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SCENA I.
Ant. |
Rividi il Tasso per tuo cenno e a punto da lui rivegno. Gli parlai, lo strinsi, ma proposto ei non muta, ed ansio prega |
Io ti confesso che dolente ne sono e tolgo innanzi dirti il mio duol che lo inasprir tacendo. Vuol Torquato lasciarne; or ben, nol vieto. Ei move a Roma; e sia, ma nol sottragga l'accorto Cosmo o Scipïon Gonzaga. Grande è Italia perciò che ognun gareggia col suo vicino ad ospitar gli egregi e giovarsi di lor. Prence che intorno non si accoglie gl'ingegni, un duce parmi privo di schiere; e barbaro è qualunque l'armonie non intende de' poeti, quando ben segga sul maggior de' troni. Io trovai questo e scelsi, io vo superbo dell'averlo a mio servo; e poi che molto m'adoprava a suo pro, senza dolore perderlo non potrei. |
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Ant. |
che tuttavia dell'odïerna lite a' tuoi occhi son reo. La mia fallanza io volentier confesserò: s'aspetta alla tua grazia il perdonar; ma al tutto sconsolato sarei, se tu opinassi ch'io non fessi ogni prova onde placarlo. Oh! mi favella con benigno sguardo, sì che di nuovo ricompormi io possa e in me stesso fidar. |
Di questo, Antonio, vivi tranquillo; io non ti chiamo in colpa. So la tempra di lui, so i benefici E i frequenti perdoni onde gli indulsi, e come spesso dal cercar m'astenni quanto darmi ei dovea. Di molte cose è concessa al mortal la signoria; ma sol necessitale e lungo tempo |
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Ant. |
Se per un solo molto adoprano gli altri, egli è ben dritto che a lui pur caglia dell'altrui vantaggio. Chi suo spirto educò sì gentilmente, chi ogni scienza abbraccia, ogni contezza cui può cogliere un uomo, obbligo forse |
E però sempre enne tolto il riposo. Ognor che noi ci speriamo goder, nemico o amico, |
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Ant. |
Compie ei forse il dover primo dell'uomo d'elegger cauto le bevande e i cibi? Perchè in stretto confin sì come ai bruti non prescrisse natura all'uom la scelta. Non corre forse qual fanciullo a quanto mai gli stuzzichi il gusto? E quando il nappo tempra con linfa? Spezie, acri liquori, zuccherose vivande in fretta e in folla ei si tracanna, indi il suo fosco senso vien lamentando e l'infiammato sangue e la fervida tempra, e la natura maledice e il destino. Acerbo e folle col medico garrir l'udii sovente. Moveami a riso, se di riso è degno ciò che un uomo addolora e gli altri turba. Questa doglia io mi sento, ei così parla pien di tedio e d'affanno. A che la vostra arte vantarmi? Or mi tornate sano. Ed il medico a lui: Dunque schivate questo e quest'altro: – Oh nol poss'io! – Bevete questo farmaco adunque. – Oh no! d'amaro ei mi sa troppo e mi rivolta il petto. – Acqua almeno mescete. – Acqua? non mai; assai più d'un idrofobo la abborro. – Allor mezzo non v'ha che vi dismali – Ma perchè ciò? – S'accresceranno al morbo altri malori, e quando ben non possa trarvi al sepolcro, vi farà più amara d'ora in ora la vita. – Or questo è strano! Medico siete, il mio malor vi è conto, saper dovreste un farmaco e sì dolce a miei labbri il temprar che prima ancora d'esser disciolto delle doglie mie io non abbia a doler. Tu pur sorridi! Ma le son sue parole e tu medesmo da lui le udisti. |
pur lo scusai. |
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Ant. |
come ne causa gravi sogni e fieri, sognar ne fa dassezzo a dì sereno: e che son suoi sospetti altro che sogni? Ovunque muova fra nemici ei viene, porta invidia a sua mente ognun che il vegga, ognun lo esecra che lo invidii, e lui fiero persegue. Te medesmo ei spesso assordò di lamenti: or toppe infrante, ora lettre intraprese, or ferro, or tôsco e qual più strana fantasia lo prenda. Ponderati hai que' lagni in giusta lance, e che trovasti mai? Nè un'ombra pure. Non è scudo di prence a cui s'affidi, petto amico non è che lo consoli. |
Vero Antonio diresti, ove da lui mio presente vantaggio io mi sperassi; e, già mi giova che assoluto e tosto util da esso non aspetto. A un modo non ci serve ogni cosa, e chi di molte giovarsi intende ciascheduna adopri come vuol sua natura, e gli fien tutte abil stromento. Ne insegnò quest'arte la medicea famiglia, e fin del Tebro i sacrati signor. Con che indulgenza, con che regal longanime mitezza qualche splendido ingegno sofferiro che passarsi parea de' lor favori e n'avea d'uopo! |
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Ant. |
Sol la fatica della vita insegna a tener cari della vita i beni. Troppo in alto ei salì così garzone perchè possa goder tempratamente. Se faticando conquistar dovesse quanto gli si offre adesso a piene mani, virilmente oprerebbe il suo vigore e d'ogni nuovo passo andría contento. Povero gentiluomo allor per fermo giunto ha lo scopo del miglior desìo, quando un nobile prence a cortigiano sceglierlo degna e con soave destra lo sottragge all'inopia. Ove gli doni grazia ancora e fidanza, e al fianco suo innanzi agli altri lo sollevi o in guerra o nell'opre di stato o ne' colloqui, potrebbe allor, cred'io, l'uomo modesto con tacita adorar riconoscenza la sua fortuna. A così cari doni la più bella de' giovani ventura Torquato accoppia: già di lui la patria ha contezza e speranze. A me deh! credi: la sua noia fantastica deriva dall'eccellenza della sua fortuna. Ei vien: blando il congeda e gli dà tempo che in Napoli od in Roma o dove ei vuole |
Ant. |
Restarsi ei brama in Belriguardo, e intende |
Ed io ne son contento. Coll'amica riede la sorella ben tosto a' patrii lari, e su presto corsiero io le prevengo. Poste al vate le cose in tutto punto, ratto ne segui. Al castellan comanda quanto è mestier perchè Torquato possa soggiornar nel castel finchè gli piaccia e gli amici gli mandino gli arnesi |