Johann Wolfgang von Goethe
Torquato Tasso

ATTO TERZO

SCENA II. Principessa e Leonora.

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SCENA II.

 

Principessa e Leonora.

 

Princ.

Che rechi, amica?

Dammi novelle degli amici nostri,

dimmi che avvenne.

Leon.

Io non potei raccôrre

oltre a quanto sappiam: vennero a fiero

scontro, la spada disnudò Torquato,

tuo fratel li partì; ma la tenzone

par che dal vate cominciasse. Antonio

libero spazia col suo prence e parla;

prigioniero e solingo intra sue stanze

si dimora Torquato.

Princ.

Antonio al certo

lui punse il primo, e freddo e strano offese

quello spirto sublime.

Leon.

Anch'io ciò credo;

però che al primo avvicinarsi al vate

corrugò il fronte.

Princ.

Ahi troppo rado ai veri

segreti avvisi obbedïam del core!

Tacito parla in nostro petto un nume,

tacito, ma ben chiaro, e ne fa accorti

di ciò che tôrre o rifiutar si debba.

Ruvido più che mai, più in rinchiuso

parve a' miei occhi questa mane Antonio,

e diè cenni il mio cor quando al suo fianco

venne Torquato. D'amendue ben nota

sol gli esterni sembianti, il volto, i modi,

lo sguardo, i passi. Tutto è in loro avverso;

loro per tutta eternità non stringe

un vincolo d'affetto. E pur la speme,

fallace lusinghiera, a me sovente

venìa dicendo: Ambo discreti e d'alto

animo sono e colti e amici tuoi;

e il più saldo legame è quel dei buoni.

Perciò il giovine io spinsi e non indarno;

come ardente e gentil cesse all'invito!

Oh all'altro pure favellato avessi!

Io tardai, stringea 'l tempo, e non ardivo

pur nel primo colloquio accomandargli

caldamente il garzon; ne' bei costumi,

nelle leggi io fidai di cortesia

e nell'uso del mondo, il quale addestra

anco i nemici a un conversar gentile;

dall'esperto mortale io non temea

il bollor dell'ardente giovinezza.

Vani concetti! Erami lunge il danno,

or presente mi sta. Deh! tu m'insegna

che far degg'io.

Leon.

Che il consigliarti è scabro

tu stessa, e pare da' tuoi detti, il senti.

Non è una nube fra concordi insorta,

cui le parole, o tosto, ove sia d'uopo,

fanno sparir felicemente i brandi.

Quei due mortali, da gran tempo il sento,

perciò nemici son che la natura

un uomo sol non componea d'entrambi.

Se dell'utile lor fossero accorti,

forano e come un uomo solo

andrebber forti, avventurosi e lieti

nel cammin della vita. Ed io nutrivo

questa speranza, or ben lo veggio, indarno.

L'odïerna tenzone, e sia qual volsi,

compor si dee; ma non perciò è sicuro

l'avvenire, il dimani. Ottimo parmi

che lunge stia per qualche tempo il vate.

Ei può a Roma raccorsi od a Firenze;

tra breve movendo io ben potrei

colla dolce amistà blandir quell'alma.

A te e agli amici in questo mezzo Antonio

tu congiunger potresti, il quale omai

ne divenne stranier. Forse il buon tempo,

largitor d'assai cose, in questa guisa

quel ne darà ch'oggi impossibil sembra.

Princ.

Me di lui privi e te ne allegri, o amica.

Opra pârti gentil?

Leon.

Sol ciò ti tolgo

onde gioire or ti saria negato.

Princ.

Così tranquilla sbandirò un amico?

Leon.

Col sembrar di sbandirlo il serberai.

Princ.

Lui di buon grado non congeda Alfonso.

Leon.

Si, quando al nostro il suo veder s'accordi.

Princ.

dannar nell'amico è dura cosa.

Leon.

E pur l'amico in te medesma or salvi.

Princ.

Annuire io non posso a sua partenza.

Leon.

A più gravi sciagure allor t'aspetta.

Princ.

Me tu addolori, e se mi giovi è incerto.

Leon.

Presto il tempo dirà chi di noi falli.

Princ.

Poichè è destino, ogni domanda tronca.

Leon.

Chi risolversi può vince il dolore.

Princ.

Io risolta non son; ma ch'ei si parta,

se per breve stagione... E a cor ne stia

che nol punga l'inopia e ancor da lunge

gli sia largo il fratel. Di ciò ad Antonio

fa' tu parola. Ambo le chiavi ei tiene

del cor d'Alfonso, all'amico e a noi

rancore avrà della tenzon.

Leon.

Più molto

un tuo detto varria.

Princ.

Non io, tu il sai,

a ottener cosa alcuna a me ed a' miei

so efficace pregar come Lucrezia.

Amo vivere a me tacitamente,

e dal fratel ciò che può darmi e vuole

grata ricevo. Assai fïate io stessa

mi rimorsi di questo: or mi son vinta.

Anco un'amica mi dicea sovente:

a te d'auro non cale, e questa invero

cosa è gentile, ma tu dai nel troppo;

però che insieme il provveder ti è tolto

a distrette d'amici. Ed io mi taccio,

perchè a ragione il rimprovèrio fere.

Tanto più m'è soave il poter oggi

all'amico giovar: della mia madre

a me cade il retaggio, e a suoi bisogni

fia devota una parte.

Leon.

Io pure or posso

dimostrarmegli amica. Ei non è al certo

guardator di sue cose, e accorta io voglio

adagiarne la vita.

Princ.

Or teco il prendi;

e poi che è fato ch'io di lui sia scema,

a te il lascio di grado anzi che ad altri.

Assai chiaro il vegg'io, meglio è ch'ei parta.

Anche questo dolor laudare io deggio

come buono e salubre? È da' verd'anni

tale il mio fato; abituata or sono.

Perder gioia divina è assai più lieve,

quand'era il cor del possederla incerto.

Leon.

Te felice veder, sì come merti,

io spero un .

Princ.

Felice, o Leonora?

Vede l'occhio del sole alcun felice?..

Tal direi mio fratel, chè il suo gran core

senza tempra mutar porta il destino:

pur mai non colse la mertata sorte.

La mia suora d'Urbin forse è felice?

quella vaga beltà, quell'alto core!

Ella non bea di figli il giovin sposo:

non però l'ha men cara e assai la onora;

ma nulla gioia in quelle soglie alberga.

Che alla madre giovò l'accorgimento

e il sublime intelletto e il saper vasto?

Non le fur schermo dall'error straniero.

Da lei fummo partite: ora è sotterra:

consolava d'una speme i figli

pacificata al suo signor morendo.

Leon.

Torci l'occhio da' guai ch'ogni vivente

premon fatali, ed in quei beni il fissa

di che ognuno s'allegra. E quanta parte

a te ne resta!

Princ.

Unico bene, o amica,

pazïenza mi resta. Io da' primi anni

potei farne mio scudo. In feste, in gioie,

suora, fratello, amici apriano il cuore,

e me chiudea malor nelle mie stanze.

Ivi entro in compagnia de' miei dolori

ben presto appresi a desiare indarno.

Unico alle solinghe ore conforto

era il gaudio del canto: a me vivea,

e gli affanni, i desiri e ogni vaghezza

venìa con leni melodie blandendo.

Così spesso il patir tornava in gioia,

fin la mestizia risolveasi in suoni.

Questo ancor mi rapì presto il severo

medico cenno che ammutiami il labbro.

Viver di pazïenza allor dovetti,

vanamente quell'unico bramando

lieve conforto.

Leon.

Così a te d'intorno

s'accogliean molti amici; or ti rinfiora

rosea salute e ilarità di vita.

Princ.

Di' che inferma non son, che dirai vero.

Anche m'ho qualche amico, onde la fede

fammi felice. Un pur ne aveva....

Leon.

E l'hai.

Princ.

Ma tosto il perdo! Fu presago istante

quando prima lo vidi. Il morbo appena

si fuggìa di mie membra, ed io dai duoli

mi riaveva; nella vita il guardo

volgea timida e muta, il sol di nuovo

mi rallegrava e dei fratelli il volto,

e bevea confortati i puri olezzi

della dolce speranza. Allor fui osa

nel cammin della vita innanzi innanzi

sospinger l'occhio, e si movean da lunge

benevole figure ad incontrarmi.

Ed ecco, a mano di Lucrezia, avanti

il giovine apparirmi: allor, nol niego,

ei mi si impresse eternamente in petto.

Leon.

ti prenda di questo alcun dolore.

La conoscenza del gentile è acquisto

che a noi per tempo non si può rapire.

Princ.

Temer si denno l'eccellente e il bello,

come una fiamma che d'assai ti giova

mentre ferve a' tuoi lari o da una lampa

lume ti porge. Oh come è cara! E quale,

qual puote allora rimanerne privo?

Ma se mal custodita intorno avvampa,

quante arreca sciagure! Or via mi lascia.

Cianciera io sono, e fino a te dovrei

mie fralezze nascondere e mie doglie.

Leon.

L'infermità del core assai di lieve

in querele risolvesi e fidanza.

Princ.

Se fidanza dismala, io torno sana,

perchè pura ed intiera in te la pongo.

Ah dolce amica! io ferma son; ch'ei parta.

Ma già in core presento il tardo volo

dei tristi giorni nel disio consunti

d'una gioia che fu. Più il sol non sperde

la sua ne' sogni irradiata imago

dagli occhi miei; la speme di vederlo

piú non compunge di gioconda brama

in sul primo destar lo spirto mio;

giù ne' nostri giardin mio primo sguardo

invan per le irrorate ombre lo spia.

Con che dolcezza pago era il desio

di seder seco ogni serena sera!

Come ognor più vivace in conversando

si fea la brama di scoprirci tutti

i segreti dell'alma! Ed ogni giorno

s'accordava lo spirto in bella guisa

a più pure armonie. Deh qual tenébra

anzi gli occhi or mi cade! I rai del sole,

il lieto senso del sereno giorno,

lo splendido universo multiforme

son profondo deserto in nebbia avvolto,

in quella nebbia che il mio cor circonda.

Seco ogni giorno era un'intera vita,

tacean le cure, s'ammutía lo stesso

presentimento, e su felice schelmo

noi portava lontan per lo soave

declivo il fiume senza dar di remo.

Or nel mesto presente il petto mio

terror secreto del futuro occùpa.

Leon.

Gli antichi amici l'avvenir ti torna,

nuove gioie ti porta e nuovo bene.

Princ.

Ciò ch'io possego volentier conservo;

diletta il cambio, ma che giovi è raro.

Mai per fervor di giovanil vaghezza

la mano alla fatale urna non stesi

d'un incognito mondo, onde sortirne

un oggetto di gioia al desioso

core inesperto. Fu dover stimarlo,

quindi l'amai; mi fu dovere amarlo,

perocchè la mia vita a lui vicino

vita si fe' qual non conobbi io mai.

Dissi a me sulle prime: A lui t'invola!

ma più lunge ne gìa, più gli era appresso

per caro incanto, per terribil pena!

Puro bene verace a me svanisce,

e di letizie invece e di dolcezze

porge affini dolori alla mia brama

maligno un genio.

Leon.

Se amichevol labbro

consolarti non può, la queta forza

del mondo bello e del felice tempo

lenirà le tue piaghe inavvertita.

Princ.

Bello è il mondo per vero! Entro sua vasta

cerchia qua e di molto ben si volge.

Ahi! che pur sempre d'un sol passo sembra

via da noi lontanarsi, e l'affannoso

nostro desio nella vital carriera

fino alla tomba passo passo alletta.

Così rado addivien che l'uom ritrovi

ciò che dai fati gli parea concesso,

così rado che il serbi, ov'anche il colga

la sua man fortunata! Impetuoso

fugge da noi ciò che spontaneo venne,

ciò noi lasciam che con desio stringemmo.

Ben v'è felicità, ma l'uom la ignora,

o conosciuta non l'estima al vero.

 

 

 

 


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