Johann Wolfgang von Goethe
Torquato Tasso

ATTO TERZO

SCENA II. Leonora e Tasso.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

SCENA II.

 

Leonora e Tasso.

 

Leon.

Deh che fu, mio Torquato? A che t'han spinto

il sospetto e il fervor? Come ciò avvenne?

Tutti attoniti siamo. E tua mitezza,

l'indol tua dolce, il tuo veloce sguardo,

quel sicuro intelletto onde ciascuno

librar tu sai sopra infallibil lance,

quella equanimità che soffre cose

cui ben presto un gran cor, di rado un vano

soffrire impara, la balìa prudente

del proprio labbro.... amico mio, più quasi

te non conosco.

Tasso.

E se ciò tutto or fosse

ito in dileguo? Se mendico a un tratto

quell'amico trovassi il qual sognavi

pien di tesori? Tu nel segno hai côlto:

più non sono quel desso, e pur sì buono

io son qual fui. Pare e non è un enigma.

La queta luna che ti allegra a notte

e con suo lume la pupilla e il core

lusinghiera ti attrae, vanisce al sole,

pallida nuvoletta inavvertita.

Me circonfulge lo splendor del giorno:

voi ben mi conoscete, io no me stesso.

Leon.

Oscura è a me la tua parola, o amico;

apri meco il tuo cor. Forse l'offesa

di quel ritroso ti ferì sì al vivo

che te medesmo e noi sconosci al tutto?

In me ti fida.

Tasso.

Non son io l'offeso,

anzi punito son però che offesi.

Delle molte parole agevolmente

recide i groppi in un balen la spada,

ma prigion mi son io. Tu ben non sai...

No, benevola mia, non atterrirti...

tu l'amico nel carcere ritrovi.

Quasi scolaro mi castiga il prence,

io con esso piatir vo' posso.

Leon.

Tu mi sembri commosso oltre il dovere.

Tasso.

Così soro e fanciul dunque mi tieni

che di tal colpo io m'abbandoni tosto?

Me troppo al vivo non accora il fatto,

bensì mi accora l'avvenir che accenna.

Lascia agli invidi miei, lascia ai nemici

cogliere il destro. Aperto è il campo.

Leon.

A torto

più d'un sospetti, e men convinsi io stessa.

Ned è Antonio, qual sogni, a te nemico.

L'odïerna tenzon....

Tasso.

Questa mi taccio.

Sol qual era e qual resta, Antonio io guardo.

L'inflessibil suo senno odiai mai sempre

e quel continuo magistral contegno.

Senza punto curar se chi lo ascolta

già per ritrovò la buona via,

cose apprenderti vuol che tu assai meglio

intendi e senti; delle tue parole

non una ascolta e ti sconosce sempre.

Sconosciuto! e da chi? Da un arrogante

che con spregio e pietà ti guarda e ride!

attempato non son prudente

da non dargli risposta altra che un riso!

Inevitabilmente o tosto o tardi

noi dovevamo riuscirne a rotta;

e vieppiù acerba la facea 'l ritardo.

Sol conosco un signor, quel che mi nutre;

questo io seguo di grado, e nessun altro

maggior mi soffro. Libero vogl'io

ne' carmi spazïare e ne' pensieri,

chè assai nell'opre già ne stringe il mondo.

Leon.

Spesso di te con reverenza ei parla.

Tasso.

Con riguardi vuoi dire e destro e accorto,

e questa è appunto del mio cor la spina;

arrendevoli e blande ha le parole

che la sua lode si converte in biasmo,

e non havvi ferita altra sì acerba

quanto un encomio da quei labbri uscito.

Leon.

Oh se inteso tu avessi, amico mio,

come di te favella e dell'ingegno

che a te fra mille compartì natura!

Ei veramente ti conosce e apprezza.

Tasso.

Amatore di fuggir non puote

gli amari morsi della scarna invidia.

Onoranza, dovizie ed alto stato

ben ei perdona altrui fra pensando:

Ed a me ancora largirà tai doni

pertinacia o destin: ma ciò cui sola

la natura ne , cui non raggiunge

sforzo alcuno dell'uom, cui non conquista

oro spada costanza o senno,

nol perdona giammai. Ch'ei mel conceda?

Ei che il favor delle Pimplèe si crede

rapir superbo con ritroso senso?

ei che, allorquando di parecchi vati

i concetti accozzò, pure estima

degno di lauro? Il signoril favore,

cui pur tutto vorrebbe in raccôrre,

mi perdona più assai che l'intelletto

cui largîr quelle dive all'orfanello

giovin mendico.

Leon.

Ah! perchè il ver non vedi,

come il vegg'io? Tu nol conosci; ei d'altra

indole è certo.

Tasso.

Se in costui m'inganno,

l'ingannarmi è soave; il più feroce

de' miei nemici io 'l credo, e avrei gran doglia

se crederlo più mite io mi dovessi.

Folle è chi serba in tutte cose il dritto;

ei stesso disfà. Gli uomini forse

son vêr noi così giusti? Ah no! il mortale

in sua povera essenza âve mestieri

di duplice sentir, l'amore e l'odio.

Non gli è d'uopo la notte al par del giorno?

il sonno al par della vigilia? Io debbo

ora e in futuro cotestui tenermi

come del mio più cupo odio l'oggetto;

nessuna cosa può il piacer rapirmi

ch'io di lui sempre mi componga in mente

un concetto peggior.

Leon.

Se i sensi tuoi,

caro antico, non tempri, io non so come

lungo tempo tu viva a questa corte;

tu sai che in essa egli è possente e a dritto.

Tasso.

Da buona pezza avverto, o bella amica,

ch'io vi son di soverchio.

Leon.

Oh! tu nol sei,

il saresti per tempo. Anzi t'è noto

come Alfonso si piaccia e Leonora

tragger l'ore con teco. Anche Lucrezia

vien or da Urbino, ed il desìo la guida

quasi al pari di te che de' fratelli.

Nobil concetto ha di Torquato ogni uomo,

piena in lui sua fidanza ogni uom ripone.

Tasso.

Qual fidanza, Leonora? È mai che il prence

motto mi faccia degli affar di stato?

Se caso avviene che alla mia presenza

colle suore e con altri ei ne consigli,

me giammai non domanda. Allor sol una

ha parola sui labbri: Antonio viene,

ad Antonio si scriva, Antonio s'oda.

Leon.

Render grazie dovresti, e ti lamenti;

più bel segno d'onore ei non può darti

che non turbar tua libertà d'un punto.

Tasso.

Posar mi lascia come inutil cosa.

Leon.

Perciò appunto che posi util tu sei.

Cure e noie da lungo in sen tu covi,

qual fanciullo di vezzi. A me, per molto

meditar ch'io vi faccia, è sempre avviso

che su questo bel suolo, ove fortuna

trapiantarti sembrò, tu non alligni.

Vuoi, Torquato, un consiglio? Aprirmi io deggio?..

Cerca, cerca altro ciel.

Tasso.

Medica amata

non blandire l'infermo, e la fiala

porgi a sue labbra per quantunque amara,

sol ch'ei possa guarir ben libra, o buona,

prudente amica. Ella è finita! io il veggio:

ben poss'io perdonargli, ei non lo puote.

Necessario è costui; lasso! io nol sono:

egli è prudente, ed io nol son pur troppo!

Egli intende a' miei danni, e ricattarmi

io non posso vo'. Gli amici miei

han la cosa in non cale, essi d'altr'occhio

veggonla affatto; fanno schermi appena,

e dovrìeno pugnar. L'avviso tuo

è ch'io dia loco, altrimenti io penso...

Or dunque addio! Sofferirò pur questo!

Voi da me vi partiste... Oh a me sia dato

forza e coraggio a dipartir da voi!

Leon.

Netto e parvente da lontan ne splende

l'obbietto che vicin gli occhi confuse.

Forse allora vedrai di quanto amore

eri segno dovunque, quale ha prezzo

vera fede d'amici, e che lontane

terre non tengon della propria il loco.

Tasso.

Ciò per prova vedrem! Pur da' verd'anni

so che di lieve ne abbandona il mondo

poveri e soli, suo cammin seguendo,

come il sole, la luna e gli altri numi.

Leon.

Se me tu ascolti, amico, unqua non fia

che rinnovi la trista esperïenza.

Per mio consiglio ti raccogli in prima

alla bella Firenze, e un'amica

amicamente ti torrà in sua cura.

Ti consola, io son quella. Al mio consorte

quivi a giorni men vado, e non so cosa

far più ad ambo gradita che il condurti

ospite a' nostri lari. Io taccio, e il sai,

a qual prence accostarti ivi potresti,

quai la bella cittade uomini alberga

e quali donne. Taci? A ciò ben pensa:

prendi partito.

Tasso.

La profferta è cara

e conforme al disio che chiusamente

nutro in mio petto, ma improvvisa è troppo.

Meditarla mi lascia; in poco d'ora

io son risolto.

Leon.

Con sì bella speme,

a te bella ed a noi e a questa reggia,

io mi diparto. Or medita; e se al vero

drizzi il pensier, non ti verrà trovato

miglior partito.

Tasso.

Un altro motto, amica:

qual è ver me di Leonora il core?

Era meco sdegnata? E quai parole

dalla bocca le uscîr? Mi biasmò forte?

Narrami il vero.

Leon.

Ti scusò di lieve,

perocchè ti conosce.

Tasso.

Agli occhi suoi

ne divenni men degno? Oh non blandirmi!

Leon.

Per sì poco non muor grazia di donna.

Tasso.

Darà di voglia al mio partir consenso?

Leon.

Certo, se torni in util tuo l'assenza.

Tasso.

Il favor di mio prence a me fia tolto?

Leon.

Posa securo nel gentil suo core.

Tasso.

Lascerem così sola Eleonora?

Ecco tu parti; e me, poco qual sono,

so che a vil non avea.

Leon.

Saper felice

un amico lontano è averlo accanto.

E te felice in mio pensier già veggo.

Non sarà di cruccioso il tuo partire.

Qui per cenno del prence Antonio or viene;

or già ripente le parole acerbe

onde t'offese. Accoglilo tranquillo,

come tranquillo ei viene.

Tasso.

In tutte guise

gli poss'io tener fronte.

Leon.

E a me il ciel dia,

prima ancora che io parta, aprirti gli occhi:

come in tutta la patria uomo non vive

che ti inodii o persegua, o trami insidie.

Tu sei certo in errore, e come spesso

per altrui gioia imaginando vai,

ora uno strano imagini tessuto

per affligger te stesso. A lacerarlo

tutta io voglio adoprarmi, onde securo

tu il lieto calle della vita ascenda.

Addio! Fra pochi istanti una felice

parola aspetto.

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License