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XIII.
NULLA È MUTATO!
Più volte s'è già accennato al carattere di permanenza delle descritte condizioni della Sicilia. Ma nell'animo di molti potrà esser rimasto qualche avanzo di ottimismo, il quale avrà potuto indurlo a credere che i più dolorosi tra i mali da cui è afflitta l'isola nostra siano eredità del passato - per quanto prossimo - e che qualche miglioramento riparatore si sia ottenuto per opera del governo, o dei maggiorenti meglio avvisati de' pericoli a' quali viene esposto l'organismo sociale dal perdurare di condizioni di fatto divenute assolutamente anacronistiche, oggi, in mezzo all'Europa che, più o meno, s'è venuta trasformando.
Ebbene! ogni illusione deve essere bandita, e bisogna confessare con vergogna, che i mutamenti in meglio, in rapporto alle classi lavoratrici sono tale povera cosa, che si possono considerare come non avvenuti. Ma con ciò non s'intende negare che negli strati superiori siano avvenute sensibili modificazioni.
Il Baer con equanimità assegna la parte di responsabilità ch'è dovuta al governo borbonico nel mantenimento di un regime feudale che sarebbe stato suo interesse far scomparire per vederlo sostituito da un forte ceto medio, perchè in fondo le opposizioni più pericolose e più continuate gli vennero dall'aristocrazia che voleva conservare o riprendere interi tutti i suoi privilegi economici e politici. Ma esso pur avendo mostrato la intenzione di abbattere le istituzioni feudali - e glielo suggeriva la propria convenienza - volle seguire metodi proprî, che riuscirono impotenti, essendo frenati e paralizzati tutti i buoni tentativi dal soverchio timore dello innalzamento della parte popolare.
«Perciò la dinastia borbonica si chiarì impotente a fare il bene, debole nel pigliare ogni provvedimento d'interesse generale, solo violenta e perfino crudele ogni qualvolta temeva pel suo potere.» (Baer).
Degli intendimenti lodevoli e dei tentativi del governo borbonico per mutare e migliorare rimangono numerosi documenti ufficiali a farne fede. Colla legge dell'11 ottobre 1817, coi decreti del 2 Agosto 1818, del 20 maggio 1820 col reale rescritto del 18 ottobre 1821, con altri decreti del 30 luglio 1823, del 10 febbraio 1824, coi regolamenti del 24 ottobre e del 22 dicembre 1825, 3 gennajo 1836 e 20 ottobre 1834, 12 novembre 1838, si ordinarono inchieste e s'imposero scioglimenti di diritti promiscui, si cercò di dipanare l'arruffata matassa delle soggiogazioni, si tentò di porre riparo alle dilapidazioni e alle usurpazioni perpetrate a danno delle opere pie, si tentò d'infrenare l'usura; ma tutto riuscì sempre vano, perchè baroni, magistrati e funzionari di ogni genere, stretti in mostruosa lega, resero ognora lettera morta leggi, regolamenti e decreti opportuni e benefici, ed il governo non seppe contrapporre la propria forza attiva alla resistenza dell'inerzia.
Del male intanto si aveva conoscenza esatta; chè in un decreto del 12 ottobre 1838, all'indomani del viaggio di Ferdinando II in Sicilia, si legge: «le vaste contrade nude, deserte, mal coltivate, che s'incontrano in Sicilia, non ostante la loro feracità naturale ed il favore del clima, non potranno essere migliorate finchè durerà l'esistenza di più padroni sullo stesso fondo. Volendo accelerare la esecuzione delle leggi, che da epoche remote hanno proscritta la indicata condizione della proprietà, perniciosa a tutti ecc. ecc.» In un altro decreto dello stesso anno 1838 è detto che «il languire dell'agricoltura e della pastorizia, e la miseria d'intere popolazioni, debbono attribuirsi in gran parte alla esistenza degli abusi feudali, delle promiscuità e delle liti degli ex-baroni coi Comuni, ecc.»
Dopo, nei momenti della peggiore reazione, nel 1849 e nel 1852, il principe di Satriano emanò decreti contro l'usura, e per favorire lo spezzamento dei latifondi; sempre inutilmente.
Se il governo borbonico fu impotente al bene, come si disse, potè colle persecuzioni politiche, coi favoritismi, colle protezioni far scomparire del tutto dagli animi la confidenza nella giustizia e far sorgere la mafia, i campieri e i compagni d'armi, che avevano in appalto la sicurezza pubblica delle campagne, e che, in generale, erano pregiudicati e briganti in ritiro, che conservavano i migliori rapporti coi briganti in attività.
Lo sbarco di Marsala e la successiva liberazione dell'isola dal giogo borbonico avrebbero dovuto iniziare un'êra nuova. Alcuni sapienti decreti di Garibaldi lo fecero sperare; e i propositi manifestati da lui sul censimento dei beni ecclesiastici, se attuati, da soli sarebbero forse bastati a produrre un vero rinnovamento economico-sociale: ma si sa che ai criterî sociali nella distribuzione di quei beni furono sostituiti i criterî esclusivamente fiscali ed un'opera che avrebbe potuto riuscire altamente civile non fu feconda che di mali e di amare delusioni frammiste a qualche poco di utile. Lo stesso dicasi dell'editto del 19 settembre 1861 emanato dal Luogotenente del Re in Sicilia, generale Pettinengo relativo alle obbligazioni dette di semenza e soccorsi e di mercanti a massari per agevolare la semina e la cultura della terra, inteso ad infrenare l'inveterata e perniciosa usura: rimase lettera morta.
E i metodi e i criterî di governo seguiti in Sicilia dopo l'annessione, e l'atteggiamento di molti uomini e giornali del continente, che li inasprirono produssero malintesi, risentimenti, rancori regionali che - accresciuti dalla malefica e affrettata unificazione centralizzatrice - generarono profondo malcontento in tutti e delusioni sconfortanti.
Contro la verità storica, contro il buon senso, contro le esplicite e reiterate dichiarazioni di Garibaldi e dei suoi più intimi, fu offeso l'amor proprio degli isolani col proclamarli conquistati dai Mille e col dichiararli barbari per bocca del generale Govone: insulto a distanza di molti anni stoltamente ripetuto dal generale Corvetto. E da barbari furono trattati, e si tentò d'incivilirli cogli stessi metodi umani adoperati... da Livraghi in Africa.
Aspromonte e Fantina certamente non furono avvenimenti che poterono crescere stima al governo in Sicilia; ma gli animi nelle classi lavoratrici sopratutto si esasperarono colla introduzione della leva militare, «carico nuovissimo - scrive il generale Corsi - odioso oltre ogni dire» e colle misure odiosissime per arrestare i renitenti. Il militarismo allora col martirio del sordo-muto Cappello, coi fatti crudeli di Petralia ad opera del tenente Dupuy mostrò di che cosa poteva esser capace54. Tutte le libertà, scrissi altra volta, furono violate replicatamente; ond'era generale il chiedersi: il nuovo governo non vale l'antico?
A questo periodo precisamente si riferisce, e da tali avvenimenti e giudizî insani fu provocato, il celebre discorso pronunziato da Filippo Cordova nella Camera dei Deputati il 9 dicembre 1893. L'illustre statista siciliano allora non solo ricacciò in gola ai calunniatori dell'isola le loro sciocche insolenze, ma a coloro che ne facevano malgoverno indicò tutto un programma da seguire, i mali da rimuovere e il bene da promuovere.
Egli tra le approvazioni insolite della sinistra disse: «Io credo che un governo, allorquando riceve un paese non dalla conquista, ma dalle mani della rivoluzione debba domandare a sè stesso per quali bisogni questa rivoluzione si è fatta, che cosa voleva il popolo che si è sollevato e pensare in tutti i modi a soddisfare questi bisogni. Questo era il solo modo di ristabilire l'ordine, il solo modo di contentare completamente le popolazioni.»
«.... L'azione di un governo può essere promotrice della prosperità futura dei popoli e riparatrice degli abusi che si sono introdotti per il passato;.... e considero azione riparatrice quella che consiste nel rimuovere i tristi effetti delle passate legislazioni, dei monopoli, dei privilegi, nel distruggere gli abusi, che ancora possono esistervi.» E l'opera del governo doveva esplicarsi, secondo l'on. Cordova colla riforma del regime delle acque, colla pubblica istruzione, colle bonifiche, colla abolizione delle decime55, colle nuove comunicazioni, colla sistemazione dei demanî comunali, colla trasformazione delle opere pie56....
«Questo programma era modestissimo, non ledeva i diritti giuritarii di privati, eppure non seppe accennare ad adottarlo il governo, il quale invece, secondo lo stesso on. Cordova, crede di potere reggersi colla violenza, cingendo di cordoni militari le città, privandole dell'acqua, vietando l'uso libero dei diritti dei cittadini, assicurando sempre l'impunità ai carabinieri che commettevano reati: impunità che produceva reazioni.» Queste le testuali parole del Cordova ex ministro e moderato di quattro cotte...
A questo stato di cose non poteva apportare rimedio il cosidetto Piemontismo in forza del quale fra l'altro si mandarono in Sicilia gli scarti della burocrazia, e vi si mandarono in punizione. Ne nacquero antipatie, liti, duelli, scene disgustose, che contribuirono a generare la sanguinosa insurrezione di Palermo nel 1866 che chiuse un primo periodo della dolorosa storia del governo Italiano in Sicilia.
E che c'era da aspettarsi qualche avvenimento doloroso come quello del 1866 lo fece comprendere chiaramente in una celebre discussione parlamentare un altro uomo eminente, che aveva studiato e conosciuto la Sicilia da magistrato. Alludo all'on. Tajani che nella seduta della Camera dei deputati degli 11 giugno 1875 constatava che dal 1860 al 1866 il governo fu ora fiacco, ora violento; che corresse la fiacchezza colla violenza, per ritornare sempre alla violenza; che si offese la Sicilia adoperandovi i modi peggiori e negandole sempre la giustizia; e che ciò che le fu dato, se si guarda a ciò che le fu negato assume le proporzioni dell'ironia.»57 Da 1866 in poi qualche miglioramento ci fu; ma non grande. E grande non poteva essere se si pensa che ai mali esistenti la sapienza governativa, pensò di provvedere, per esempio, colla prefettura militare del Generale Medici, quando alla mafia privata si aggiunse la mafia più potente ai servizî del Prefetto-generale.
E questo nefastissimo periodo dev'essere illustrato perchè lo si è dimenticato con troppa facilità: e dev'essere ricordato perchè facendo conoscere quali tristi conseguenze lasciò il militarismo nel 1866 e negli anni successivi, farà intravedere quali li lascerà nel 1894.
Si osservi anzitutto «che dopo la rivolta del 1866 vi fu un diluvio di disposizioni cozzanti fra loro.... e che vennero i tribunali militari, i quali fecero sterminato numero di processi e quando la posizione era compromessa, e che la giustizia dei tribunali civili doveva riuscire difficilissima, se non impossibile, si annullarono ad un tratto i tribunali militari, ed i tribunali civili rimasero imbarazzati e così ne rimase esautorata la giustizia militare e la giustizia civile.» (Taiani)58.
Ciò che rese celebre e caratteristico questo periodo furono la organizzazione della polizia, la sua opera e i criterî adottati dal generale Medici e dal suo alter ego il questore Albanese per il ristabilimento dell'ordine e della giustizia.
«Il processo contro Ciotti Sebastiano, graduato delle guardie di Pubblica sicurezza, applicato al gabinetto del Questore e presso il quale si sequestrarono molti oggetti rubati; le gesta di un delegato di pubblica sicurezza che in un mandamento impianta la mafia, si unisce e si lega in relazioni amichevoli con noti ladri e li manda a rubare per suo conto e che si ripete in un altro mandamento guadagnandosi la promozione; le prodezze della guardia nazionale suburbana di Monreale composta tutta di mafiosi, colla complicità o col permesso dei quali si commettevano tutti i misfatti del mandamento, tanto da autorizzare un Magistrato a dire: qui si ruba, si uccide, si grassa in nome del reale governo59: l'alternativa posta da un questore di Palermo ad un notissimo facinoroso di entrare nel corpo delle guardie di pubblica sicurezza o di partire pel domicilio coatto - alternativa alla quale il mafioso cercò sottrarsi tentando di pugnalare il questore; il processo contro il questore Albanese e compagni, accusati di omicidii, di falsità, di corruzione, di truffa, di soppressione dolosa di documenti; le pressioni indecenti esercitate dal generale Medici e dal governo di Roma, per ottenere l'assoluzione di questi alti delinquenti, e che determinarono le dimissioni dal Procuratore generale Taiani e raggiunsero il deplorevole intento, dicono di più che molti volumi, sulla stima e sul rispetto e sulla fiducia che potevano ispirare i rappresentanti del governo, che i mali antichi economici lasciava intatti aggravando quelli politici e morali.»
Siffatta polizia e siffatte autorità governative impotenti a reprimere il malandrinaggio e la mafia, della propria inettitudine e malvagità si rifacevano inventando di sana pianta processi politici, che sembrerebbero calunnie e diffamazioni ventilate dai sobillatori - non ancora inventati - se non fossero stati denunziati dal magistrato che li sgonfiò e liquidò, in pubblica seduta della Camera dei Deputati!
Ahimè! Il 1894 non vide più un magistrato che ricordasse i Lelli, i Borgnini, i Tajani....
Con siffatti uomini e con siffatti metodi e criterî di governo si arrivò in Sicilia al 1875 nelle condizioni descritte da questo brano sintetico e chiaro: Noi abbiamo colà: le leggi ordinarie derise, le istituzioni un'ironia, la corruzione dappertutto, il favore la regola, la giustizia l'eccezione, il delitto intronizzato nel luogo della pubblica tutela, i rei fatti giudici, i giudici fatti rei ed una corte di mali interessati fatti arbitri della libertà, dell'onore, della vita dei cittadini. Dio immortale!
«Che cosa è mai questo se non il caos? Che cosa è mai questo se non il peggiore dei mali: la anarchia di governo, innanzi alla quale cento briganti di più, e cento crimini di più sono un nonnulla e si scolorano?» (Tajani. Discorso alla Camera dei deputati del 12 giugno 1875).
Queste condizioni furono il prodotto di quindici anni di malgoverno della destra; e la destra, quantunque ancora non fossero inventati i sobillatori e i Fasci, vedendosi impotente a rimediare collo Statuto che aveva violato, e colle leggi ordinarie che non aveva mai applicate e rispettate, domandò provvedimenti e leggi eccezionali.
Siamo giusti, però; la destra li domandò a chi aveva le apparenze del diritto a concederle: al Parlamento. Inchiniamoci riverenti innanzi a questo partito che sta per cadere, che conserva ancora del pudore e che mantiene un minimum di rispettabilità! Indarno li cercheremo nella sinistra, che sta per arrivare....
La sinistra! Cos'era il gran partito della riparazione? «una confederazione di condottieri stretti al patto di rovesciare comunque la destra e toglierle di mano il reggimento, salvo poi d'intendersi (od anche di non intendersi) non tanto per concordare il da farsi - che questo pareva a tutti ovvio a comporre, facile a praticare; perocchè, ei dicevano, bisognasse fare tutto il contrario di quello che aveva operato la destra! - ma per ripartirsi gli uffici e.... via... anche un poco i benefici» (Zini p. 24).
E per fare il contrario di ciò che la destra aveva fatto, la sinistra inaugurò in Sicilia il proprio regime applicando le leggi e i provvedimenti eccezionali che aveva negato sdegnosamente alla prima in Parlamento. Li applica nel 1876 l'on. Nicotera - suoi strumenti il Prefetto Malusardi e l'ispettore Lucchese, destinato dalla sorte a brillare nell'isola - e se ne vanta alla Camera (tornata del 29 novembre 1876). Eppure all'inizio dell'opera del gran partito siamo ancora ben lontani dalla perfezione nell'applicazione di provvedimenti eccezionali raggiunta da chi crede di essere la quintessenza della democrazia parlamentare: l'on. Crispi!
Fu grande, perciò in Sicilia, la delusione provata coll'arrivo al potere della sinistra, dalla quale si sperava un radicale mutamento d'indirizzo e la riparazîone di tante ingiustizie e dalla quale nulla si ottenne. Sotto un certo aspetto, anzi, ci fu un peggioramento, poichè i deputati dell'isola che in maggioranza erano di sinistra, colla cosidetta rivoluzione parlamentare del 18 Marzo 1876 ebbero le grazie e i favori del potere a benefizio delle clientele e delle consorterie locali che dichiaravano di aderire al proprio partito. Il governo così servì a ribadire nei Comuni, nelle Provincie, nelle opere pie la oppressione antica a beneficio dei grandi elettori e delle classi dirigenti; a danno dei vinti e delle classi lavoratrici.
Di che riporta molti esempî lo Zini, uno dei pochi prefetti che insieme al Rasponi, al Gerra e a pochi altri, vennero in Sicilia con rette intenzioni e fa onore al Nicotera l'avervelo mandato, quanto gli fa torto l'averlo costretto a dimettersi per non avere voluto seguire una condotta biecamente partigiana.
I deputati, d'allora in poi più che pel passato, tutto sacrificarono al criterio elettorale, e i ministri al criterio parlamentare; gli uni per avere la maggioranza nel collegio chiesero ciò che spesso era disonesto o dannoso, e gli altri per conservarsela nella Camera concessero. Così furono approvati mutui disastrosi, concessioni e favori scandalosi, strade private costruite col denaro pubblico, approvati i bilanci irragionevoli e rinviati e mutilati quelli che contenevansi entro gli stretti limiti del necessario, sciolti i Consigli dei Comuni meglio amministrati anche quando le ispezioni, ordinate partigianamente e seviziosamente eseguite, tali li dimostravano; e mantenuti in piedi quelli violatori di tutte le leggi, odiati dai comunisti. Concesse le licenze per porto d'armi - specialmente nei momenti di elezioni: informino le campagne di Palermo - ai facinorosi, cui potevano servire solo a malfare e negate ai cittadini onesti che ne avevano bisogno a difesa personale, ma che avevano la disgrazia di militare in un partito opposto.
Così infine prefetti, delegati e pur troppo anche i magistrati furono messi a disposizione dei deputati ministeriali e questi nei rispettivi collegi divennero tanti proconsoli in cinquantesimo!
Questi mali preesistevano al ministero del Giolitti: questi li acuì in modo superlativo raggiungendo, però, un risultato insperato e insperabile per altri titoli: una fedeltà a tutta prova dei rappresentanti dell'isola, che coprivano e legittimavamo ogni loro voto di fiducia in nome della sacrosanta ricostituzione dei partiti e della risurrezione della sinistra, fatta da uomini che erano stati i promotori e i campioni del trasformismo!
L'insieme di questi fatti, proprî della destra e della sinistra sotto la dinastia Sabauda - e le considerazioni che suggeriscono - non mi permettono di consentire col Baer, che all'opera deleteria del regime borbonico contrappose quella «di una dinastia leale e conscia dei proprî doveri, sotto la quale la Sicilia ha veduto raffermate ed estese le franchigie politiche, che tanto le erano a cuore; il che ha dato al governo una forza ed una autorità morale che invano potevano sperare i Borboni. E con questa autorità lo Stato ha potuto senza contrasti crearsi nuove risorse finanziarie, stabilendo le tasse di registro, il monopolio dei tabacchi, cosa che non avrebbe mai osato il governo precedente. E si è fino estesa alla Sicilia la leva pel servizio militare.» Ora in tutta questa apologia smaccata, che si estende, con evidente contraddizione dell'egregio scrittore, al censimento dei beni della manomorta ecclesiastica, non c'è di vero che questo: il governo italiano colla forza brutale e non coll'autorità morale, ha saputo imporre alla Sicilia la leva, i balzelli nuovi e la distruzione di alcune industrie. E precisamente per questo in basso, ed oramai anche in alto, si fanno paragoni tra il governo borbonico e il governo italiano, i quali non riescono sempre lusinghieri pel secondo.
Se il governo italiano mancò alla sua funzione rigeneratrice nella parte vera politica e nella economica, non si mostrò d'altra parte migliore nella amministrativa e nei suoi rapporti coi Comuni, colle Provincie, colle opere pie.
Se si pon mente ai maggiori poteri che la legge comunale e provinciale del 1865 accordava ai Prefetti nello esercizio della tutela si riconoscerà che la responsabilità del governo fu immensa nella cattiva amministrazione dei corpi locali, nello sperpero del pubblico denaro, nello sfacciato favoritismo verso gli amici ed a danno degli avversarî del partito dominante, negli imbrogli elettorali multiformi, nella iniqua ripartizione delle imposte, nella oppressione dei vinti e dei lavoratori. E questa grande responsabilità del governo, specialmente sotto l'aspetto tributario, a proposito di ciò che avvenne nei comuni di Santa Margherita, di Campobello di Licata, venne esplicitamente assodata dal Cavalieri, ch'è uomo di governo, da Sonnino e Franchetti, da Bonfadini per altri casi e per altri luoghi a centinaia. Si deve aggiungere, anzi, che per la tolleranza o connivenza del governo, i gravi inconvenienti e la cattiva amministrazione, come ne' comuni e nelle provincie, si ripeterono nelle Congregazioni di Carità e in altre opere pie, coi posti gratuiti nei convitti, cogli impieghi dati ai favoriti o addirittura creati per essi, e financo col pagamento camorristico delle donne che allevano i trovatelli e che sono qualche volta le drude degli amici degli amministratori locali.
In quanto ai tributi, ad onore del vero, si dica che talvolta il governo ebbe il pensiero di fare rispettare la legge, ma solo quando la osservanza della medesima era odiosamente farisaica. Così più volte furono minacciati alcuni municipî (Caltagirone, Castrogiovanni, ecc.) della risoluzione del contratto di appalto col governo pel dazio di consumo, perchè non tutte le voci tassabili erano tassate e sopratutto perchè non si esigeva il dazio sulla farina e sul pane! Ed a questi municipî, per tale grave colpa, non si consentì di eccedere sul limite legale della sovrimposta fondiaria.
Quando gl'ingenui domandano: ma le autorità governative non vedevano, non riferivano, non provvedevano? si può rispondere: Sì! esse ci stavano e ci stanno per vedere, per riferire e per provvedere, ma non nel senso della giustizia e dell'interesse del popolo, sebbene nell'interesse del deputato, del candidato, del grande elettore, della persona influente; e in nome di tale interesse si nominano e si destituiscono i sindaci, si sciolgono i Consigli comunali, si manipolano le liste, si mutilano, si respingono o si approvano i bilanci, si traslocano i delegati di P. S., i Prefetti e i magistrati60.
È superfluo aggiungere che quella tale incompleta riforma della legge comunale e provinciale fatta votare dall'on. Crispi non riuscì a mutare in meglio le cose; e non lo poteva. Spesso anzi le peggiorò per l'aggravante della scemata responsabilità delle autorità governative, mentre continuò l'esercizio della loro perniciosa influenza; poichè in realtà nella Giunta Amministrativa - che dovrebbe essere la suprema moderatrice delle amministrazioni locali - il Prefetto prepondera sempre, e prepondera poi in particolar modo cospirando e intrigando per fare eleggere a membri delle medesime uomini quasi sempre inetti, e sempre servili, partigiani.
Perciò dal 1889 in poi continuarono le vecchie iniquità nella natura e nella distribuzione delle imposte, continuarono le spese pazze e le cortigianerie degradanti, crebbero le imposte e i debiti, che si risolvono in imposte rimandate coll'aggiunta degli interessi e delle provvigioni ai mediatori; e il governo continuò a non vedere nelle amministrazioni dei corpi locali che agenzie elettorali organizzate, e sempre pronte ai suoi cenni!
Una magra soddisfazione alle vittime di un tale stato di cose rimane: il sapere che ne fu fatta la constatazione da inchieste private ed ufficiali in termini su per giù identici da anni ed anni. La fece Ferdinando II nel 1838, la ripeterono nel 1875 da privati gli on. Sonnino, Franchetti e Cavalieri e in forma ufficiale la Giunta Parlamentare di cui fu relatore l'on. Bonfadini; fu riprodotta dall'onor. Damiani nel volume dell'Inchiesta agraria; fu riassunta da me nel 1885 nello scritto sulla Delinquenza della Sicilia e le sue cause; e tante Inchieste e tanti rapporti sono stati fatti che in dicembre scorso, nel periodo più acuto delle turbolenze il compianto on. Cuccia in nome di un comitato composto dei più fidi amici dell'on. Crispi malinconicamente conchiudeva: «Più inchieste sono state fatte, cento relazioni dai corpi più conservatori sono state mandate, mille rapporti sono stati scritti da tutti i funzionarî che si sono succeduti in Sicilia. E tutti, unanimi, hanno presentito i fatti d'oggi e quelli di domani, e tutti hanno fatto proposte, hanno reclamato provvedimenti, che sono restati lettera morta, come se il governo fosse l'ente più misoneico della società....»
Di tante inchieste, di tante relazioni, di tanti rapporti rimangono giudizî e descrizioni di una esattezza meravigliosa, che sembrano scritti all'indomani dei tumulti per giustificare i tumultuanti; giudizî e descrizioni che costituiscono ad un tempo le pietre miliari della constatazione delle miserie del proletariato siciliano e la condanna più severa della criminosa noncuranza degli uomini di governo di ieri e di oggi. Di tali giudizî e di tali descrizioni bisogna riprodurne alcuni, che datano da momenti diversi e vengono da persone avverse ad ogni idea di socialismo, le quali hanno la missione ufficiale d'interpreti della pubblica opinione e di tutelatori dell'ordine pubblico.
L'on. Sonnino venti anni or sono scriveva:
«Quel che trovammo nel 1860, dura tuttora. La Sicilia lasciata a sè troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari e ce ne assicurano l'intelligenza e l'energia della sua popolazione, e l'immensa ricchezza delle sue risorse. Una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi, italiani delle altre provincie, impediamo che tutto ciò avvenga, abbiamo legalizzato l'oppressione esistente; ed assicuriamo l'impunità all'oppressore.»
«Nelle società moderne ogni tirannia della legalità è contenuta dal timore di una reazione all'infuori delle vie legali. Orbene, in Sicilia, colle nostre istituzioni, modellate spesso sopra un formalismo liberale anzichè informate ad un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l'oppressione di fatto che già prima esisteva, coll'accaparrarsi tutti i poteri mediante l'uso e l'abuso della forza, che tutta era ed è in mano sua; ed ora le prestiamo mano forte per assicurarla che, a qualunque eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può essere, poichè la legalità l'ha in mano la classe che domina.»
Queste parole dell'attuale ministro del tesoro gli devono essere continuamente ricordate, perchè riassumono in modo mirabile l'azione sociale esercitata dal governo italiano in Sicilia; azione veramente perniciosa! Tenterà egli di cancellarla ora che è al potere?
Ciò che fu scritto nel 1875 da chi ora è ministro del Regno d'Italia è perfettamente adatto a dare una idea delle condizioni odierne dell'isola coll'aggravamento delle varie crisi - enologica, agrumaria, mineraria ecc.
E per chi sa leggere e comprendere troverà la conferma del serio giudizio nella inchiesta fatta da Adolfo Rossi per conto del giornale La Tribuna61.
Proprio alla vigilia dei tumulti nel novembre scorso, da Palermo in un rapporto ufficiale si scriveva al governo di Roma che aveva occhi per non vedere e orecchie per non sentire: «Qui i nostri frugali lavoratori soffrono la fame, non hanno desiderî disordinati, non bramano la fortuna altrui, non sentono l'odio di classe62, ma vogliono lavoro e pane, solamente per vivere; chè d'altro ad essi non cale.»
«Chi voglia far credere che questi operai abbiano degli ideali politici non dice la verità e s'inganna. Ma questi ideali potranno entrare nella loro mente, avvivati dagli effetti morbosi del digiuno; ed allora, guai se fuori l'ordine vedranno gli ultimi segni della loro speranza, chè in quel caso neppure le repressioni sanguinose varranno ad arrestare la china del loro incosciente furore».
«Il Governo che vuole sempre il suo dai dazi di consumo, non ha avuto mai cura di temperare le esigenze dei Comuni, i quali imitando altri esempî di spreco, anche per sollecitudini non necessarie, nè proprie, i loro mezzi domandano al consumo delle più umili ed universali derrate e tanto ne traggono, da renderle o difficili o impossibili a quelli che unicamente se ne sostentano con una frugalità, che fa ammirazione e paura.»
«In alcuni Comuni di questa circoscrizione, dal pane che la rivoluzione aveva redento dalla grave ed odiata tassa del macinato, si traggono quasi dieci centesimi il chilogramma, e questa tassa, che dà milioni, neppur provvede ai bisogni della popolare igiene, ma si distrae in godimenti voluttuarî ai quali le classi lavoratrici non prendono parte.»
È questo forse un brano dell'auto-difesa dell'on. De Felice? No: è il brano di un rapporto, che, richiesto da Roma, mandò il Presidente della Camera di Commercio di Palermo, on. Amato-Pojero, senatore del Regno, milionario e grande proprietario di Sicilia!
Se questo si scriveva alla vigilia dei tumulti, quando essi scoppiarono e n'erano meglio note le cause, altri aggiungeva:
«Tolte le grandi città, ove la moralità e la capacità degli amministratori sono men basse, e dove il maggiore sviluppo psichico della popolazione e la stampa sono freni alle oligarchie locali e favoriscono la permeabilità degli strati sociali, il 90% dei Comuni è amministrato con criteri e forme tali, che fanno desiderare il tipo dell'antico governo paterno, perchè allora si aveva almeno il diritto d'inchiodar sulla gogna i tirannelli locali, il conforto e la speranza di un avvenire migliore e, di tanto in tanto, l'intervento violento, ma pur sempre riparatore, del governo centrale»..... I tirannelli locali ora «sentono e sanno che i funzionari del governo non hanno nè convenienza nè interesse a secondarli, ed allora con la logica spiccia e primitiva di cui si servono, concludono: Chi non è con noi, è contro di noi; e attaccano con sotterfugi, ricorsi, cospirazioni e anonimi tutti i funzionari governativi, dalla guardia di pubblica sicurezza al Prefetto. Della legge e della legalità hanno un concetto esclusivamente unilaterale; le riconoscono e vi fanno ricorso solo in quanto sanzionano il loro potere; per tutto il resto o non esistono o le si possono violare impunemente. Per sostenersi e per combattere gli avversarî si profondono favori, impieghi, esenzioni da tasse e protezioni d'ogni specie e d'ogni portata agli aderenti, e si fa l'opposto con gli avversari. Si transige con facinorosi e con violenti, ai quali è serbato sempre un impiego sul bilancio comunale, protezione illimitata fino al Tribunale; e però appena un partito sale al palazzo comunale fa tabula rasa di tutti gli stipendiati e li sostituisce coi propri fidi. Per gli avversari invece s'imprende una persecuzione continua, evidente, spesso sfacciata e feroce, fino al delitto, fino all'omicidio. E si pretende che i funzionari del governo seguano questo indirizzo. Per gli amici il permesso d'armi, il proscioglimento dall'ammonizione, l'impunità nel delitto: pei nemici il rifiuto costante di tutto quanto è devoluto alla Autorità amministrativa, la denunzia per l'ammonizione e perfino l'accusa dei reati che invece sono stati commessi dagli aderenti63 degli stessi denunzianti. Il delegato, il pretore, il sottoprefetto non seguono questo indirizzo? Ed allora spuntano le testimonianze ad usum delphini a discolpa del reo amico, a carico per l'avversario innocente; pullulano ricorsi anonimi che dipingono il funzionario coi più foschi colori: secondo il bisogno e l'opportunità egli è stupido o maligno, ignorante o corrotto, prepotente o partigiano, venale o servile, e chi più ne ha, più ne metta...»
«Nei comuni certo è che vi dominano l'incompetenza più goffa e la prepotenza più sfacciata, che per contraccolpo vi producono la paura, la sofferenza64, i rancori sordi delle masse, il disgusto e l'astensione dei buoni: fatto quest'ultimo che rende più sicura e sfrenata la prepotenza delle cricche imperanti.»
Si crederà forse che questa filippica faccia parte di una concitata concione di Garibaldi Bosco? Niente affatto: fu scritta dall'Alongi, capo di gabinetto del famigerato questore Lucchese, per combattere i Fasci nel Manuale della Pubblica sicurezza del chiarissimo consigliere di Stato Commendatore Astengo.
Certo era facile ingannarsi o esagerare; era facile manifestare simpatia pei sofferenti prima e durante i tumulti; ma dopo? Ebbene, dopo, si constata:
1) Che le condizioni dell'oggi non sono la conseguenza di fenomeni del tutto recenti; ma hanno la loro origine in un complesso di fatti e di tradizioni e di avvenimenti che rimontano ad epoche non vicine.
2) Che sono ormai la bellezza di diciotto anni che un'inchiesta parlamentare constatò inutilmente lo stato vero dei contadini in Sicilia.
3) Che il contadino siciliano, è perseverante, sobrio, laborioso, ma nello stesso tempo lo si è tenuto in un stato di semibarbarie.
4) Che il contadino siciliano anche dopo conquistata la libertà e la redenzione, rimase nella condizione di servo ed oppresso e la posizione sua verso il padrone è quella di vassallo a feudatario.
5) Che gli enormi latifondi, l'accentramento di vastissimi terreni in mano di pochi e le oligarchie comunali che non sempre s'inspirano a giustizia, e sovra tutto i contratti agricoli aggravano questo stato di cose.
6) Che è opera altamente meritoria cercare in tutti i modi di mettere le classi agricole in condizione di resistere alle prepotenze dei padroni.
Queste si crederebbero opinioni calunniose dell'anarchico Gulì e invece sono le convinzioni del Comm. Sighele, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, manifestate nella inaugurazione dell'anno giuridico 1894.
Un'ultima testimonianza: Il 4 gennaio 1894 contemporaneamente alla proclamazione dello stato di assedio, e quasi a severa condanna dell'insana misura, vi fu chi disse in Palermo sotto gli occhi del Generale Morra di Lavriano e della Montà: «In questo nostro paese eminentemente agricolo, la classe dei contadini in particolare, difetta dei mezzi più necessarî alla vita; è la classe più bistrattata, la meno compassionata, la più misera, la più ignorante e la più degna quindi di speciale considerazione da parte degli uomini di cuore!»
Oh no! Non è Nicola Barbato, l'uomo dalla logica spietata, che così parla; ma è il procuratore Generale presso la Corte di Cassazione di Palermo, Giuseppe Malato Fardella, che col primo non ha di comune che la sua qualità di Siciliano, e che dà ragione dello insorgere dei contadini, e somministra l'ultima prova di questa dolorosa verità: in Sicilia dal 1812 in poi nulla è mutato in quanto alle condizioni economico-sociali della classe dei lavoratori! E allora?....
Per arrestare i numerosi renitenti della leva il governo organizzò delle colonne volanti che percorrevano le campagne. Le gesta militaresche di quell'epoca susciterebbero anche ora, a tanta distanza, la indignazione dei più calmi; e molte ne compì la colonna comandata da un rinnegato, dall'ungherese colonnello Eberhardt, che venne la prima volta in Sicilia con Garibaldi e che fu tra i suoi fucilatori ad Aspromonte. Un tenente Dupuy, Savojardo, comandando una colonna nel territorio delle Petralie si presentò di notte coi suoi uomini in una casina i cui abitatori temendo dei briganti non vollero aprire. Allora il prode militare la circondò di fascine, vi appiccò fuoco e fece morire soffocati i disgraziati, che legittimamente resistettero ai suoi ordini. Con modi uguali i Francesi civilizzarono quelli della Kabilia!]
«Da un passo di Cicerone il quale dice nelle Verrine: Omnis ager siculus decumanus est! Perchè adunque per l'addietro queste terre pagavano le decime a Roma, i canonici si credono eredi dei Cesari e si costituiscono proprietari di quelle prestazioni.» Or bene chi lo crederebbe? La quistione delle decime, che è grave anche in altri punti della Sicilia, nell'anno 1894 non è ancora risoluta e invano si sforza l'on. Gallo per farla risolvere equamente!»
Ciò mentre governa Crispi.....
Pretore, quando sentite che si tira qualche schioppettata non dovete allarmarvi, chè ciò avviene pel pubblico servizio!....
In quanto al pretesto dello scioglimento fu presto trovato: s'imbastì contro il sindaco un processo per un reato comune. Il sindaco ad evitare lo scioglimento si dimise; ma non giovò. Raggiunto l'intento il processo sfumò per inesistenza di reato.
In quanto ai capricciosi mutamenti delle autorità governative per compiacenza verso i deputati o per interessi elettorali del governo ricorderò la provincia di Caltanissetta dove c'è stata una vera ridda di Prefetti: dal 1886 in poi ce ne sono stati una decina tra titolari e reggenti. Molti vi sono mandati in esperimento, come se quella provincia si potesse prestare a farla da corpus vile.
Non riferisco le osservazioni del Comandini nel Corriere della Sera e del Giornale di Sicilia che erano riportate nella 1a edizione, perchè gl'inconvenienti deplorati oramai sono ammessi da tutti: anche da coloro che ne sono gli autori!