Johann Wolfgang von Goethe
Torquato Tasso

ATTO TERZO

SCENA IV. Leonora e Antonio.

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SCENA IV.

 

Leonora e Antonio.

 

Leon.

Guerra e non pace

a noi tu rechi: da sanguigno campo

tornato sembri, in cui la forza impera

e la spada decide, e non da Roma,

ove un'alta prudenza erge le mani

benedicendo ed âve a' piedi un mondo

che contento obbedisce.

Ant.

Il rimprovèrio,

leggiadra amica, tollerare io deggio,

ma non emmi difficile l'escusa.

È gran periglio quando troppo a lungo

dee l'uom mostrarsi temperante e saggio!

Sta in agguato al suo fianco un tristo genio,

che violento d'ora in ora brama

una vittima aver. Lasso! esta volta

in danno degli amici io gliela offersi.

Leon.

T'adoprasti sì a lungo infra stranieri,

governandoti sempre a lor talento:

or tornato agli amici li sconosci,

con lor piatendo qual si fa co' strani.

Ant.

Questo appunto è il periglio, o cara amica:

l'uom fra stranieri sovra si reca,

gli occhi e gli orecchi in ogni parte pone

e prefiggesi a scopo entrarne in grazia

onde averne suo pro; ma tra gli amici,

nell'affetto fidando, ei s'abbandona,

si permette un capriccio, indoma sente

la passïone, e così offende primi

quei che a core più tien.

Leon.

Con gioia in questi

miti pensieri io ti ravviso ancora,

mio caro amico.

Ant.

Assai mi duole – e il dirlo

grave non m'è – ch'oggi perdei me stesso

fuor d'ogni modo. Ma rispondi schietta:

uom di valor che da fatiche acerbe

se ne ritorna con sudata fronte,

e tardi alle bramate ombre la sera

prender lena si pensa ad opre nuove,

se trovi il loco largamente ingombro

da ozïoso mortal, provar non debbe

un sentimento di fralezza umana?

Leon.

S'egli è umano davver, parte dell'ombra

cederà volentieri ad un mortale,

che di colloqui e d'armonie sublimi

lieve l'opra gli fa, dolce il riposo;

ampio è l'albero, o amico, onde vien l'ombra,

e nullo ha d'uopo di tôr loco altrui.

Ant.

Farci di vaga allegoria trastullo

non vogliam, Leonora. In questo mondo

assai son cose ch'uomo assente altrui

e di che altrui ben volentier fa parte;

ma un tesor v'è che accordasi di voglia

solo a chi n'è ben degno, e v'è un secondo

di che nessuno vorrà mai far parte

né al più degno mortal... Se vuoi che il mio

pensier disveli, i due tesauri sono

fronda d'alloro e cortesia di donna.

Leon.

Forse quel serto al garzon nostro in fronte

spiacque all'uomo severo? E pur tu stesso

non potevi trovar mercè più poca

alla fatica de' suoi carmi belli.

Perocchè un merto che non è terreno,

che vaneggia nell'aura e sol di suoni,

di lievi imagi il nostro spirto alletta,

anche si premia sol con bella imago,

con insegna gentile; e come il vate

tocca appena la terra, il più sublime

premio ch'ei colga gli ombra appena il capo.

Questo gli l'infruttuoso affetto

di ciascun che lo onora, onde per poco

sdebitarsi con lui. L'aureo splendore,

che al martire circonda il calvo capo,

tu per ver non invidii; e certamente

la corona del lauro, ove ti appare,

segno è più di dolor che di fortuna.

Ant.

M'apprendi or forse coll'amabil labbro

a dispregiar la vanità del mondo?

Leon.

A pregiare ogni ben giusta il valore

mestier non t'è della mia scola. Eppure

parmi aver d'uopo a quando a quando il saggio,

non men degli altri, che quel ben che tiene

talun gli mostri nel verace lume.

A un'ombra vana di favor, di grazia

tu, mortal prode, non aspiri. È l'opra

onde il prence e gli amici obbligo t'hanno

viva, efficace, ed imperò ne ottieni

viva, efficace la mercè. Tuo lauro

è del prence la , che traboccante

su te riposa che leggier la porti,

quasi delle tue spalle un caro incarco;

è gloria tua la universal fidanza.

Ant.

motto fai del femminil favore?

Dirmelo già non vuoi, superflua cosa.

Leon.

Secondo che s'intende è vano, o caro.

Tu per ver non ne manchi, e andarne senza

fôra più lieve a te che al buon Torquato.

Deh! sincero mi di': donna che voglia

di tue cose aver cura ed occuparsi

con teco intenda, ne verrebbe a capo?

Ordine e sicurtà splende in tua casa;

tu pensoso di te, come d'altrui,

scemo non hai ch'altri ricompier possa.

Ben dell'indole nostra all'esercizio

l'altro presa. Mille lievi arnesi

gli mancar sempre a che ammannir la donna

con diletto si adopra. Un piú bel lino,

una serica veste un po' trapunta

porta di grado. Del vedersi ornato

molto si piace. Anzi gli abbietti panni,

segno di servitù, sdegna a suo dosso;

eletto e non volgar brama ogni arnese,

bello, gentile. Pur non ha destrezza

a far procaccio d'este cose e serbo:

d'oro e di cure a tutte l'ore ei manca,

qua un oggetto dimentica, un altro;

reduce da' vïaggi egli pur sempre

di sue cose ha perduto alcuna parte,

ed è talora che suo fante il rubi.

Avem così per tutto l'anno, o Antonio,

a che attender per lui.

Ant.

E a voi più caro

di giorno in giorno questa cura il rende.

Giovine avventuroso, a chi i difetti

si recano a virtude, ed è concesso

imitar, già maturo, il fanciulletto,

che di sue care debolezze ardisce

andar fastoso! Perdonarmi, o bella

amica, devi se pur qui mi cruccio.

Tutto il ver tu non di', ma quanto ardisca

taci e che accorto egli è più ch'altri crede.

Di due fiamme ei si vanta! annoda e scioglie

quindi e quinci legami, e con tali arti

vince tai cori! E creder deggio?

Leon.

Or bene:

un aperto argomento è questo appunto

che la sola amistade a lui ne scalda.

Pur se amassimo amate, or non sarebbe

debito premio a quel gentile spirto

che immemore di , devoto altrui,

per gli amici si vive in dolci sogni?

Ant.

Mal più sempre adusatelo coi vezzi,

egoista qual è, ditelo amante,

tutti amici offendete a voi fedeli,

fate al superbo volontarii omaggi,

il bello cerchio di social fidanza

frangete al tutto!

Leon.

Come tu sospetti,

parzïali non siamo, e in più d'un caso

ammoniam nostro amico; a noi sta a core

di temprarlo così che medesmo

più goda e torni più piacente altrui.

Quello che in lui di rimprovèrio è degno

non enne occulto.

Ant.

Pur di molto in esso

lodate voi che biasimar si vuole.

Volge lunga stagion ch'io lo conosco;

e conoscerlo è lieve, chè ogni velo

l'altier disdegna. In talor s'immerge

quasi capìa in suo petto il mondo intero,

quasi in suo mondo a medesmo ei basti,

e gli fuggon dal guardo i circostanti

obbietti tutti. Esso li oblia, li spregia,

li rigetta sdegnando e in riposa...

Spesso in nuovo fervor, quasi scintilla

che inavvertita fa scoppiar la mina,

rompe improvviso, o sia letizia o affanno,

o capriccio o furore: allora ei vuole

stringer tutto e tener, vuol che l'evento

alle sue tutte fantasie risponda;

deve porgere a lui l'ora fugace

ciò che a gran stento il tardo anno matura,

troncar deve l'istante a voglia sua

ciò che l'etade e la fatica appena

dissolver ponno. A medesmo ei chiede

impossibili imprese, ond'abbia il dritto

di richiederle altrui. Di tutte cose

vuol suo spirto comprendere gli estremi,

al che appena tra mille un uom riesce;

e non egli è da ciò. Torna in alfine,

ma non mai migliorato.

Leon.

A fa danno,

ma non ad altri.

Ant.

E nondimeno offende

spesso gli altri pur troppo. Or puoi negarmi

che della passïon ne' tristi istanti,

la qual subita il prende, ei contra Alfonso

e la suora e qualsiasi osa alle accuse

rompere e all'onte? È un solo istante, il veggo,

ma l'istante ritorna; egli a sue labbra

sdegna ogni freno ed al suo cor.

Leon.

M'è avviso

che una sua breve assenza utile ad esso

torni ed altrui.

Ant.

Dubbio il partito è forse,

certo immaturo; ch'io non vo' vestirmi

le sembianze del fallo. Il falso grido

intorno andrebbe ch'io di qua il cacciassi.

Quanto a me, viva in pace a questa corte,

e s'ei vuol meco conciliarsi e udire

può miei consigli, riavrem di lieve

comportabile vita.

Leon.

Or dunque speri

quello spirto temprar che pur testeso

giudicavi perduto?

Ant.

Unqua non muore

nell'uom la speme, e il disperarsi è sempre

de' partiti il peggior; perchè qual mente

tutte prevede le possibil cose?

Egli è degno del prence, e dee restarsi;

che se nostr'opra ad informarlo è vana,

non è il sol che soffriam.

Leon.

Te non credea

spassionato a tal segno e imparzïale;

in poco d'ora ti mutasti.

Ant.

Questo

diasi almen privilegio alla vecchiezza,

che se talor dal dritto calle piega,

lo racquista all'istante. Eri tu prima

che me e l'amico tuo volevi in pace,

or son io che ten' prego. Ogni arte tenta

ch'ei ricovri stesso e tutte cose

tornino piane. Tosto a lui men vado

com'io senta da te che sia tranquillo,

che la mia vista nol raccenda a sdegno.

Tu ciò che fare intendi, il fa' in quest'ora,

perocchè innanzi sera io con Alfonso

riedo in Ferrara. Intanto addio.

 

 

 

 

 

 

 


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