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VII.
Quando dalla classe dei mezzadri e dei contadini-proprietarî - rarissimi in Sicilia - si passa all'esame delle condizioni degli altri lavoratori, in questa terra tanto decantata per la sua fertilità e per ogni sorta di ricchezze, si riscontrano i veri paria.
I proletarî dediti ai lavori agricoli ed alla pastorizia non sono dappertutto ugualmente infelici, e si suddividono ancora. Ci sono quelli che lavorano ad anno o a mese; e ci sono quelli che vengono adibiti alla giornata.
Tra i primi è veramente dura la sorte di coloro che custodiscono gli armenti e le greggi. I bovari, come si chiamano quelli addetti alla custodia dei bovi, raramente dormono al coperto. D'inverno, ricoperti da pelli di montone che danno loro sembianze di uomini primitivi, stanno esposti alle pioggie e alle tempeste; d'estate, durante le lunghe ed afose giornate, sono fortunati quando trovano un albero, od una disuguaglianza di terreno, che procuri loro un poco di ombra per sonnecchiare o per mangiare un tozzo di pane asciutto ed un poco di ricotta. Fanno uso più di frequente di latte e qualche volta, se muore un animale, si cibano di carne.
Si può dire che non conoscono la pasta, mentre spessissimo mangiano erbe cotte e senza condimento di olio.
Uomini di ogni età fanno da bovari e se l'armento è poco numeroso più spesso sono sotto i venti anni.
I pecorari, coloro che custodiscono le pecore, su per giù si trovano nelle identiche condizioni dei primi; hanno il vantaggio di dormire al coperto; quasi sempre alla sera mangiano le lasagne e la ricotta e bevono latte; ma ricevono un minore salario.
Il pane che mangiano bovari e pecorari è il più nero, il meno cotto e il più cattivo, che si mangi in Sicilia; è sempre fatto, però, con farina di frumento.
Tutti questi uomini addetti alla pastorizia vanno alle rispettive case una volta il mese ed anche ogni tre mesi, certamente con grave detrimento dei rapporti di famiglia e della morale.
Gli stipendî, oltre l'alimentazione nella misura suaccennata, variano da lire 75 a lire 200 all'anno. Pecorari e bovari, però, in mezzo agli animali del padrone hanno diritto di mantenerne gratuitamente qualcuno per loro conto. Ciò che aumenta il salario annuo in media di una trentina di lire.
Si comprende che con questi salarî irrisorî una famiglia nè onestamente, nè tollerabilmente può andare innanzi; ma di sovente gl'incerti vengono in aiuto. E pur troppo gl'incerti lucri vengono guadagnati dalle mogli e dalle figlie e dagli uomini sopratutto coll'abigeato e col manutengolismo.
I pastori sono quasi sempre amici o complici dei ladri di animali e dei briganti. C'è da sorprendersene?
Oltre i pastori lavorano ad anno o a mese i cosidetti garzoni e dietro a questi ultimi viene la grande massa dei giornalieri, la cui esistenza è assai più precaria e che sono degni di commiserazione profonda.
Secondo le colture e le stagioni essi guadagnano da centesimi quaranta a una lira al giorno; e i contadini che ricevono una lira sono i fortunati, e per qualche mese soltanto: durante la semina e durante il raccolto. In generale sono più elevati di questi i salarî indicati da Enrico La Loggia nel suo diligente studio sui Moti di Sicilia (Giornale degli Economisti, marzo 1894) e dal Prof. Salvioli; ma la differenza deriva dall'avere essi calcolato in denaro la parte che ricevono in generi. Comunque, entrambi convengono che fatto il bilancio della entrata di un contadino se ne deduce che il suo tenore di vita (standard of life) non può essere che bassissimo e che alla miseria più squallida è condannata la sua famiglia se sopraggiunge qualche caso di malattia o uno sciopero forzato per piogge continuate o per altre ragioni, poichè il risparmio di qualsiasi somma è impossibile durante l'anno.
In generale i salarî sono più elevati dove la coltura è intensiva. Per la mietitura i salarî si elevavano pel passato a L. 2,50 oltre una buona e copiosa alimentazione ed un litro e mezzo di vino al giorno. Ma da due anni in qua i salarî ribassano terribilmente e c'è una triste concorrenza nel lavoro che i mietitori di una contrada vanno a fare a quelli di un'altra; concorrenza, che ha determinato non poche sanguinose risse e delle caccie, che nulla hanno da invidiare alla caccia che si fa all'italiano in Francia, in America, in Australia e dovunque esso va a fare concorrenza al lavoratore indigeno.
La concorrenza, il ribasso nei prezzi dei cereali, la elevatezza dei fitti delle terre hanno ridotto al minimum il salario anche dei mietitori, che in altri tempi si poteva considerare come abbastanza alto.
Essi oramai lavorano per lunghe sedici ore, sotto la sferza cocente del sole, quasi africano, della Sicilia per un franco ed anche per 75 centesimi al giorno! Quando ritornano alle lontane loro case, dopo venti o trenta giorni di assenza, si reputano fortunati se portano un gruzzolo di lire 20!
Il salario è insufficiente, è un vero salario della fame come lo chiamerebbero in Inghilterra; ma il guaio maggiore è questo: il contadino non è sicuro di averlo per tutto l'anno. È fortuna, se in media esso lavora per 200 giorni all'anno; la lira, quindi, o i sessanta centesimi al giorno devono essere ridotti alla metà circa, considerati come mezzi di sostentamento della disgraziata famiglia del contadino giornaliero, le cui donne guadagnano pochi altri centesimi al giorno, filando, cucendo, lavando, vendendo le uova che fa la loro gallina, la quale ha tutte le loro cure.
Per talune di queste donne è una grande risorsa l'allevamento di un porchetto, che viene alimentato coi brodetti, colle buccie, e colle frutta guaste ricevute in elemosina dai vicini agiati. E bisogna vedere con quale tenerezza - che suscita l'indegnazione e lo scherno di chi non sa valutare la ragione del fatto - la buona moglie del contadino guarda a quell'animale immondo, che dorme sotto il suo misero lettuccio, e che sinanco gratta colle proprie mani e quasi accarezza a preferenza dei figli!
Egli è che il giorno in cui quel fido compagno della contadina viene ammazzato, nella sua casa c'è gran festa: se ne mangia la testa, se ne mangia il fegato, se ne mangiano i piedi bolliti e il sangue coagulato e se ne regala anche ai vicini; e ciò non capita che una volta all'anno. Di più colla vendita del resto la buona donna vede ricompensate le cure e le fatiche sue di un anno ricevendo dal macellaio, le trenta, le quaranta lire, che costituiscono la grande risorsa della famiglia, e colle quali provvede quasi sempre ai vestiti.
Ma la scienza, la civiltà, l'igiene cominciano già a privare molte di queste povere famiglie di contadini della risorsa, per loro grande, dello allevamento del maiale! Gli agenti del municipio danno la caccia a questi compagni di Sant'Antonio, che altra volta passeggiavano liberamente per tanti paeselli della Sicilia. L'igiene e la decenza vi guadagnano di sicuro; ma nel bilancio del disgraziato contadino spunta il deficit. Così la civiltà gli si affaccia come una sventura e le guardie municipali, che adempiono al proprio dovere, gli divengono invise e gli riescono addirittura odiose se sono costrette a multarlo32.
Nelle zone zolfifere, il proletariato agricolo aveva una grande risorsa nei figli: un paio, gli procuravano circa due lire al giorno lavorando da carusi nella miniera, oltre lo anticipo da 50 a 150 lire, che ricevevano per una volta sola come si sa. Ora questa risorsa viene meno per la depressione dell'industria zolfifera.
La misera condizione dei lavoratori della terra non è una constatazione da sentimentalisti; ma venne riconosciuta da persone insospettabili di esagerazione pel partito in cui militano, per le cariche che occupano, per la loro condizione sociale e per l'antagonismo in cui taluni si trovano coi capi del movimento socialista. Tale misera condizione non venne attenuata in alcun modo al Rossi della Tribuna dal Cav. Masi, consigliere provinciale di Piana dei Greci, dal Baronello Bartoccelli e dal Cav. V. Falcone, sindaco di Canicattì - entrambi ricchissimi proprietarî - e da altri ricchi proprietarî a Casteltermini e altrove. È importante il giudizio del Masi e del Falcone perchè entrambi sono al potere e non sono mossi da una qualsiasi ambizione da soddisfare. La condizione dei lavoratori della terra venne riconosciuta tristissima, qual'è, da quanti visitarono la Sicilia negli ultimi tempi e fu efficacemente descritta dagli onorevoli Comandini, Farina, Plebano e dal Borelli del Popolo Romano, che pur militano in partiti politici diversi e non sono mossi nè da passioni, nè da interessi locali. L'on. Plebano, in ispecie, rimase impressionatissimo dalla miseria di Piana di Greci e per miracolo non incoraggiò i fieri contadini alla rivolta. Non pochi ufficiali dell'esercito al Rossi, della Tribuna, a me stesso e ad altri dichiararono, che si sentivano assai a disagio trovandosi distaccati in certi paesi per prestare manoforte ai prepotenti iniqui contro i poveri oppressi! Tanta ineffabile miseria dei lavoratori della terra, infine, in occasione degli ultimi moti, oltre che dai cennati uomini politici e pubblicisti, che poi, per qualche ragione potrebbero anche essere giudicati sospetti, venne riconfermata da scrittori, che vivono al di fuori della politica e dalle tendenze diverse; tra i quali mi piace ricordare il più volte citato Cavalieri e Monsignor Isidoro Carini, l'illustre Bibliotecario del Vaticano che tanto ama la sua isola natìa e ch'è legato da particolare amicizia coll'on. Crispi. E adesso qualche parola sulle abitudini e sul carattere morale dei contadini.
Ai contadini della Sicilia si può applicare benissimo ciò che scienziati e romanzieri hanno scritto di quelli degli altri paesi. L'abate Roux dice: «il campagnuolo è troppo fanciullo per non essere mentitore; vive ancora sotto la legge del timore e la legge di amore è per lui lettera morta; non ama le cose e le persone che per l'uso, che può farne.» (Pensèes. Parigi 1885). Il Prof. Lacassagne paragonando la criminalità delle città e delle campagne aggiunge: «il contadino è egoista, diffidente, vendicativo, perchè egli ha poche relazioni sociali; le sue occupazioni monotone e ripetute gli creano un certo stato di automatismo; d'onde il suo spirito lento e stretto.» E le passioni, i difetti, i pregi del contadino descritto da Zola nella Terre si potrebbero attribuire a quello di Sicilia.
Ciò che caratterizza maggiormente il lavoratore della terra nell'isola è la sobrietà. «Il Siciliano - dice il generale Corsi - è molto sobrio nel mangiare e nel bere; lo sono allo estremo i contadini che si nutrono di vegetali e bevono acqua» (Sicilia. pag. 266). Infatti, di raro assai mangiano carne; il pane e le verdure cotte sono i loro cibi ordinarî, non frequentano caffè o bettole, non bevono vino se non quando lo ricevono lavorando come parte del salario (almeno dove prevale il latifondo); vestono dimessi e con abiti dal taglio speciale, molto vario da contrada a contrada, caratteristico; amano moltissimo le feste religiose, nelle quali le scene di superstizione e di fanatismo dipinte nel Voto del Michetti si alternano con veri baccanali. Il contadino, casalingo, ospitale, geloso della sua donna, che spesso gli prepara i tessuti, che servono per i suoi vestiti (specialmente la tela di lino o di cotone e il tessuto di lana nera, chiamato abbracia - albagio - un poco più grossolano di quello che si fabbrica in Sardegna) si rassegna facilmente alle sofferenze materiali e la miseria sola, come bene osserva il La Loggia, non avrebbe potuto farlo muovere! L'analfabetismo domina nelle campagne della Sicilia, i cui abitatori - meno quelli della Conca d'oro - non commettono in generale frequenti reati di sangue e sono dediti invece ai furti campestri ed all'abigeato. La mafia trova numerosi e pericolosi affiliati nelle campagne dei dintorni di Palermo; ben rari altrove. Quelli, però, tra i contadini, che si elevano al grado di campiere o di soprastante e che hanno l'ufficio di garantire gl'interessi del grande proprietario nel latifondo divengono di ordinario la quintessenza dei mafiosi pel loro coraggio, per la rigorosa osservanza del codice dell'omertà, per l'assenza completa di scrupoli nel prestar mano a briganti e malandrini, nel farla da manutengoli, nel tirare una schiopettata ad un nemico, ad un disgraziato, che ne ha offesa la suscettibilità morbosa. Insomma campieri e soprastanti spesso sono una edizione riveduta e peggiorata degli antichi bravi. Non fecero mai parte dei Fasci anzi rimasero sempre ai servizî dei loro più accaniti nemici, i quali scandalizzati, denunziavano i Fasci, come covi di malfattori perchè avevano accettato come socio qualche ammonito, più vittima dell'ambiente sociale, che vero delinquente come la massima parte dei più pregiati tra i loro fidi33!.
Mi piace qui rilevare che il Generale Corsi ha segnalato come meritevolissime di attenzione tre opere recenti sulla Sicilia: quelle di Schneegans, di Bazine e di Gustavo Chiesi riconoscendo che la migliore è La Sicilia Illustrata dell'ultimo. Godo moltissimo di questo giudizio perchè mi conferma in quello dato da me due anni or sono nell'Isola e che temevo fosse troppo benevolo per la grande amicizia, che mi lega allo scrittore milanese. Nel Chiesi lo stato morale, intellettuale e sociale dei Siciliani è meglio descritto che in qualunque altro autore. Lo Schneegans ci dà la Sicilia di 50 anni fa.