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XVI.
LA REPRESSIONE
La serie interminabile delle provocazioni e delle dimostrazioni, illuminata qua e là dal sinistro bagliore degli incendî, ebbe i suoi episodî sanguinosi che meritano una speciale trattazione. Questi episodî rappresentano l'epilogo di una situazione tesa e scabrosa e l'inizio di una repressione, che, a dire il vero, fu quasi sempre incosciente e non preparata direttamente, ma che scattò improvvisa e spontanea, quale risultanza però delle istruzioni generali date, della imprevidenza nello eseguirle, dello eccitamento degli animi di tutti, della paura di essere sopraffatti negli uni, della coscienza del proprio diritto negli altri.
Sangue, e in che misura! era stato versato a Caltavuturo in principio del 1893; sangue si continuò a versare a Serradifalco, a Catenanuova, ad Alcamo; ma dopo alcuni mesi di sosta nello svolgersi della triste cronaca, nessuno si attendeva che si dovesse ricominciarla e continuarla più luttuosa che pel passato!
Ricomincia a Giardinello. Giardinello è un piccolo paese di 800 abitanti. Sul conto dell'amministrazione comunale e del sindaco Caruso le più contraddittorie notizie corsero. Io sento il dovere di dire che persona degna di fede a me assicurò che il Caruso amministrasse paternamente; ed egli stesso in una lettera al Direttore della Tribuna si scagionò con apparenza di verità di molte accuse lanciate contro di lui.
D'altra parte persona non sospetta di tenerezze per la causa dei lavoratori rivelò allo stesso corrispondente della Tribuna che il municipio di Giardinello era una vera e propria Marcita, - termine lombardo adoperato dall'interlocutore - un feudo del Sindaco. Il Fascio, presieduto dal sig. Piazza, aveva chiesto da tempo delle riduzioni di tasse: sul focatico, sulle vetture, sui dazî di consumo; il sindaco aveva promesso di provvedere almeno in parte, ma invece nei nuovi ruoli vi fu maggior rigore e minore equità che nei primi.
La stessa lettera del Sindaco, del resto, suggerisce al temperatissimo Cavalieri osservazioni che suonano biasimo aperto pei criterî amministrativi che si seguono in Sicilia e che vengono addotti a difesa propria dal Sindaco di Giardinello (I Fasci ecc., pagine 30 e 31). Quali che siano le ragioni dell'una parte e dell'altra, la catastrofe, che ne seguì e che commosse l'Italia rimane ingiustificabile ed è tuttora inesplicata.
Il giorno 10 dicembre, domenica, all'uscire dalla messa, nella piazza della chiesa si formò una dimostrazione al grido: Abbasso le tasse e il Municipio, quindi alcuni socî del Fascio andarono dal sindaco per cercare di comporre la faccenda e lo trovarono dinanzi la porta di casa sua; alla richiesta dei dimostranti egli rispose che non ci avevo colpa, che se ne lavava le mani, che la colpa era tutta dei consiglieri e che potevano fare il diavolo a quattro, lui non si sarebbe disturbato per questo.
E dopo avere così consigliato la calma ed evitato un grave pericolo, il sindaco montò le scale che conducevano nel suo studio, e vi rimase lungamente. I dimostranti seguitavano a gridare sotto i balconi del sindaco, il quale a calmare gli spiriti bollenti applicò loro una cura idroterapica buttando molta acqua e fresca su tutte quelle teste riscaldate.
L'effetto della cura fu immediato: la folla non si ribella al brutale trattamento e corre invece - trascinata certo da qualche mestatore - al palazzo municipale, dove, eccitata certo da chi aveva interesse che documenti compromettenti fossero distrutti, comincia la devastazione, l'incendio; e tutti gli armadi, le sedie, i registri sono posti l'uno su l'altro e le fiamme avide, distruggono ogni cosa.
Dopo, i tumultuanti continuarono a percorrere le vie del paese seguendo una donna che portava in alto il ritratto del Re e della Regina.
Appena cominciati i primi disordini, un carabiniere partì per Montelepre a chiamare dei rinforzi ed è falso che contro costui siano stati tirati quattro colpi di fucile andati a vuoto.
Conosciutasi la notizia a Montelepre partivano 5 o 6 carabinieri e 22 bersaglieri comandati dal sottotenente Cimino, alla volta di Giardinello e quivi giunti si disposero a traverso la strada principale tra la casa del sindaco e il Municipio.
La folla impavida, forte forse del talismano che portava, andò incontro ai soldati sempre con lo stesso grido: abbasso le tasse,...... Il sottotenente tenta invano di calmare i dimostranti i quali per l'avanzarsi di quelli che stavan dietro minacciavano di rompere il cordone della truppa. - Fu allora che il sottotenente esclamò: «Allontanatevi o sarò costretto a dare ordine di caricare le armi». I più vicini tornarono indietro, il presidente del Fascio alla contadina che portava il ritratto del re disse: Suruzza, jamuninni vasinnò nni sparanu (sorella, andiamo se no ci sparano). E quando tutto volgeva pel bene, una fucilata sinistramente risuonò. Fu questo il segno dell'eccidio, sparano i soldati, sparano i carabinieri e le grida disperate e i lamenti dei feriti, il pianto di tutti resero lo spettacolo selvaggio e commovente. Anche i poveri soldati spaventati corsero come forsennati per la campagna.
Allora, seminata la via di feriti, la folla uccide il messo comunale che, sogghignando, mostrava il suo compiacimento per tanti caduti.
Chi ordinò il fuoco? donde partì la prima fucilata? Le voci più disparate corsero in proposito, ma il mistero non fu svelato. Il generale Corsi che solo di questa strage fa cenno - forse perchè il suo animo mite rifugge dalle scene di orrore - narra seccamente: «Fu caso, fu disgrazia. Una massa di gente di un pacifico paesello, rumoreggiante, inebbriata della sua audacia medesima, si serra addosso ad un piccolo drappello di soldati, spinta da tergo da chi non vede il pericolo; nessuno comanda il fuoco; ma il fuoco scoppia perchè i soldati stanno per essere travolti. La stampa ne fa gran rumore in Sicilia, in tutta Italia; si scrive che la truppa ha tirato freddamente sopra un popolo festante; non si vuole vedervi altro che una strage d'innocenti. Il governo n'è spaventato.» (Sicilia, p. 322)77.
I morti furono 11, dei 12 feriti portati all'ospedale di Palermo 9 furono dichiarati in pericolo di vita. 5 solamente furono colpiti con palle a mitraglia e gli altri da palle non tirate da militari, vi furono pure uomini feriti da quadretti e migliarini.
A Giardinello, precisamente come a Caltavuturo, le autorità non seppero trovare un colpevole tra coloro che spararono. Ne trovarono bensì a decine tra i poveri contadini che avevano partecipato alla dimostrazione e che si ebbero in pena dal Tribunale militare anni ed anni di reclusione!
Dopo Giardinello, Lercara. Anche qui c'è miseria grande derivante in gran parte dalla crisi zolfifera, anche qui ci sono odî inveterati e feroci tra alcune famiglie che si disputano con tutti i mezzi l'amministrazione comunale, qualcuna delle quali si afferma che abbia soffiato nel fuoco. E il fuoco divampò il 20 Dicembre in una dimostrazione coi ritratti del Re e della Regina al grido di: Abbasso le tasse! Abbasso il Sindaco! Si viene a colluttazione colla forza e rimangono feriti o contusi alcuni uomini della forza, tra i quali il delegato di pubblica sicurezza ed un tenente delle truppe. Durante la notte e all'indomani arrivano altre truppe. - Il sotto prefetto di Termini-Imerese - che arringa il popolo da un balcone durante una nuova dimostrazione seguita da incendi dei posti daziari, da devastazioni e da saccheggi - è male accolto e costretto a scappare. Avviene un'altra colluttazione nella quale vengono uccisi undici cittadini e feriti molti altri! Contro i soldati78 la folla non adoperò che sassi e bastoni.
A Pietraperzia il 1° gennajo 1894 si ripetono gli stessi fatti di Giardinello e di Lercara; le cause sono le stesse: la miseria e il malumore contro il municipio, per le tasse e specialmente pel fuocatico. I partiti locali che si combattono da anni con accanimento si accordarono soltanto nell'accusare i poveri contadini dei quali si osò negare la miseria!
In queste denegazioni fu audacissimo il sindaco Nicoletti, che innanzi al Tribunale militare affermò inesistenti le tasse odiose nel suo paese, e l'amministrazione esemplare, e provvida per i bisogni di tutti. «Sì! - gli rispose con amara ironia un difensore, il capitano Schioppo - tasse non ve ne sono, perchè il fuocatico e il dazio sulla farina non pesano sul popolo; e l'amministrazione comunale è tale modello, che a Pietraperzia si può credere, che si sia avverato il famoso motto di Enrico IV!»
Ivi, come dappertutto, i lavoratori si riuniscono e cominciano a gridare: Viva il Re! abbasso il Sindaco! abbasso le tasse!
Si dice che il Delegato di P. S. e il maresciallo dei carabinieri abbiano invitato la folla a sciogliersi e che siano state fatte le regolari intimazioni, ma che la folla invece di sciogliersi abbia tirato delle fucilate contro i soldati, i quali per legittima difesa risposero facendo fuoco.
Da tutte le mie informazioni, però, mi risultano infondate o alterate tali asserzioni; se i contadini avessero79 fatto fuoco, tra i soldati ci sarebbe stato qualche morto.
Invece otto contadini rimasero uccisi e quindici gravemente feriti. Compiuta la strage, i soldati si rinchiusero nella Chiesa di Santa Maria e il popolo esasperato si dette agli incendi e alla devastazione del Casino dei Galantuomini, del municipio e di altri uffizî pubblici. Questi eccessi della folla, è bene rilevarlo, seguirono e non precedettero la strage.
Il Consiglio, nella massima parte inviso, si dimise. Non mancarono i soliti numerosi arresti. Si afferma che a Pietraperzia il Fascio, di recente formazione e composto di analfabeti, abbia preso parte attiva ai tumulti; ma la verità non si può sapere facilmente perchè non si potè sinora sentire che una sola campana, quella dei più ricchi proprietari. Non ha sonato ancora quella dei lavoratori. Il terrore regnò per parecchio tempo a Pietraperzia e non fu possibile avere esatte notizie.
Settantatre disgraziati furono trascinati al Tribunale militare di Caltanissetta e di essi soli 20 furono assolti; gli altri furono condannati a pene che variano dai 3 ai 21 anni di reclusione. La sentenza fece dolorosissima impressione e fu notato che un colonnello dell'esercito dava pietosamente parole di conforto alle desolate famiglie dei condannati.
Il giorno 2 gennaio è la volta dell'eccidio di Gibellina. Ha qualche cosa di specialmente lugubre; e di esso si avvalsero gli uomini del governo per denigrare il popolo, che in un momento di furore cieco uccise il pretore Casapinta. Ma perchè? quando?
Narriamo. Gibellina conta circa 10,000 abitanti ed è dedita esclusivamente all'agricoltura. Si afferma da molti che vera miseria non vi sia e che vi siano numerosi i piccoli proprietarî - di quella categoria però, che l'on. Damiani paragonò ai proletarî perchè la proprietà di una catapecchia o di un campicello non basta a sfamare. Certo è che la emigrazione vi si accrebbe notevolmente negli ultimi anni; e questo è indizio sicuro di malessere economico. È certo del pari che le tasse comunali, specialmente quella sugli animali e il focatico, vi erano pesanti ed invise e che era grande il risentimento contro le autorità politiche - rappresentate dal delegato di P. S. - per i fatti del 4 novembre narrati avanti. Vi sono i soliti partiti locali, i cui caporioni si odiano reciprocamente; quello al potere, protetto dalla Prefettura di Trapani, qualificato addirittura tirannico, si dice abbia considerato la cassa comunale come lo sfamatoio della propria famiglia e dei propri adepti. Gli oppositori, ricchissimi, si vuole che abbiano soffiato nel fuoco; regalarono una bandiera al Fascio - essi che in fondo sono conservatori - e si rimproverò loro - stranissimo rimprovero! - che dessero agli operai un salario più elevato degli altri.
Questo l'ambiente dove si svolsero i fatti del 2 gennaio.
Da parecchi giorni si buccinava che si doveva fare una dimostrazione contro il municipio: corsero trattative di conciliazione tra i partiti; si cercò dare soddisfazione alla opinione pubblica dal sindaco, accettando alcune delle proposte messe avanti dal Fascio, il cui presidente sig. Palermo si cooperò sempre per mantenere la calma e l'ordine; a quasi tutte le trattative presero parte attiva il capitano Macchi del 37° fanteria, e il pretore Casapinta e la loro fu azione lodevole. Ma ciò che chiedevasi con maggiore insistenza erano le dimissioni del sindaco e del consiglio; cosa che non potevasi ottenere, come disse il capitano, perchè il sindaco di dimissioni non voleva assolutamente saperne!
Nel giorno dell'eccidio il municipio era occupato militarmente e il capitano trovavasi nella sala del Consiglio, mentre la folla appressavasi gridando come sempre: Abbasso il Sindaco! abbasso le tasse! abbasso il consiglio comunale! Erano circa tre mila persone con alla testa la bandiera del Fascio, che fu issata al balcone della casa municipale dov'erano riuniti il Capitano Macchi, il sindaco e molti altri che discutevano sui provvedimenti da prendere.
Ad un tratto comincia il fuoco contro la popolazione inerme: quattordici caddero morti immediatamente. Non vi furono squilli di tromba e i soldati spararono sulla folla a bruciapelo. Il numero dei feriti fu grandissimo e non potè esser mai esattamente constatato perchè tutti si nascosero, sapendosi che anche i feriti gravi venivano arrestati e condotti a Trapani: ad un certo Tramonte fu amputato il braccio nelle prigioni di Trapani e gli si negò di poter rimanere a casa guardato a vista.
Compiuta la strage i soldati - per ordine del Capitano Macchi, che rapidamente discese dalla casa comunale appena sentì le fucilate - si ritirarono, e Gibellina rimase in balía del popolo giustamente esasperato. Fu allora che venne ucciso a sassate ed a bastonate il povero pretore Casapinta, ch'era stimato da tutti e che si era cooperato ad impedire la catastrofe; ma ciò avvenne per isbaglio, gli addebitarono il comando del fuoco, essendo stato scambiato pel delegato di Pubblica Sicurezza, Vincenzo Trani, che alle antiche aveva aggiunto nuove ragioni di odio contro di sè.
Costui fu generosamente ricoverato da un farmacista, e si salvò, fuggendo travestito, dall'ira di quel popolo il quale contro di lui sarebbe forse stato implacabile.
Per alcuni giorni Gibellina rimase assolutamente senza forza e senza autorità; eppure non vennero molestati coloro, che erano considerati come i veri promotori dell'eccidio!
A Gibellina si sa almeno su chi fare ricadere la colpa immediata della catastrofe. Il capitano Macchi allontanò da sè la responsabilità dell'accaduto; e non gliene spetta, poichè è voce generale da nessuno sinora smentita, che il fuoco venne ordinato del delegato di P. S. affacciatosi dal balcone del Municipio. Il luogotenente che in piazza trovavasi alla testa dei 35 soldati credendo che l'ordine fosse partito del capitano comandò il fuoco. Per colmo di odiosità le guardie campestri, ligie al sindaco, nascoste in un campanile vicino - ciò che farebbe supporre una certa premeditazione - tirarono ripetutamente sulla folla.
Quando le autorità governative ripresero possesso del disgraziato paese dove regnava lo squallore, si fecero arresti in massa e si vuole che la maggior parte degli arresti avvenissero nelle file dell'opposizione e su di una lista compilata dal partito che stava al potere.
Dopo tali disgraziati avvenimenti, l'odio e la diffidenza dei contadini contro li cappedda si sono accresciuti in modo terribile; tanto che essi sfuggirono come un leproso un inviato da un comitato di Palermo, che v'era andato a fare un'inchiesta per poter distribuire dei soccorsi alle vittime.
I tumulti di Belmonte-Mezzagno vanno ricordati perchè con un colpo di rivoltella vi venne ferito un soldato, che poco dopo morì, lo Sculli. A questa povera vittima furono fatte solenni onoranze; ma furono consacrati all'infamia i contadini uccisi dai soldati.
Peggio ancora avvenne all'indomani del funesto principio del 1894, a Marineo.
Anche lì avvengono le solite dimostrazioni con leggere colluttazioni con la forza, in una delle quali c'è un solo ferito di baionetta; ma il giorno 3 si ripetono le dimostrazioni e poi che la folla rifiuta di sciogliersi, dopo le intimazioni di legge ed una scarica in aria, la truppa fa fuoco e vengono uccise otto persone sul colpo e dieci muoiono poco dopo per le ferite ricevute. Il numero dei feriti non si può precisare, perchè i più si nascosero: ma dev'essere stato considerevole se proporzionato al numero dei morti.
Il giorno 4 viene proclamato in Sicilia lo stato di assedio: il generale Morra di Lavriano e della Montà assume formalmente i poteri di Regio Commissario straordinario del Re, ch'esercitava di fatto sin dal suo arrivo in Sicilia. Nel manifesto con cui il Regio Commissario straordinario annunziò l'avvenimento, in ultimo era detto che ai contravventori sarebbero stati applicati gli articoli dal 246 al 251 del Codice penale militare. Perchè si possa giudicare della opportunità dell'applicazione è bene si sappia che tali articoli considerano i casi in cui... il territorio del regno è invaso da truppe nemiche!
All'indomani della proclamazione dello stato di assedio si chiude la serie dei massacri con quello di Santa Caterina Villarmosa.
Ivi, tra i due partiti municipali da gran tempo non c'era buon sangue; la miseria tra i contadini, - il paese è essenzialmente agricolo - era grande; un Fascio vi si era costituito, nel quale per dissidi tra coloro che lo dirigevano, al momento della catastrofe nessuno esercitava una influenza, perchè erano dimissionari da parecchi giorni il segretario e il vice-presidente, ed era assente da tempo il presidente; il Fascio rappresentava un vero corpo senza capo. E la catastrofe avvenne terribile e inattesa, come m'assicurarono il sindaco e il capo del partito contrario.
Il giorno cinque è certo che ancora non era stata annunziata ai cittadini di Santa Caterina Villarmosa la proclamazione dello stato di assedio; nè c'è da meravigliarsene perchè poche ore si può dire ch'erano trascorse dalla comunicazione. Fu lo stesso Comando dei Carabinieri, che dichiarò che nessuno aveva visto il manifesto; ciò risultò anche dal processo svoltosi innanzi al Tribunale militare di Caltanissetta. Se fosse stata annunziata e spiegata bene ai poveri contadini la misura, probabilmente essi avrebbero tenuto diverso contegno. Ma quantunque essi tutto ignorassero non si creda che abbiano trasceso, come in tanti altri punti. Tutt'altro. Il giorno 5, infatti, non si trattò che di questo: una folla enorme percorreva il paese - con una bandiera sormontata dai ritratti del Re, della Regina e da un crocefisso, - gridando: viva il Re! abbasso le tasse! Non ci furono incendi, non ci furono devastazioni nè in uffici pubblici, nè in case e magazzini privati; non si assaltò il municipio e molto meno si potevano assaltare i casotti del dazio - come annunziarono telegrammi uffiziali con impudente menzogna - i quali non esistevano! Le autorità che avevano avuto sentore della dimostrazione avevano chiesto ed ottenuto rinforzi da Caltanissetta, otto soldati ed un tenente dei carabinieri, che uniti ai quattro carabinieri ch'erano di stazione formarono un totale di tredici uomini!
Il tenente dei carabinieri, Colleoni, pensò che l'autorità doveva rimanere alla forza e fece mostra di tutte le sue attitudini strategiche impostando i suoi dodici uomini nella strada che fronteggiava la grande piazza Garibaldi, d'onde dovevano passare i pacifici dimostranti. Quando questi pervennero nella piazza e vi si pigiarono in modo da non potersi muovere, il tenente dei carabinieri intimò alla folla di sciogliersi e fece suonare i tre squilli. Fra il secondo e il terzo, un maestro di scuola, il Capra, esortò il popolo a sciogliersi; ma il popolo credendo di non violare alcuna legge protestando contro i balzelli, e incorato con particolarità da alcune donne ardite, non si mosse se non dopo che il terreno fu seminato di morti e di feriti in seguito alle ripetute scariche ordinate dal tenente dei carabinieri. Quando la piazza venne sgombrata, per molte ore rimasero abbandonati al suolo gli undici morti e i più gravemente feriti - donne, uomini, vecchi e bambini - in mezzo alle pozze di sangue!
E adesso poche altre osservazioni. Come i telegrammi ufficiali mentirono nel dare i particolari della dimostrazione cui attribuirono atti non commessi, così evidentemente mentirono nel dare alcune notizie che volevano lasciar comprendere esservi stata da parte del popolo prima l'aggressione e poi la resistenza, fosse anche una larva. Si parlò di un colpo di rivoltella tirata contro il maresciallo dei carabinieri, ma il colpo fortunatamente non partì; e se partì, quantunque a bruciapelo,... non ferì; si parlò di una coltellata contro un soldato, ma fortunatamente la lama non arrivò alle carni; si parlò di sassi scagliati contro la truppa, ma fortunatamente non un soldato venne colpito!...
E poi, la rivoltella non fu trovata; i carabinieri sequestrarono solo un'accetta... senza padrone.
Cose queste, che furono anche constatate dai corrispondenti della Tribuna e del Resto del Carlino, andati sul luogo.
La narrazione fatta dal tenente Colleoni innanzi al Tribunale militare esclude tutte le calunniose notizie ufficiali divulgate sul contegno dei poveri contadini di Santa Caterina. Egli, a domanda del Presidente Colonnello Orsini rispose: «avere ordinato il fuoco perchè aveva acquistato il concetto preciso dell'aggressione che voleva fare la folla dalle parole di un certo Manzoni e dalle armi intraviste sotto i vestiti dei dimostranti...»
Non mettiamo in dubbio la vista lincea di quell'ufficiale, ma è giusto riferire le parole di fuoco del Manzoni; questi disse al Colleoni: fate ritirare la truppa e la folla colle buone si disperderà.
Lo stesso Colleoni confessò che prima che la truppa facesse fuoco non ci furono nè pietrate, nè colluttazioni... Se qualche sasso fosse volato dopo le ripetute scariche, quando il suolo era seminato di morti e di feriti, chi oserebbe maravigliarsene e condannare?
Ancora: nel processo, come capo temibile della sommossa venne designato il contadino La Placa, cui si rivolse la particolare accusa di avere strappato la baionetta al Maresciallo dei Carabinieri in una colluttazione corpo a corpo. Ebbene il terribile ribelle ricevette due ferite alle spalle in quella colluttazione; sicchè riferendosi alla topografia di tali ferite e al momento in cui il maresciallo asseriva avergliele inferte, il La Placa ingenuamente osservava: Le braccia l'uomo le ha davanti o di dietro?
La folla aveva tante intenzioni ostili - ed era composta da migliaia di persone! - che dette tempo al suddetto maresciallo di ricaricare la rivoltella per freddare il contadino che a bruciapelo gli aveva tirato un colpo di pistola... Oh! con quanto rigore di logica semplice e irresistibile a chi parlava di fucilate tirate dal popolo, un contadino dalla gabbia esclamò: signor Presidente, i nostri fucili ammazzano! E non uno dei tredici soldati fu ammazzato...
E della ferocia e delle cattive intenzioni del popolo si ebbe altra prova luminosa. Il maresciallo quando non ebbe più cartucce, credette bene di ricoverarsi in una casa che vide aperta; ivi una trentina di contadini eransi ricoverati per isfuggire al massacro. Lo ebbero in mano inerme, trenta contro uno, e non gli torsero un capello e l'accolsero!
A Benedetto Salemi, che all'indomani della strage lo interrogò su questo particolare, il maresciallo rispose: Erano tanto impauriti!
«Fosse stato anche vero, osservò il Salemi, che una trentina di uomini pravi, feroci (come venivano designati) avessero avuto paura di uno disarmato..., ma era quella la risposta di un soldato italiano? dire vili a degli onesti, che virilmente gli avevano regalato la vita!»
Il Salemi, nel Siciliano, de' 9 e 10 gennaio 1894, fece un'esatta e commovente descrizione dei casi di Santa Caterina. Dalla quale, mi piace di riportare il luogo seguente, dove egli narra la sua visita al cimitero.
«Si va al cimitero per una via che sale leggermente ad un colle.
«Nel piccolo campo dei morti, a sinistra, stavano schierate le casse che serrano i poveri uccisi. Ce n'era una, grande: una vecchia barella tinta di grigio con due larghe fasce di nero che s'incrociavano.
«Il custode, levato una grossa pietra da su il coperchio, lo sollevò.
«Nella vecchia barella avevano messo due cadaveri: uno su l'altro: uno con la faccia sotto i piedi dell'altro! Sopra, stava un ragazzo; era morto dopo una lunga agonia e aveva gli occhi a pena socchiusi, e sul viso profilato ancora un'espressione di angoscia. L'altro era un uomo, con un po' di barba sotto il mento. Aveva i grandi occhi neri sbarrati: era morto nel vigor della vita, fulminato, e quegli occhi vitrei che dal corpo supino guardavano il cielo, pareva invocassero, ancora morti, il Cielo: pareva che quello sguardo, con una serenità lunga di eroe, dicesse: «O Signore, Signore! vedete....»
«Dopo altre casse, fatte di tavole bianche, ce n'era una, piccola, foderata di roba celeste; povera roba ma immacolata.
«Io volli vedere l'innocente piccola vittima che forse non aveva nemmeno gridato! e pregai il custode di schiodare la cassa.
«La bambina era grande per i suoi nove anni. Giaceva, con la testina un po' volta da un lato e le braccia distese lungo i fianchi. Non aveva ancora la rigidità della morte e la sua faccia era rossa, e sulla bocca, coperta di bava, colava dal naso una schiuma sanguigna che gorgogliava ancora, a intervalli che pareva avessero la regolarità del respiro.
« - Viva?... - e ripose il coperchio.
«Oh era morta davvero, povera bimba ricciuta! Era morta davvero, misera madre derelitta, ora! povera madre straziata che nella disperazione della sua pena ebbe pure la forza di rivestire il cadavere della sua creatura; di chiudere gli occhi alla sua bimba morta; di foderare di roba celeste la cassa nella quale dovevano chiudere, per sempre, la figlia sua uccisa; nella quale dovevano portarle via, per sempre, la figlia sua perduta!»
All'indomani della strage, come dappertutto, la forza arrivò numerosa, si procedette a centinaia di arresti, altre centinaia di contadini presero il largo e la simpatica cittadina rimase squallida e terrorizzata.
Ed ora riassumiamo. Durante il 1893 e i primi giorni del 1894, nei tumulti e nelle dimostrazioni di Sicilia cadde - ucciso dal popolo - un solo soldato: lo Sculli.
tredici popolani a Caltavuturo,
due a Serradifalco
uno ad Alcamo,
otto a Pietraperzia,
quattordici a Santa Caterina Villarmosa;
in tutto furono uccisi novantadue liberi cittadini per un solo soldato.
Questo lugubre riassunto dev'essere completato da altri tristi episodî. Il governo italiano che non seppe prevenire, che non si dette il menomo pensiero di una situazione tragica, dispiegò tutta la sua sapienza nel ricompensare i disgraziati - voglio essere benevolo nel qualificarli - protagonisti della repressione. Premiò il delegato di Pubblica Sicurezza che fece uccidere in Serradifalco due operai che invocavano il rispetto della legge elettorale; premiò il delegato di P. S. di Racalmuto per la prudenza mostrata nel nascondersi il 1. novembre; premiò il delegato di P. S. di Gibellina! per la splendida attitudine ai travestimenti rivelata nei sottrarsi ai pericoli creati per colpa sua; premiò il tenente Colleoni - e lo lasciò per sei lunghi mesi sul luogo delle sue gesta eroiche - per la vista lincea mercè la quale intravide le armi sotto i vestiti dei contadini di Santa Caterina Villarmosa!
Di fronte a tali e tante ricompense come non esser compresi di ammirazione per Matteo Imbriani, che in un momento di santa indignazione si sente disonorato dalle medaglie guadagnatesi in battaglia contro gli austriaci, e in piena Camera dichiara di volerle buttare in faccia al governo italiano?
Egli dovette certo, in quel momento, ricordarsi che Roma negò il trionfo a Pompeo, vincitore di Spartaco, perchè i ribelli non erano nemici stranieri.
E tutto quello non basta; il giorno 8 Febbraio il generale Morra di Lavriano riunì le truppe di Palermo in Piazza Ucciardone e rivolse loro un discorso in cui: rammenta da prima con grande compiacimento alcuni degli ultimi tumulti, specialmente Valguarnera, Belmonte e Santa Caterina, rilevando che da per tutto la folla assalì le truppe e sparò su di esse, (!?) esalta i soldati premiati per gli ultimi avvenimenti e ricorda con onore il valore (!?) dimostrato dai soldati a Santa Caterina; fa l'apoteosi del povero soldato Sculli ucciso a Marineo e glorifica l'opera dei subalterni mirabilmente guidati dai capi dovunque contro di loro si addensava la rivolta!
Il generale Morra di Lavriano terminò la sua eloquente, patriottica e veritiera concione facendo un parallelo tra le vittorie ottenute in Sicilia dai soldati italiani e quella, allora recentissima, ottenuta in Africa ad Agordat, non senza esprimere il rammarico che essi dovevano provare combattendo contro uomini che parlano la stessa loro lingua... E dopo il solito volo lirico all'unità ed a Casa Savoia, al suono della marcia reale, le truppe sfilarono dinanzi al generale ed ai premiati, che erano il Tenente Serra del 27° Fanteria, il caporale Puttini dello stesso reggimento e il carabiniere Profita.
Non mi permetterò alcun commento sulla opportunità politica del parallelo tra le vittorie ottenute in Africa e... in Sicilia; nè sulla convenienza di premiare i valorosi che uccidono inermi italiani.