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XII.
La prepotenza feudale, la iniquità sistematica in ogni momento ed in ogni lato della vita e della amministrazione comunale, che si esplicano sotto l'egida delle autorità governative - prefetti, delegati, carabinieri - spiegano più che sufficientemente come l'odio delle classi lavoratrici contro i galantuomini debba essere profondo e generale, e tanto più pericolosa la sua esplosione violenta inquanto che lungamente represso e non attenuato da alcuno sfogo nelle vie legali, a loro non consentito dalle stesse leggi, che del diritto elettorale hanno fatto un privilegio di alcune classi.
Tutto il passato remoto e tutto il presente non ha fatto che generare e alimentare quest'odio dei lavoratori, - specialmente delle campagne, contro le classi dirigenti, - che un giorno o l'altro doveva esplodere.
Si dirà: «all'indomani delle sommosse e delle rivolte la invocazione della preesistenza dell'odio di classe è un comodo espediente per ispiegare, se non per giustificare, i moti inconsulti o criminosi.»
Epperò giova dimostrare, che quanti si occuparono delle condizioni della Sicilia constatarono in ogni tempo - nei momenti di tranquillità, come in quelli di agitazione e di perturbamento - il doloroso fenomeno.
Uno scrittore più volte citato, l'Alongi, parecchi anni or sono scriveva che per i motivi precedentemente esposti «il contadino diffida e vede nei funzionari tanti alleati dei galantuomini, che lo tengono in una grossolana e ferrea servitù economica, e ignorante, incretinito dalla miseria, dal lavoro improbo, sfugge i contatti, vede ovunque ingiustizie ed oppressioni, e nei provvedimenti più utili tante trappole per immiserirlo di più. Nasce quindi tra i contadini un istinto di riunirsi tra loro contro i nemici comuni (galantuomini e governo; d'onde il proverbio: galantomu e malu passu dinni beni e stanni arrassu), di fare una lega spontanea, inconscia contro di essi, opponendo una inerzia assoluta a tutti i movimenti del nemico personificato nel funzionario e quando la pazienza scappa, farsela da sè, poichè pel povero non c'è giustizia (dice un altro proverbio: la furca è pri li puvureddi)».
Quest'odio di classe venne constatato da Sonnino, da Franchetti, da Bonfadini, da Damiani in varie epoche; ma si vogliono pareri di persone ancora più autorevoli e insospettabili? Eccoli.
L'odio contro i ricchi, accanto alla esistenza del latifondo, viene esplicitamente denunziato dal Procuratore Generale Caruso, nella sua relazione innanzi alla Corte di Appello di Palermo sul movimento della criminalità pel 1880, come la cagione principale dei caratteristici reati dei contadini.
Cinque anni dopo un altro Procuratore generale, il De Meo, in una analoga occasione nella stessa Palermo osservava: «i poveri agricoltori e coloni, mezzadri o fittaiuoli non vedono e spesso non conoscono i padroni dei fondi che coltivano e ne risentono il peso e l'oppressione per quelli agenti intermedî che fattori o campieri si domandano; dai quali non pure sono tribolati con vessazioni, usure e prepotenze di ogni sorta, ma spinti a disamare i proprietarî; onde tra loro si mantiene un abisso e si forma un cumulo di animosità, di rancori, di odî inveterati, che diventano temperamento e abito dell'animo...»
Io credo che ce ne sia abbastanza per una dimostrazione obbiettiva, spassionata di un vero odio di classe in Sicilia preesistente agli ultimi moti; odio di classe generato dalle cause che sono state esposte e che ha costituito un pericolo permanente per l'ordine sociale.
Quest'odio di classe che, per quanto giustificato, in me produsse sempre un senso di sgomento per le sue possibili esplosioni, ispirò ad uno scrittore conservatore uno dei bozzetti suoi più indovinati e caratteristici, che ritraggono la vita e le passioni del popolo in Sicilia. G. Verga infatti tra le sue Novelle rusticane ne ha una intitolata Libertà, che tutta intera dovrebbe essere riprodotta a dimostrazione completa del come senza i Fasci e senza il socialismo, nell'isola potessero verificarsi fatti identici nella natura e più gravi negli episodî di quelli del 1893 e 1894, ma basterà ai lettori l'esordio eloquente.
«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!»
«Come il mare in tempesta, la folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciola.»
«A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!»
«E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini. Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!»53 L'arte non poteva meglio riassumere gli odî generati da secolari ingiustizie esplodenti quando al grido di Viva la libertà! gli oppressi credevano che fosse arrivata l'ora della vendetta e della riparazione.