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Che
rechi, amica?
Dammi novelle degli amici nostri,
dimmi che avvenne.
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Leon.
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Io non
potei raccôrre
oltre a quanto sappiam:
vennero a fiero
scontro, la spada disnudò Torquato,
tuo fratel li partì;
ma la tenzone
par che dal vate cominciasse. Antonio
libero spazia col suo prence e parla;
prigioniero e solingo intra sue stanze
si dimora Torquato.
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Princ.
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Antonio
al certo
lui punse il primo, e freddo e strano offese
quello spirto sublime.
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Leon.
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Anch'io
ciò credo;
però che al primo avvicinarsi al vate
corrugò il fronte.
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Princ.
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Ahi
troppo rado ai veri
segreti avvisi obbedïam del core!
Tacito parla in nostro petto un nume,
tacito, ma ben chiaro, e ne fa accorti
di ciò che tôrre o rifiutar si debba.
Ruvido più che mai, più in sè rinchiuso
parve a' miei occhi questa mane Antonio,
e diè cenni il mio cor quando al suo fianco
venne Torquato. D'amendue ben nota
sol gli esterni sembianti, il volto, i modi,
lo sguardo, i passi. Tutto è in loro avverso;
loro per tutta eternità non stringe
un vincolo d'affetto. E pur la speme,
fallace lusinghiera, a me sovente
venìa dicendo:
Ambo discreti e d'alto
animo sono e colti e amici tuoi;
e il più saldo legame è quel dei buoni.
Perciò il giovine io spinsi e non indarno;
come ardente e gentil cesse all'invito!
Oh all'altro pure favellato avessi!
Io tardai, stringea 'l tempo, e non ardivo
pur nel primo colloquio accomandargli
caldamente il garzon;
ne' bei costumi,
nelle leggi io fidai di cortesia
e nell'uso del mondo, il quale addestra
anco i nemici a un conversar gentile;
dall'esperto mortale io non temea
il bollor dell'ardente giovinezza.
Vani concetti! Erami lunge il danno,
or presente mi sta. Deh!
tu m'insegna
che far degg'io.
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Leon.
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Che il
consigliarti è scabro
tu stessa, e pare da' tuoi detti, il senti.
Non è una nube fra concordi insorta,
cui le parole, o tosto, ove sia d'uopo,
fanno sparir felicemente i brandi.
Quei due mortali, da gran tempo il sento,
perciò nemici son che la natura
un uomo sol non componea d'entrambi.
Se dell'utile lor fossero accorti,
forano amici e come un uomo solo
andrebber forti, avventurosi e lieti
nel cammin della vita. Ed io nutrivo
questa speranza, or ben lo veggio, indarno.
L'odïerna tenzone, e sia qual volsi,
compor si dee; ma
non perciò è sicuro
l'avvenire, il dimani. Ottimo parmi
che lunge stia per qualche tempo il vate.
Ei può a Roma raccorsi od a Firenze;
là tra breve movendo io ben potrei
colla dolce amistà blandir quell'alma.
A te e agli amici in questo mezzo Antonio
tu congiunger potresti, il quale omai
ne divenne stranier. Forse il buon tempo,
largitor d'assai cose, in questa guisa
quel ne darà ch'oggi impossibil sembra.
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Princ.
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Me di lui privi e te ne allegri, o amica.
Opra pârti gentil?
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Leon.
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Sol ciò
ti tolgo
onde gioire or ti saria negato.
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Princ.
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Così tranquilla sbandirò un amico?
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Leon.
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Col sembrar di sbandirlo il serberai.
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Princ.
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Lui di buon grado non congeda Alfonso.
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Leon.
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Si, quando al nostro il suo veder s'accordi.
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Princ.
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Sè dannar nell'amico è dura cosa.
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Leon.
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E pur l'amico in te medesma or salvi.
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Princ.
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Annuire io non posso a sua partenza.
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Leon.
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A più gravi sciagure allor t'aspetta.
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Princ.
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Me tu addolori, e se mi giovi è incerto.
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Leon.
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Presto il tempo dirà chi di noi falli.
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Princ.
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Poichè è destino, ogni domanda tronca.
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Leon.
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Chi risolversi può vince il dolore.
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Princ.
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Io risolta non son;
ma ch'ei si parta,
se per breve stagione... E a cor ne stia
che nol punga l'inopia e ancor da lunge
gli sia largo il fratel. Di ciò ad Antonio
fa' tu parola. Ambo le chiavi ei tiene
del cor d'Alfonso, nè all'amico e a noi
rancore avrà della tenzon.
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Leon.
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Più
molto
un tuo detto varria.
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Princ.
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a ottener cosa alcuna a me ed a' miei
so efficace pregar come Lucrezia.
Amo vivere a me tacitamente,
e dal fratel ciò che può darmi e vuole
grata ricevo. Assai fïate io stessa
mi rimorsi di questo:
or mi son vinta.
Anco un'amica mi dicea sovente:
a te d'auro non cale, e questa invero
cosa è gentile, ma tu dai nel troppo;
però che insieme il provveder ti è tolto
a distrette d'amici. Ed io mi taccio,
perchè a ragione il rimprovèrio fere.
Tanto più m'è soave il poter oggi
all'amico giovar:
della mia madre
a me cade il retaggio, e a suoi bisogni
fia devota una parte.
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Leon.
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dimostrarmegli amica. Ei non è al certo
guardator di sue cose, e accorta io voglio
adagiarne la vita.
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Princ.
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Or teco
il prendi;
e poi che è fato ch'io di lui sia scema,
a te il lascio di grado anzi che ad altri.
Assai chiaro il vegg'io, meglio è ch'ei parta.
Anche questo dolor laudare io deggio
come buono e salubre? È da' verd'anni
tale il mio fato;
abituata or sono.
Perder gioia divina è assai più lieve,
quand'era il cor del possederla incerto.
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Leon.
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Te felice veder, sì come merti,
io spero un dì.
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Princ.
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Felice, o
Leonora?
Vede l'occhio del sole alcun felice?..
Tal direi mio fratel, chè il suo gran core
senza tempra mutar porta il destino:
pur mai non colse la mertata sorte.
La mia suora d'Urbin forse è felice?
quella vaga beltà, quell'alto core!
Ella non bea di figli il giovin sposo:
non però l'ha men cara e assai la onora;
ma nulla gioia in quelle soglie alberga.
Che alla madre giovò l'accorgimento
e il sublime intelletto e il saper vasto?
Non le fur schermo dall'error straniero.
Da lei fummo partite:
ora è sotterra:
nè consolava d'una speme i figli
pacificata al suo signor morendo.
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Leon.
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Torci l'occhio da' guai ch'ogni vivente
premon fatali, ed in quei beni il fissa
di che ognuno s'allegra. E quanta parte
a te ne resta!
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Princ.
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Unico
bene, o amica,
pazïenza mi resta. Io da' primi anni
potei farne mio scudo. In feste, in gioie,
suora, fratello, amici apriano il cuore,
e me chiudea malor nelle mie stanze.
Ivi entro in compagnia de' miei dolori
ben presto appresi a desiare indarno.
Unico alle solinghe ore conforto
era il gaudio del canto:
a me vivea,
e gli affanni, i desiri e ogni vaghezza
venìa con leni melodie blandendo.
Così spesso il patir tornava in gioia,
fin la mestizia risolveasi in suoni.
Questo ancor mi rapì presto il severo
medico cenno che ammutiami il labbro.
Viver di pazïenza allor dovetti,
vanamente quell'unico bramando
lieve conforto.
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Leon.
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Così a
te d'intorno
s'accogliean molti amici;
or ti rinfiora
rosea salute e ilarità di vita.
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Princ.
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Di' che inferma non son, che dirai vero.
Anche m'ho qualche amico, onde la fede
fammi felice. Un pur ne aveva....
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E
l'hai.
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Ma tosto il perdo!
Fu presago istante
quando prima lo vidi. Il morbo appena
si fuggìa di mie membra, ed io dai duoli
mi riaveva; nella
vita il guardo
volgea timida e muta, il sol di nuovo
mi rallegrava e dei fratelli il volto,
e bevea confortati i puri olezzi
della dolce speranza. Allor fui osa
nel cammin della vita innanzi innanzi
sospinger l'occhio, e si movean da lunge
benevole figure ad incontrarmi.
Ed ecco, a mano di Lucrezia, avanti
il giovine apparirmi:
allor, nol niego,
ei mi si impresse eternamente in petto.
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Nè ti prenda di questo alcun dolore.
La conoscenza del gentile è acquisto
che a noi per tempo non si può rapire.
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Temer si denno l'eccellente e il bello,
come una fiamma che d'assai ti giova
mentre ferve a' tuoi lari o da una lampa
lume ti porge. Oh come è cara!
E quale,
qual puote allora rimanerne privo?
Ma se mal custodita intorno avvampa,
quante arreca sciagure!
Or via mi lascia.
Cianciera io sono, e fino a te dovrei
mie fralezze nascondere e mie doglie.
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L'infermità del core assai di lieve
in querele risolvesi e fidanza.
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Se fidanza dismala, io torno sana,
perchè pura ed intiera in te la pongo.
Ah dolce amica!
io ferma son; ch'ei parta.
Ma già in core presento il tardo volo
dei tristi giorni nel disio consunti
d'una gioia che fu. Più il sol non sperde
la sua ne' sogni irradiata imago
dagli occhi miei;
la speme di vederlo
piú non compunge di gioconda brama
in sul primo destar lo spirto mio;
giù ne' nostri giardin mio primo sguardo
invan per le irrorate ombre lo spia.
Con che dolcezza pago era il desio
di seder seco ogni serena sera!
Come ognor più vivace in conversando
si fea la brama di scoprirci tutti
i segreti dell'alma! Ed ogni giorno
s'accordava lo spirto in bella guisa
a più pure armonie. Deh qual tenébra
anzi gli occhi or mi cade! I rai del sole,
il lieto senso del sereno giorno,
lo splendido universo multiforme
son profondo deserto in nebbia avvolto,
in quella nebbia che il mio cor circonda.
Seco ogni giorno era un'intera vita,
tacean le cure, s'ammutía lo stesso
presentimento, e su felice schelmo
noi portava lontan per lo soave
declivo il fiume senza dar di remo.
Or nel mesto presente il petto mio
terror secreto del futuro occùpa.
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Gli antichi amici l'avvenir ti torna,
nuove gioie ti porta e nuovo bene.
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Ciò ch'io possego volentier conservo;
diletta il cambio, ma che giovi è raro.
Mai per fervor di giovanil vaghezza
la mano alla fatale urna non stesi
d'un incognito mondo, onde sortirne
un oggetto di gioia al desioso
core inesperto. Fu dover stimarlo,
quindi l'amai; mi
fu dovere amarlo,
perocchè la mia vita a lui vicino
vita si fe' qual non conobbi io mai.
Dissi a me sulle prime:
A lui t'invola!
ma più lunge ne gìa, più gli era appresso
per caro incanto, per terribil pena!
Puro bene verace a me svanisce,
e di letizie invece e di dolcezze
porge affini dolori alla mia brama
maligno un genio.
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Se
amichevol labbro
consolarti non può, la queta forza
del mondo bello e del felice tempo
lenirà le tue piaghe inavvertita.
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Bello è il mondo per vero!
Entro sua vasta
cerchia qua e là di molto ben si volge.
Ahi! che pur
sempre d'un sol passo sembra
via da noi lontanarsi, e l'affannoso
nostro desio nella vital carriera
fino alla tomba passo passo alletta.
Così rado addivien che l'uom ritrovi
ciò che dai fati gli parea concesso,
così rado che il serbi, ov'anche il colga
la sua man fortunata!
Impetuoso
fugge da noi ciò che spontaneo venne,
ciò noi lasciam che con desio stringemmo.
Ben v'è felicità, ma l'uom la ignora,
o conosciuta non l'estima al vero.
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