pena

celò a tua vista la snudata spada.

Se tu in punto non giungi, anch'io starei,

sì come l'uom che del dover s'oblia,

colpevole a' tuoi guardi e vergognoso.

Alf.

(al Tasso) Male adoprasti.

Tasso.

Me il mio core assolve,

o prence, e certo anche il tuo cor. Gli è il vero,

io minacciai, sfidai; fuor trassi il brando.

Ma come accorta con parole elette

me sua lingua ferì, come d'un tratto

suo dente acerbo inamarimmi il sangue

di tosco reo, come più sempre ei venne

mio furor concitando, oh! tu nol pensi.

Con impassibil alma ei mi respinse,

provocommi all'estremo! Oh! mal conosci

tu costui, mai fia che tu il conosca.

Io la bella amistà gli offrii bramoso;

egli il mio dono innanzi a' piè gittommi;

se quest'anima allor non divampava,

certo sarebbe eternamente indegna

di piacerti e servirti. Se la legge

ed il loco obliai, deh! mi perdona.

Suolo non v'ha dov'io mi mostri un vile,

suolo non v'ha dov'io divori un'onta.

Quando il mio core, ovunque sia, fallisca

a stesso ed a te, tu mi punisci,

tu per sempre mi togli il tuo cospetto.

Ant.

Come di lieve il giovine sopporta

pondi gravosi! Ei da scote i falli

quasi polve dal manto. Io stupirei,

ove ignorassi la magia dei vati,

che volentier coll'impossibil suole

condur suo gioco. Se a te pure, o prence,

se a tutti i servi tuoi parrà cotesto

fallolieve, io ne sto quasi in forse.

Maestade ricopre di suo scudo

qual, siccome ad un nume, a lei s'accosta

e a sua magione invïolata. Tutte

taccion le passïon su queste soglie,

come a piè d'un altar. Qui lampeggia

taglio di spada, minaccia suona,

qui l'offeso la vendetta chiede.

Ampio e libero campo apresi altrove

al furore ed all'odio. Ivi il codardo

no non minaccia, ivi non fugge il prode.

Queste mura ad asilo alzâr tuoi padri;

qui di lor dignità posero il templo

e austeri e saggi con severe pene

vi mantenner la pace; a' rei cogliea

bando, carcere, morte; egual su tutti

la sentenza ferìa, a Temi il braccio

rattenea la clemenza, e lo spavento

anche del misfattor gelava il petto.

Dopo molti e beati anni di pace

oggi vedemmo ritornar briaco

entro il recinto d'ogni bel costume

l'incomposto furor. Dunque, signore,

tu giudica e condanna. E chi può starsi

entro il breve confin di suo dovere,

se a difesa non ha la legge e il prence?

Alf.

Più che voi non mi dite e dir potreste

m'accenna il cor che imparzïal v'ascolti.

Era debito a voi far sì che Alfonso

giudice non sedesse in questa lite,

perchè il dritto dal torto un troppo incerto

confin qui parte. Se ti offese Antonio,

ragion te ne darà qual più vorrai.

Grazïoso mi fia, se di tal lite

arbitro mi porrete. Intanto, o Tasso,

te imprigiona il tuo fallo; io ti perdono,

e l'aspra legge a tuo favor rattempro.

Lasciane, o Tasso, e ti riman solingo,

prigioniero e custode, entro tue stanze.

Tasso.

Questo, o prence, è il decreto?

Ant.

E non conosci

la mitezza d'un padre?

Tasso.

(ad Antonio)               A te null'altro

restami a dir.

(ad Alfonso)    La tua, parola, o prence,

me che libero nacqui al carcer danna.

E sia così! Giusto a te par. Tua sacra

parola onoro, e il cor profondo ammuto.

Tal m'opprime stupor che te e me quasi

più non conosco e questo bello albergo.

Questo ancor ben conosco... Obbedir voglio,

benchè assai cose possa dire e il debba.

Ammutito è il mio labbro. Era un delitto?

Lo sembra almen. Trattato io son qual reo;

checchè mi dica il cor, son prigioniero.

Alf.

Più d'assai ch'io non fo, grave, o Torquato,

l'evento estimi.

Tasso.

Incomprensibil cosa

questo evento per me: ma veramente

incomprensibil no: fanciullo io sono;

quasi m'è avviso che dovea pensarlo.

Un lampo di chiarezza a me rifulge,

ma d'improviso mi ritorna al buio.

Solo ascolto il decreto e il fronte inchino.

A che inani parole all'aura sperdi?

Obbedïenza quindi innanzi appara.

Obliasti, impotente, il loco ov'eri;

simile a cosa di quaggiù ti parve

la magion degli dei: però veloce

la ruina t'incolse. Orsù obbedisci

chè il sobbarcarsi pronto anco a gran peso

s'addice all'uom. Tu quella spada or prendi,

che m'hai cinta in quel che il Porporato

seguii vêr Francia. Io non l'oprai con gloria,

ma con onta mai, non oggi pure.

Bello di tanta speme il tuo presente,

da me il diparto con trafitto core.

Alf.

Troppo poni in oblio che mi sei caro.

Tasso.

Obbedire è il mio compito e null'altro

nutrir pensiero. Ah! di più nobil dono

il rifiuto m'impongono i destini.

Mal convien la corona al prigioniero;

levo io medesmo dalla fronte il fregio

che concesso parea per gli anni eterni.

Troppo per tempo mi largiano i cieli

la più bella ventura, e troppo tosto

involata mi vien, come se il cuore

superbito ne avesse. Or tu ti togli

ciò che nessuno ti potea mai tôrre,

ciò che niun nume un'altra volta dona.

A mirabili prove è posto l'uomo,

cui durar non potrebbe, ove Natura

non gli avesse largito una felice

levità di pensiero. Inestimati

doni a lui prodigando, essa gli apprende

a sofferir la povertà tranquillo;

ei con subita voglia apre le mani

perchè senza ritorno il ben ne fugga.

Al mio bacio una lagrima si mesce

e ti sacra al passato! E ben si addice

della nostra fralezza il gentil segno.

Chi mai del pianto temperar si puote,

se le immortali cose anco ravvolve

il supremo destino? A questo acciaro

che a mertarti, ahi! non valse, or t'accompagna,

e come sopra il feretro d'un prode

posa, avvolta con esso, in sulla tomba

che mie venture e mie speranze chiude.

La corona e l'acciaro è ben ragione

ch'io volentieri a' piedi tuoi deponga;

perchè chi armato è assai, se tu t'adiri?

chi fregiato, o signor, se tu nol curi?

Or vo prigione e il mio giudizio aspetto.

(al cenno di Alfonso un paggio prende la spada

e la corona, e lo conduce via).

 

 


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