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XXI.
Il fatto più esorbitante dello Stato di assedio proclamato in Sicilia è nella constituzione dei Tribunali di Guerra ai quali non solo furono sottoposti i civili, ma, con una violazione aperta del diritto lo furono anche per quei reati commessi avanti la stessa proclamazione dello Stato d'assedio. Onde si può dire che quei tribunali servirono come efficacissimo strumento di reazione.
Giova rilevare anzitutto col Brusa che, a uno a uno, i precedenti in fatto di Stato di assedio, nè autorizzavano nè consentivano, in maniera qualsiasi, la manomissione delle leggi, e degli articoli espliciti dello Statuto, per la quale solamente fu possibile la istituzione dei Tribunali militari.
Nello Stato d'assedio proclamato a Genova nel 1849, a Sassari nel 1852, in Sicilia e nel Napoletano nel 1862, in Sicilia nel 1866, non si rinviene cosa alcuna che possa considerarsi come un precedente di quello che si fece nel 1894 in Sicilia e nella Lunigiana.
Le condizioni politiche di Genova, nel 1849, erano talmente gravi ed eccezionali che non si può in nessun modo paragonarle a queste di Sicilia del 1894, eppure all'articolo 9 della regia ordinanza che le impose lo Stato d'assedio era detto: «Continueranno i giudici, i tribunali e i magistrati ad esercitare la loro giurisdizione a seconda delle leggi vigenti, salvo nei reati contro la sicurezza dello Stato ed in quelli per il porto e la ritenzione d'armi, i quali potranno essere giudicati da un Consiglio di guerra, che applicherà le pene portate dal codice penale militare e, nei casi da esso non previsti, quelle stabilite dalle leggi penali comuni.»
Questa prima constatazione vale a priori a dare una idea della esorbitanza del Regio Commissario straordinario che istituì i Tribunali di guerra e della illegittimità dei medesimi. La illegittimità e la incompetenza loro risulta altresì evidente per una serie di ragioni e di osservazioni, che sono costretto a riassumere, non potendo estesamente esporle in un lavoro, che non ha indole giuridica.
I Tribunali militari non potevano conoscere dei reati commessi dai civili, perchè gli articoli 70 e 71 dello Statuto octroyè da Carlo Alberto, esplicitamente stabiliscono: «Non si può derogare alla organizzazione giudiziaria se non in forza di una legge. Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali. Non potranno perciò essere creati tribunali o commissioni straordinarie.»
Il potere esecutivo, dunque, col regio Decreto del 3 Gennaio col quale affidava i pieni poteri al generale Morra di Lavriano non poteva a lui delegare quelle facoltà, che non aveva. Quando il bisogno esista di modificare lo Statuto o di derogare temporaneamente ad alcuna delle sue disposizioni, questa facoltà non competerà certamente al potere esecutivo, il quale nessuna legge può fare o sospendere (art. 6 dello Statuto) e molto meno può toccare alla legge fondamentale dello Stato (Impallomeni).
Che il potere esecutivo non abbia tale facoltà - ed è evidente che non possa averla in un regime costituzionale - risulta dagli stessi precedenti della nostra storia; infatti esso quando ha sentito bisogno di poteri dittatoriali od eccezionali per ragioni di difesa114 esterna e di difesa interna ha chiesto quella facoltà ai parlamenti e l'ha ottenuta con la legge del 2 Agosto 1848, con quella del 25 aprile 1859, con quella del 17 Maggio 1866 per le guerre coll'Austria; con la legge chiamata Pica del 15 Agosto 1863 per la repressione del brigantaggio; con la legge 3 Luglio 1875, non messa in esecuzione, per le condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia. Onde da questi dati si vede che se i Tribunali di guerra furono stabiliti a Genova nel 1849 ed a Palermo nel 1866, essi furono legali, poichè il potere esecutivo si trovava già investito dei pieni poteri in forza delle cennate leggi speciali del 1848 e del 1866.
Nè si obbietti, che quei Tribunali possono diventare legali di fronte a casi straordinarî e impreveduti, perocchè il Codice e la procedura penale hanno preveduto l'avvenimento di fatti che in modo straordinario compromettano l'ordine pubblico e li ha preveduti lo Statuto, il quale vietando alle autorità di ricorrere in questi casi a provvedimenti straordinarî, ha provveduto alla propria incolumità. Si può infatti immaginare, che alcuno pensi a creare Tribunali o Commissioni straordinarie - vietate dall'art. 71 dello Statuto - in tempi normali? (Impallomeni).
La storia dell'art. 6 dello stesso Statuto Albertino, corrobora poi pienamente tale corretta interpretazione. Questo articolo, che vieta al Re di sospendere l'osservanza delle leggi o dispensarne, fu copiato dall'art. 13 della Carta francese del 1830, e questo fu alla sua volta desunto dall'art. 14 della precedente Carta del 1814 ch'era così formulato: «Le roi fait les reglements et les ordonnances nècessaires pour l'execution des lois et la suretè de l'Etat.»
I partigiani dell'assolutismo spinsero Carlo X, con una falsa interpretazione di queste ultime parole, a pubblicare le ordinanze del 25 luglio 1830, che sospesero la libertà della stampa, modificarono la legge elettorale e sciolsero la Camera dei Deputati e provocarono pure la rivoluzione. Col trionfo della rivoluzione rivedendosi la Carta del 1814 nel 1830 furono soppresse le vaghe parole: Sureté de l'Etat e aggiunte le altre: sans pouvoir jamais ni suspendre les lois elles-mêmes, ni dispenser de leur execution, per impedire che rinascesse mai la pretesa di paralizzare con decreti le leggi dello Stato. (Pierantoni).
I pareri dei più eminenti giuristi - e basta ricordare tra questi il Mittermeyer - e degli scrittori politici, anche tra quelli non molto liberali, sono concordi in questa corretta interpretazione sui Tribunali militari e sulla sottrazione dei cittadini ai loro giudici naturali, ma nel caso presente si hanno due giudizi alla cui autorità tutti si devono inchinare.
Uno dei supremi corpi dello Stato, infatti, la Corte dei Conti, da principio si rifiutò di registrare il decreto di proclamazione dello Stato di assedio in Sicilia; poi a sezioni unite lo registrò con riserva con questo scultorio motivato: «Considerato che il provvedimento eccezionale, com'è definito dallo stesso governo, determinato da ragione politica, esce dai confini della legge scritta, dalla quale non trae norma.»
Si poteva, forse, più esplicitamente di così, dichiarare che il decreto del 3 gennajo, con tutte le sue conseguenze - tra le quali la costituzione dei Tribunali di guerra - è stato illegale?
Ma il governo stesso, implicitamente, ha fatto la stessa preziosa confessione; imperocchè esso, dando pienamente ragione agli scrittori Arangio Ruiz, A. Majorana, Vidari, Contuzzi, Brusa, Impallomeni, Pierantoni ecc., che in questa occasione dolorosa sostennero non potersi applicare le disposizioni del Codice penale militare che si riferiscono allo Stato d'assedio guerresco, allo stato di assedio politico o fittizio, sì è accorto della lacuna che esiste nelle nostre leggi - che lacuna non è, ma voluto silenzio a garanzia115 dei diritti dei cittadini consacrati dallo Statuto - e dopo compilato il nuovo codice penale militare mentre era sotto esame della Commissione del Senato, vi ha aggiunto l'articolo 337 bis, che dice: Lo stato di guerra può essere anche dichiarato in caso d'insurrezione o d'imminente pericolo della pace pubblica. Ora se il potere esecutivo aveva già il diritto di equiparare lo stato di assedio guerresco a quello politico, qual bisogno aveva esso di presentare l'articolo aggiuntivo?
A proposito del quale articolo 337 bis, il relatore sul nuovo Codice penale militare, Senatore Costa, osservò:
«Il dubbio che un comandante possa dichiarare lo stato di guerra non deve rimanere nel testo: se mai questa facoltà si volesse ottenere, è necessario escluderla. È116 facoltà sconfinata, che non è giustificata da alcun principio, che non è imposta da alcuna necessità. È sconfinata e pericolosa, perchè pone alla mercè di un comandante d'armi il potere di costituire un regime eccezionale e l'esercizio di un potere eminentemente politico, che al solo governo, sotto il peso della sua responsabilità politica, deve essere riconosciuto.»
Ammesso, dunque, che il nuovo Codice penale militare col suo articolo aggiuntivo, dichiarato sconfinante e pericoloso da un conservatore, partigiano del governo, e suo dipendente anche - perchè il senatore Costa è un alto funzionario dello Stato - venga approvato dal Parlamento e sanzionato dal Re, è certo ch'esso ancora non è legge e finchè ciò non sarà bisognava e bisogna rispettare il diritto vigente. (Brusa) Resta perciò provato che il Regio decreto col quale si proclamò lo Stato di assedio in Sicilia e gli atti consecutivi del Regio Commissario straordinario coi quali s'instituirono i Tribunali di guerra assoggettando ad essi i civili, violano lo Statuto fondamentale del regno e le sue leggi. Nè valgono a dimostrare il contrario le miserevoli argomentazioni degli epigoni dell'on. Crispi, i quali contorcono la storia e la logica con la speranza di giustificarlo dalla grande accusa di avere violato la Costituzione.
Ora uno dei più eminenti scrittori di diritto costituzionale, il monarchico e dinastico prof. Casanova, nota: «un governo costituzionale cessa di esistere tostochè più non esiste la Costituzione: essa non esiste tosto che fu violata. Il governo che la viola lacera il proprio titolo a governare: da questo istante può ben sussistere in virtù della forza, non già in virtù della Costituzione.»
La più mite e legale illazione di questo canone rettissimo di diritto costituzionale la trassero gli on. Prampolini, Badaloni, Ferri, Agnini e Berenini i quali - più rispettosi delle leggi che coloro i quali se ne dicono i custodi - proposero alla Camera dei Deputati di porre in istato di accusa il ministero presieduto dall'on. Crispi, che aveva violato la Costituzione. E in istato di accusa fu messo in Francia nel 1830 il ministero Polignac per avere violato colle ordinanze di luglio la Carta del 1814.
Ma là la rivoluzione era trionfante e in Italia la vittoria era, incontrastata, del potere esecutivo; la Camera dei deputati, quindi, ghignò sul viso ai socialisti che invocarono il rispetto delle leggi e dello Statuto, e s'inchinò reverente dinanzi alla forza trionfante!
Se i Tribunali di guerra erano illegali nella loro origine, la loro istituzione, guardata da un elevato punto di vista, doveva considerarsi come impolitica, nè da essi poteva emanare equanimità di giudicati.
Invero i militari, di fronte ai cittadini che hanno vinto e domato nelle dissensioni civili, non possono essere imparziali, poichè per quanto essi siano leali, per quanto la compagine dell'esercito sia nazionale, è umano che nelle lotte si destino risentimenti e che nel cuore di coloro che si sentirono offesi e rimasero vincitori alberghi il desiderio della vendetta per quanto attenuato e represso da un alto senso del dovere. Di più i militari rappresentano il potere esecutivo contro il quale si levano i ribelli; essi, quindi, sono giudici e parte direttamente interessata nello stesso tempo.
Quest'ordine di considerazioni non è teorico ma ebbe altrove la sua esplicazione pratica e ne venne riconosciuta la giustezza. Ben a ragione il senatore A. Pierantoni ha ricordato che la quistione non è nuova nella storia delle guerre civili e che il caso del maresciallo Ney avrebbe dovuto servire di esempio e di ammaestramento.
«Quando Napoleone dall'isola d'Elba sbarcò nel golfo di Iuan ai 5 marzo 1815, per riprendere l'impero della Francia, il maresciallo Ney fu scelto dal re Luigi XVIII per tagliare la via della capitale all'insensato perturbatore della pubblica quiete.
Ney, impotente a trattenere le onde del mare, tornò alla causa di Napoleone.
«Dopo la battaglia di Waterloo e la seconda abdicazione di Napoleone, Luigi XVIII volle deferire ai consigli di guerra i colpevoli di aver tradito il re prima del 23 marzo, e di avere attaccata la Francia e il suo governo a mano armata. Con ordinanza del 24 luglio mandò Ney, Cambronne ed altri ai giudici militari. Il maresciallo fu difeso da Berryer, padre, che sostenne l'incompetenza del Consiglio di guerra. Queste furono le ragioni sostenute: il giudizio su preteso crimine di Stato non essere domandato ad un Consiglio di guerra. Il sovrano, capo dell'esercito, si osservò, non poteva pronunziare in causa propria, per giudizio dei suoi ufficiali. L'articolo 33 della Costituzione affidava alla Camera dei Pari la procedura per i crimini di alto tradimento. Gli articoli 62 e 63 vietavano di sottrarre un prevenuto ai suoi giudici naturali. Il re per un altro117 articolo del Patto costituzionale stretto con la nazione aveva renunziata la potestà di creare tribunali straordinari. Il Consiglio di guerra si dichiarò incompetente con la maggioranza di cinque voti contro due. Il maresciallo fu giudicato e condannato dalla Camera dei Pari.»
Ma questi timori si sono mostrati vani e infondati nel caso disgraziato, che esaminiamo? Questo sarebbe stato certamente l'ardente desiderio di ogni italiano; ma pur troppo i fatti corrisposero alle sinistre previsioni e il Brusa, temperatissimo uomo e alieno dalle lotte politiche, è stato costretto di fronte alle sentenze dei Tribunali di guerra ad esclamare: À la guerre comme à la guerre! e: «odio o vendetta entrano soltanto in iscena quando al Te Deum laudamus si mesce il Vae victis.»
L'ordine venne ristabilito in Sicilia e i vincitori poterono ringraziare Iddio; l'odio e la vendetta hanno fatto il resto a danno dei vinti!
Dopo la quistione della legalità e della presunta ingiustizia dei giudizi dei Tribunali di guerra, quella della retroattività della loro competenza è la più importante. E su questo terreno non solo furono violate le leggi e i principî più inconcussi del diritto, ma si riuscì anche alle più manifeste contraddizioni nelle dichiarazioni e negli atti dei Regi Commissarî straordinarî in Sicilia e in Lunigiana.
In ordine a queste contraddizioni sta che il generale Morra di Lavriano negli editti dell'8 e del 20 gennaio 1894 - coi quali veniva istituita la giurisdizione straordinaria dei Tribunali di guerra in Sicilia - disse: «saranno deferiti al giudizio del Tribunale di guerra ecc. ecc.»; dunque previde reati che nel futuro dovevano essere deferiti al Tribunale di guerra, non reati dei quali il Tribunale avesse l'obbligo di prender cognizione al momento della promulgazione dell'editto. (Impallomeni). Più esplicito era stato il generale Heusch in Lunigiana. In seguito al decreto del 17 gennaio, che istituiva la giustizia marziale vi fu la circolare del 20 che ad essa attribuiva la competenza pei reati commessi dopo la proclamazione dello Stato di assedio. Ma il Tribunale penale di Massa e Carrara dichiara la propria incompetenza nella causa Molinari e il 25 lo stesso generale Heusch con altra circolare annulla quella del 20 e proclama la retroattività! Il Generale Morra di Lavriano, più furbo, non constatò la propria contraddizione, ma non vi sfuggì.
Che cosa pensare di queste contraddizioni stridenti? «Legge e stabilità o identità di pensiero legislativo sono termini, che si richiamano a vicenda indissolubilmente. Volere e disvolere a un tempo, cioè a distanza di soli cinque giorni, sarà consentito, e richiesto forse, nell'ordine interno degli ufficî amministrativi, e le circolari interne così talora fanno. Ma la maggiore offesa, che possa recarsi ad un legislatore - e lo erano i due Regi Commissarî straordinarî di Sicilia e di Lunigiana - sarebbe proprio quella di ritenerlo capace di fare egli pure altrettanto, e segnatamente di prevalersi di semplici circolari, cioè di atti inefficaci, per determinare, se già non fossero determinati, o per alterare poi, rapporti giuridici, precisamente affine di determinarli o di alterarli.»
«Sarebbe poi assurdo e barbaro, perchè niente vi ha di più contradittorio in sè e contrario alle norme di giustizia, che l'apprestare agli abitanti le garenzie maggiori dalle sorprese terribili di una repressione straordinaria ed eccezionale durante il tempo più calamitoso della guerra vera, per riservarne di minori ed insufficienti durante quello di un semplice così detto stato d'assedio politico fittizio: vale a dire quando appunto la coesistenza dei rapporti generali del tempo di pace, tuttora rimasti, rende sopratutto necessario avvertire bene che si applicheranno, e in quale misura, anche norme eccezionali proprie solo dello stato di guerra.» Così il prof. Brusa.
A parte questa contraddizione tra gli atti e le dichiarazioni dei Regî Commissarî straordinarî, resta pur sempre che la retroattività è violatrice delle nostre leggi e dei principî del nostro diritto. L'articolo 2° delle disposizioni generali premesse al Codice civile consacra il canone supremo della irretroattività delle leggi; ed in proposito giova ricordare che nella discussione della Commissione generale per la revisione dei Codici nel 1865 si fece cancellare un inciso che c'era nel progetto presentato dal Ministero in cui si accennava al caso in cui la si potesse ammettere quando la legge così espressamente disponga.
Il senatore De Foresta ritenne indecoroso per l'Italia che una sua legge potesse ammettere la retroattività; e l'on. Bonacci aggiunse che «sarebbe sconveniente e quasi scandaloso il ricordare tale eccezione nel nuovo Codice italiano, perchè si potrebbero così ridestare le tristissime memorie dei caduti governi della penisola, che violavano tante volte per mire politiche il sacrosanto principio della non retroattività delle leggi.»
Adesso, i governi caduti, on. Bonacci, sono stati riabilitati dal governo italiano che il principio ha impunemente violato precisamente per mire politiche, a malgrado che per pudore, trent'anni or sono, i nostri giureconsulti non abbiano voluto ammettere nemmeno la possibilità che ciò si potesse fare anche in forza di una legge!
Non si danno per vinti i tristi difensori dell'arbitrio sfrenato e della prepotenza militaresca, e facendosi forti anche del parere del Carrara, - che pur si sa quanto avversasse la ingerenza del potere politico nelle cose della giustizia - e di altri eminenti giureconsulti, non esitano a dire che il principio della non retroattività delle leggi non è applicabile alla procedura e alla competenza «a quelle leggi cioè, che stabiliscono le forme dei giudizî e la ripartizione della giurisdizione tra i varî magistrati in quanto questa ripartizione ha tratto colle forme del giudizio.» (Muratori e Giannini). Ma la giustificazione cade quando si riflette, che questa limitata retroattività nella procedura e nella competenza si può invocare ed è stata invocata quando ad una giurisdizione ordinaria si è sostituita un'altra giurisdizione ordinaria e non quando se ne sostituisce una straordinaria ed eccezionale, poichè precisamente in questo caso intervengono le ragioni accennate, che a guarentigia vietano l'impero retroattivo della legge, per la necessità118 che la nuova legge sia posta al disopra di ogni sospetto di mire politiche retrospettive.
E la retroattività anche in questi casi è da respingersi, perchè oltre che gli accusati si trovano dinanzi a giudici non legittimi e contro di loro prevenuti ed animati del sentimento della vendetta, essi pel fatto di vedersi sottoposti ad una giurisdizione straordinaria vengono già privati di importanti garanzie di cui avrebbero goduto colla giurisdizione ordinaria. «Difatti, mentre coloro, che sono accusati in Corte d'assise sono stati prima giudicati in Sezione d'accusa, ed hanno quindi potuto presso la medesima difendersi, gli accusati in Tribunale di Guerra non hanno potuto fruire di questo vantaggio. In secondo luogo il loro diritto di difesa presso i Tribunali di Guerra è stato in fatto limitato, benchè per falsa applicazione di legge, perciò che non è stato loro riconosciuto il diritto di scegliersi un difensore civile. E un terzo motivo di disfavore verrebbe da ciò che il diritto di ricorrere in Cassazione sarebbe limitato ai vizî d'incompetenza e di eccesso di potere.» (Impallomeni).
Laonde saviamente il citato prof. Casanova a proposito della non retroattività delle leggi in materia di competenza sancita dallo Statuto aggiunge che «anche il concorso di tutti i poteri dello Stato non potrebbe sottrarre un cittadino ai giudici che le leggi esistenti gli accordano, e tramandarlo innanzi ad un tribunale straordinario, creato dopo che avvenne il fatto per cui si vuole procedere... La violazione delle forme prescritte, ordinata dai mandatarî del popolo non è più legittima del linciaggio. È un assassinio per procura.»
Per tali motivi molti codici penali stranieri - il bavarese e l'austriaco tra gli altri - esplicitamente escludono la retroattività nel caso di costituzione di un Tribunale straordinario, in conformità del parere di eminenti giureconsulti (Kleinschrod, Zachariae, Berner, Odilon Barrot, Glaser ecc.) e di sentenze dei Tribunali e della Cassazione di Francia.
Nulla di più vergognoso alla nuova Italia di ciò che, violando, hanno voluto operare i suoi governanti in questa occasione.
Il prof. Brusa con profonda amarezza rileva che l'Austria, nelle sue repressioni dei moti nazionali del Lombardo-Veneto - moti che dovevano essere liberali - non applicò mai il giudizio statario ai fatti anteriori alla sua proclamazione. L'Austria maestra di libertà e di rispetto delle leggi all'Italia di G. Mazzini e di G. Garibaldi: ecco una cosa, che parrebbe assolutamente impossibile se non fosse vera!
Oh che fremiti di vergogna voi avreste, poveri grandi martiri, che deste il sangue e consacraste la vita alla patria Italiana per vederla, o appena sperarla, libera dallo straniero! quali mai impeti d'ira i vostri, se poteste sapere quanto la terza Italia, che dicono libera, è al di sotto dell'abborrito impero Austriaco per tutto quello che risguarda le disposizioni e le forme del giudizio statario!
Per tutti gli infiniti vostri sacrifici voi vi sentireste traditi.
Non ultima delle enormità dei processi che si perpetrarono dinanzi ai Tribunali di guerra fu la negata difesa civile agli imputati. I Tribunali di guerra con interpretazione grettamente farisaica del Codice penale militare respinsero in tutti i casi la istanza degli imputati per la libera scelta di un difensore tra gli avvocati esercenti: poggiando le loro decisioni sull'articolo 544 di detto Codice che consente all'imputato di potere scegliere il difensore fra gli uffiziali presenti, che non abbiano un grado maggiore a quello di capitano.
Si lasci da parte il fatto che viene diminuita sostanzialmente la difesa che i nostri Codici vogliono affidata a persona capace - e i militari, per quanto valorosi in guerra e competenti nella loro arte, non potranno mai dirsi persone capaci nelle quistioni di diritto e nello esercizio della avvocatura - ma colla interpretazione data col citato articolo si è violato lo spirito e la lettera della legge.
Il legislatore ha disposto e statuito in vista della guerra, e si comprende che mentre l'esercito è in campagna non è possibile rispettare tutte le forme procedurali e che molte volte, perciò, tutto è rimesso alle circostanze del momento; per questo motivo non nel solo articolo 544 si adoperano frasi, che indicano la intenzione che si faccia il possibile (l'imputato potrà scegliere il suo difensore fra gli uffiziali presenti ecc.), ma anche nell'art. 545 vien detto che gli uffiziali istruttori, l'avvocato fiscale ed il segretario potranno scegliersi fra i militari, secondo le circostanze. La chiarissima intenzione del legislatore, infine, emerge, dall'art. 551 dello stesso Codice penale militare, che stabilisce: «Innanzi i tribunali militari, in tempo di guerra, si osserveranno, per quanto sarà possibile, le regole di procedura stabilite pel tempo di pace...» E in tempo di pace gl'imputati innanzi i Tribunali militari hanno il diritto di scegliersi il difensore tra gli avvocati esercenti.
Si vorrà forse dire che le circostanze erano tali che non resero possibile il rispetto delle procedure stabilite in tempo di pace?
Infatti,... i più valorosi avvocati della Sicilia e d'Italia si erano offerti a costituire il collegio della difesa. È facile che anche appunto per questo si volle essere esclusivamente brutali nello arbitrio, menomando il diritto di difesa agli imputati politici. Onde, bene e a proposito il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Palermo, protestò energicamente - a proposta dell'avv. Vittorio Palmeri - contro l'iniqua decisione del Tribunale di guerra.
Ed anche su questo riguardo ricorrono alla mente i paragoni che suggeriscono assai malinconiche riflessioni. Gli eroici difensori di Casa Ajani nel 1867 in Roma - governando il Papa sotto la protezione dell'esercito imperiale francese - ebbero concessi gli avvocati civili per la difesa; e pure la tirannide borbonica rispettò in Napoli e Sicilia questo sacrosanto diritto della difesa al 1821, al 1831, al 1850, al 1858, al 1860, nel processo di Nicolò Garzilli, in quello contro Poerio, Settembrini ecc., nell'altro delle tredici vittime, sempre! L'accusa di aver negata la difesa civile agl'imputati di reato politico, mossa da Gladstone nelle famose lettere in cui chiamò negazione di Dio il governo Borbonico, parve a quest'ultimo tanto disonorante, osserva l'Impallomeni, che esso fece pubblicare una memoria dove in risposta al grande statista inglese si mostrava che l'accusa non era fondata e si concludeva: «Con fatti così bugiardi no, non poteasi mai preoccupare la pubblica opinione, e meno spargere la credenza che pessimamente nelle due Sicilie si amministri la giustizia.»
Ma dunque? Eh! dunque, - ciò che non fece il vituperato governo borbonico venne consumato dal governo liberatore e restauratore, che ebbe, però, rispetto della legge pei briganti del napoletano; ai quali si ebbe premura di accordare la difesa civile, negata ora, ai socialisti di Sicilia e della Lunigiana...
Sulle mostruose conseguenze pratiche di questa violazione del diritto di difesa non occorre insistere, basta accennare soltanto che spesse volte i Presidenti dei Tribunali di guerra imposero silenzio o comandarono di non insistere agli ufficiali difensori; i quali in omaggio alla disciplina militare dovettero sottomettersi ed ubbidire!
I militari adibiti nei vari processi mostrarono attitudini oratorie, ebbero un contegno superiore ad ogni elogio, mostrarono intelligenza non comune ed altrettanto coraggio. Essi difesero gli accusati a loro affidati con tutto l'affetto possibile; e tra tutti maggiormente si distinse un capitano di artiglieria simpatico e calvo - Francesco Piccoli. A tutti va una parola di lode e di gratitudine, viva e sincera.
Il fatto, considerato poi dal punto vista degli interessi di casta e del governo, fu grave errore politico, poichè non riuscì ad altro, che a fare penetrare il socialismo nelle fila della più balda ed intelligente ufficialità dell'esercito.
Mentre si manomettevano Statuto e codici, pur di sottrarre gl'imputati di reati politici ai loro giudici naturali ed ottenere la loro sicura e draconiana condanna non si osservavano altre regole essenziali di procedura nei processi e si riusciva ad un vero caos sotto un altro riguardo, sebbene non a danno degli accusati.
Perocchè in tutti i processi politici svoltosi innanzi i Tribunali di guerra della Sicilia «la giurisdizione loro non fu provocata dell'autorità competente; 1° perchè per gli articoli 552-556 del Codice penale militare per l'Esercito l'ordine di procedere doveva emanare - e non emanò - dall'autorità militare superiore presso cui esiste il Tribunale; 2° perchè per l'articolo 544 l'atto di accusa doveva essere formulato dall'avvocato fiscale militare e si fece invece consistere nella ordinanza delle Camere di Consiglio, con cui queste dichiaravano la incompetenza del magistrato ordinario, cioè la propria.»
«Vi fu dunque un processo ma non un procedimento penale non essendo stata l'azione penale promossa dall'autorità militare competente; vi fu un'accusa, ma non un atto di accusa essendovi state in suo luogo l'ordinanza delle Camere di Consiglio. Chi dunque provocò la giurisdizione dei Tribunali militari di guerra? Nessuno, perchè l'autorità incompetente non ha che l'ufficio di dichiarare la propria incompetenza!»
Come si riparò a tutte queste irregolarità mostruose; come si rispose alla loro denunzia? allegando la circolare del 16 Febbrajo 1894 emessa dal Generale Morra di Lavriano con cui ordinavasi che l'istruttoria doveva farsi dall'autorità ordinaria, l'autorità militare dovesse intervenire solamente per giudicare.» (Impallomeni)119.
Ed ecco fornita la prova che nell'anno di grazia 1894 quando è presidente del Consiglio Francesco Crispi, la circolare di un soldato può derogare alla legge e mutare le forme dei procedimenti!
Si è visto sinora che con la creazione dei Tribunali di guerra in Sicilia, si violarono i Codici e lo Statuto, specialmente per la giurisdizione loro assegnata sui non militari implicati nei moti sociali del 1893 e del 1891; per la retroattività accordata; per la negata difesa di persone capaci, cioè di avvocati esercenti; e per le altre irregolarità dianzi ricordate. Quali che siano stati i vizî capitali della istituzione dei Tribunali di guerra e nella istruzione dei processi, si sarebbe forse riusciti a farli dimenticare quando le sentenze fossero state tali, da potere essere ritenute conformi alle risultanze dei processi - comunque istruiti - e perciò eque.
Disgraziatamente vedendo all'opera questi Tribunali e questi giudici eccezionali - che giudicarono nella causa propria - si è costretti a riconoscere che la loro funzione fu altrettanto deplorevole quanto la loro origine e che gli atti corrisposero al sospetto che si ebbe sin da principio sulla parzialità dei giudici.
Il giudizio è severo, ma rigidamente esatto quale emerge dallo esame della condizione e moralità degli accusatori e dei testimoni e della natura ed origine delle pretese prove di accusa e della enormità delle sentenze e dei criteri ai quali furono ispirate e della riconosciuta innocenza di alcuni condannati.
Accusatori, testimoni ed accusati. - Da una circolare del Generale Morra di Lavriano da accenni e telegrammi dell'on. Crispi, da lettere e telegrammi dei Prefetti e sotto-prefetti nei momenti del pericolo e quando in Sicilia non c'erano ancora truppe a sufficienza, oltre che da quanto sin'ora è stato esposto sulle cause dei moti di Sicilia, emerge luminosamente, che in questi ebbero parte grandissima le ire e gli odî dei partiti locali, gli antagonismi e le lotte amministrative: la partigiana, dissennata e iniqua amministrazione dei municipî, infeudati da anni a consorterie locali, che ne usarono ed abusarono in tutti i modi sotto l'egida di Prefetti e deputati: le prepotenze delle combriccole locali, che, come scrisse l'on. Pantano, appestano l'aria delle città dell'isola nella stessa guisa che la malaria appesta le sue campagne; il desiderio ardente nei vinti di liberarsi dal giogo ed anche di vendicarsi sugli avversari.
Data questa genesi dei moti che dettero luogo ai reati che si dovevano punire, nella istruzione dei processi, se volevansi evitare iniquità, sfogo di passioni ignobili e vendette atroci dovevasi diffidare delle testimonianze di coloro ch'erano direttamente in causa e che nemmeno osavano nascondere o attenuare la loro posizione di nemici personali, anzicchè di avversarî politici degli accusati. Questa diffidenza costituiva una indicazione precisa e per la polizia giudiziaria - che raccoglieva gl'indizî e le prove contro gli accusati e procedeva agli arresti dei presunti rei - e per la magistratura che doveva convalidare gli arresti e istruire i processi.
Invece si procedette al rovescio e sovvertendo tutti i criterî istruttorî, che prevalgono nei processi ordinari, si confidò esclusivamente nei partiti locali al potere e nei loro dipendenti diretti. Lo appartenere, anzi, ad un partito avverso a quello dominante costituiva già una presunzione di colpa: e questo criterio mostruoso venne nettamente formulato dal generale Morra di Lavriano in un discorso col compianto on. Cuccia e ridotto al seguente sillogisma: «poichè l'oggetto dei tumulti e delle sedizioni sono stati i municipî, non possono colpirsi gli uomini delle maggioranze imperanti, perchè queste non avrebbero aggredito sè stesse: epperò devono cercarsi gli autori dei fatti deplorati fra quelli delle minoranze».
Se così pensava il Regio Commissario straordinario, conformemente agivano le autorità subordinate. Perciò in un paese della provincia di Trapani si volevano arrestare i 250 firmatarî di una petizione inoltrata nell'estate del 1893 contro la locale amministrazione municipale; in un altro della provincia di Girgenti si arrestano molti socî del Fascio perchè essi erano notoriamente avversarî dell'amministrazione comunale; a Gibellina si arrestano e si processano i Di Lorenzo perchè nella dimostrazione contro il Sindaco erano stati acclamati; a Valguarnera si volevano processare i principali o più temuti avversarî del sindaco e molti se ne arrestano e processano non ostante la rara e vigorosa ed onesta resistenza del pretore e del delegato; nel processo di Misilmeri si vedono figurare 25 accusati tutti del partito della minoranza; e nel partito della minoranza oppositrice si vanno a cercare gli accusati dei processi di Belmonte Mezzagno, di Partinico, di Castelvetrano, ecc. ecc. Si fa di più: in molti piccoli paesi il sindaco funziona da delegato di pubblica sicurezza ed è lui a dare le indicazioni e ad ordinare gli arresti per le dimostrazioni avvenute contro l'amministrazione da lui stesso presieduta! Scandali simili io credo che mai in alcun paese del mondo si siano verificati; essi sono stati tali da far desiderare il ritorno ai tempi barbari della giustizia privata.
Ogni miserabile, perciò, che volle sfogare i suoi personali rancori si comprende che ebbe un mezzo facilissimo per raggiungere l'intento: asservire sè al partito dominante ed indicare la vittima come uno dei dimostranti di un dato paese in un dato giorno. Così a Marineo una onesta donna, certa Lombardo, viene denunziata da una guardia daziaria che aveva tentato disonorarla mentre il marito era in campagna; e dietro la sola testimonianza di un siffatto arnese che voleva vendicarsi del rifiuto, la sventurata viene condannata a 13 anni di prigione dal Tribunale di Guerra di Palermo!
I sindaci per vendicarsi dei ribelli non hanno alcun ritegno nel contraddirsi sfacciatamente; e innanzi al Tribunale di Guerra di Caltanissetta pei fatti di Pietraperzia, - non ostante l'opposizione della difesa - si leggono i certificati di moralità rilasciati dal sindaco - parte direttamente e indirettamente lesa - non conformi alle sue deposizioni, sugli stessi individui.
Innanzi al Tribunale di guerra di Palermo alcuni dei detenuti accusati dalle autorità locali come autori dei tumulti, perchè avversarî dell'amministrazione municipale, provano a luce meridiana l'alibi; e riesce anche a liberarsi dall'accusa l'avv. Girolamo Sparti, dimostrando ch'egli era una vittima innocentissima degli avversarî antichi, che avevano in mano il municipio.
E altri altrove fecero di peggio.
Dissi che spesso gli accusatori non nascosero affatto il proprio livore, nè l'odio contro gli accusati; non lo diminuì per esempio di una linea il Cav. Saporito, sindaco di Castelvetrano contro il Cav. Vivona, antico e notissimo suo avversario, il Saporito non depose, ma pronunziò contro il prigioniero una requisitoria colla quale tal volta riuscì ad indispettire anche il Presidente del Tribunale di guerra...
Molte autorità politiche e giudiziarie non ignoravano le condizioni di animo di coloro che si fecero accusatori dei proprî concittadini, ma anche quando sentivano pietà e forse erano tormentati dal rimorso, esse credettero di continuare nell'opera nefanda ubbriacati dai vapori della reazione di cui era saturo l'ambiente, timorosi della propria sorte se avessero osato venir meno alle istruzioni superiori, nella preoccupazione della carriera... Sicchè quando gli arrestati di Misilmeri con accento di verità, che non ammetteva replica, giuravano ai carabinieri di essere innocenti si sentivano rispondere: «Che volete? lo sappiamo che siete innocenti; ma pigliatevela colle vostre autorità locali amministrative, che vi hanno messo in lista.»
Essere messo in lista! Equivaleva nei più tristi momenti della reazione ad essere arrestati, processati, condannati o mandati fra mafiosi e camorristi a domicilio coatto. Per simili motivi lo storico che farà, documentandolo, il processo ai processi innanzi i Tribunali di guerra di Sicilia nell'anno 1894, verrà a questa prima e dolorosa conclusione: in essi c'è la prova del completo asservimento delle autorità politiche e giudiziarie ai partiti dominanti in ogni singolo paese dell'isola!
Agli accusatori sfacciatamente partigiani, odiosamente animati dal sentimento della vendetta dovevano corrispondere e corrisposero i testimoni, non racimolati - come si direbbe per disprezzo - nei trivî, ma comprati con oro sonante o reclutati tra le guardie di città e tra le guardie daziarie, cioè tra coloro contro i quali erano state fatte le più clamorose dimostrazioni e che tutto potevano essere, meno che sereni. Epperò nel processo pei fatti di Valguarnera parecchi testimoni smentiti dalle persone più autorevoli e convinti di mendacio o di reticenza furono incriminati per falsa testimonianza; e nel processo pei tumulti di Partinico il perno dell'accusa fu la deposizione delle sole guardie daziarie, parecchie delle quali pregiudicate e altra volta condannate per reati comuni.
Non basta: questi degni testimoni di accusa talora non conoscono neppur di vista gli accusati e per non fare qualche magra figura se li fanno indicare nelle gabbie, come risultò nel processo pei fatti di Pietraperzia e fu fatto rilevare dal bravo tenente Catalano a richiesta del quale il Presidente del Tribunale di guerra, colonnello120 Orsini, fu costretto ad ammonire i preveggenti testimoni. Ma non ammonì, nello stesso processo, il capo delle guardie municipali, che non sa riconoscere tra i detenuti in gabbia tutte le persone che assicurava di aver visto partecipare al tumulto! e condannò poi sulla base delle deposizioni di siffatti testimoni.
Origine e valore delle prove. - Questi testimoni esemplari, che avrebbero potuto degnamente figurare ai tempi beati della Santa Inquisizione, hanno poi talvolta degli scrupoli; non affermano con risolutezza di aver visto coi propri occhi, di aver sentito colle proprie orecchie; non si atteggiano a San Tommasi. No! Si accusa, ad esempio, lo Sparti di Misilmeri, ma tutti si riferiscono ai: si dice, si vuole... E la storia del modo di raccogliere le prove diviene edificante nel processo di Lercara, nel quale insidiosamente si coinvolge il povero Bernardino Verro - che di già per lo stesso reato doveva rispondere nel processo De Felice e C. - Verro è accusato di aver provocato disordini che egli aveva cercato scongiurare; ed è accusato come sobillatore da un delegato Lenti; il quale si era convinto della reità dell'accusato per certe parole dettegli da un tal Corsaletti; il quale aveva acquistato la stessa convinzione da certe parole della propria moglie; la quale le aveva apprese dalla moglie del Commendatore Sartorio; la quale le aveva sentite dal proprio marito; il quale, infine, era il sindaco del paese preso di mira dai dimostranti...
Tutto questo, ch'è risultato dal processo, non è l'intreccio di una pochade. Pur troppo si tratta di un dramma reale, in cui il protagonista sulla base di tali prove viene condannato per sobillazione a sedici anni di galera!
Non fermiamoci a commentare; continuiamo la dolorosa e vergognosa rassegna.
Innocenti riconosciuti e... condannati. - Pur sorpassando su tutti gli scrupoli, pur violando ogni principio di diritto e tutte le forme di procedura, pure affidandosi a siffatte prove, che venivano da testimoni che già conosciamo, spesse volte non si sarebbe potuto condannare; e si condannò.
E si condannò Giuseppe Sparagno a tre anni di reclusione per avere favoreggiato la fuga di Bosco, Verro e Barbato; prima che costoro venissero giudicati, contro l'art. 225 del Codice penale che vuole - perchè sussista il reato di favoreggiamento - che il favorito abbia commesso un delitto e riportata condanna e che il favoreggiatore abbia scienza del delitto commesso.
E si condannò lo Spatiglia accusato e processato per grida sediziose; ma all'udienza risulta che lo Spatiglia è sordomuto, e allora le brave guardie, che lo avevano denunziato non si perdono di animo e cambiano l'accusa in partecipazione alle dimostrazioni in Misilmeri.
Le grida sediziose sono comode per fare condannare; e fanno condannare il povero Ciulla, per avere gridato in una via deserta di Monreale: Comprate i calendarî e il Siciliano! Egli era uno dei rivenditori del Siciliano; ma per sua disgrazia era inviso ad una certa guardia di pubblica sicurezza, che sentì il terribile grido e fece la denunzia. Si spera che venga accordata la medaglia al denunziatore.
E fu condannata la irresponsabile Rosalia Perrone per occultazione di armi: un vecchio e arruginito fucile, che appartenne al caro figlio morto da molti anni e che essa conservava come un prezioso ricordo. Il Presidente del Tribunale, perchè si tratta di una imbecille, seduta stante domanda la grazia sovrana: ma condanna. Oh! ma si può condannare quando si ha la convinzione che gli accusati sono innocenti? Ebbene: si può... dai tribunali di guerra. E se si possa ce lo dice l'avvocato fiscale militare nella requisitoria pei fatti di Monreale. Gli imputati erano 68 e il pubblico accusatore non esitò a fare questa confessione: «Ammetto che fra gli accusati ve ne sia qualcuno innocente; ma non si può provare, perchè la maggior parte - non tutte! - delle deposizioni dei testimoni a difesa furono meschine, vuote o reticenti.» Questo eccellente funzionario, il sig. Mattei, stabilisce per principio che non l'accusa deve provare la reitá dell'imputato, bensì l'imputato deve dimostrare, con prove sufficientissime, la sua non partecipazione ai disordini...
E si condanna l'accusato della cui innocenza si è convinti, per colpa di alcune testimonianze vuote o meschine...
Queste deposizioni potevano essere migliori e più esatte? Non potevano. Talora i testimonî che si presentavano all'udienza non erano quelli indicati dall'accusato; e quando un ignorante contadino di Monreale protesta contro l'equivoco col suo dialetto siculo, il Tribunale che comprende come se parlasse in sanscrito, sorride e condanna alla turca. In appresso si dirà più esattamente: condanna all'italiana!
E guai ad un testimonio sbagliato, che fa una deposizione vuota o meschina: la sua non può essere corretta o completata da quella di un altro. Agli imputati per economia di tempo e di denaro è stato concesso un solo testimonio a discarico. Nè gl'imputati hanno dalla loro il Presidente, che pensa lui - il bravo uomo! - a correggere e completare. Ciò fa soltanto quando si tratta dei testimonî dell'accusa; così nel processo pei fatti di Santa Caterina, essendosi il Colleoni, tenente dei carabinieri - quello che ordinò il massacro del cinque gennaio, per cui ricevette una medaglia - patentemente contraddetto, il Colonnello Orsini, da buon superiore, interviene e dà lui le soddisfacenti spiegazioni alle contraddizioni dell'inferiore, rilevate dalla difesa. Nè questa può protestare, se no viene chiamata all'ordine in nome della disciplina militare!
Nè gli sbagli si commettono solo sul conto dei testimonî; si arrestano e si processano per isbaglio gli uni per gli altri. Quell'ottimo tenente Colleoni, che farà carriera - oh! se la farà, - ch'era arrivato a Santa Caterina la vigilia della strage e che non ebbe il tempo durante la notte di fare delle conoscenze, affermò in Tribunale che un certo Nicoletti aveva preso parte alla dimostrazione. Il maresciallo dei carabinieri, che viveva in Santa Caterina da molto tempo e che conosceva tutti invece disse, che c'era errore: il reo essere un fratello del Nicoletti; ch'era presente all'udienza e che se la svignò quando sentì, seduta stante, il Presidente del Tribunale ordinarne l'arresto. E in questo caso si osservi che il Presidente del Tribunale col suo scatto mostrò tutta la indignazione dell'animo suo; ma l'avere ordinato la sostituzione di un fratello all'altro nella gabbia degli accusati, seduta stante, dà la misura esatta di ciò che potevano essere e furono la procedura e la giustizia dei militari!...
Inezie. Perchè gl'integerrimi giudici dei Tribunali di guerra dovevano preoccuparsi della condanna di un innocente di più o di meno? Uccidete tutti, Dio sceglierà i suoi! rispondeva l'ordinatore della strage di San Bartolomeo a chi gli osservava che non potevansi sicuramente distinguere gli Ugonotti dai Cattolici. Poterono imitarlo con coscienza tranquilla i giudici militari: essi infine non davano sentenze di morte: appena appena mandavano in galera per dieci o per venti anni!
Questa storia dei processi innanzi i Tribunali di guerra meriterebbe essa sola un volume tali e tanti sono gli episodî drammatici, e le iniquità. A me s'impone di terminarla e la chiudo con l'accenno a due altri notevoli processi.
Uno dei primi condannati fu Mariano Lombardino; e il suo caso, giusto perchè dei primi, fece molto rumore e molta impressione in Italia.
Lombardino era soldato, e al 2 gennaio trovavasi in licenza nella sua natia Gibellina. Un solo soldato del 10° fanteria, certo Corsi, disse di averlo conosciuto tra i tumultuanti, che tentarono di disarmarlo. Il Corsi evidentemente era in buona fede; ma potè ingannarsi in un momento di eccitamento eccezionale e fra migliaia di persone, che lo circondavano e lo investivano, fra tante fisonomie tutte a lui sconosciute. Era facilissimo l'errore, perchè Lombardino rassomigliava molto ad un certo Panzarella - proprio uno degli uccisi! - e la rassomiglianza era tale che una volta gli procurò un arresto per espiare una colpa commessa dal Panzarella.
Lombardino si protesta innocente con voce e con gesti, che commovono gli astanti e il suo difensore l'egregio e buon capitano Piccoli, fece sforzi eroici per salvarlo. Lombardino aveva citato parecchi testimoni a sua difesa per provare l'alibi; ma una donna viene condotta in camera di sicurezza e minacciata di processo per falsa testimonianza, perchè aveva deposto a favore dell'imputato. Tre altri testimoni, che possono provare l'alibi sono assenti e il Tribunale respinge il rinvio richiesto con calore dalla difesa; e lo respinge quando su Lombardino pesava l'accusa di alto tradimento, - sulla fede di un solo testimonio - che viene punita colla fucilazione!
Il Tribunale, però, se è inesorabile non manca di umanità e trova modo di escludere l'alto tradimento e condanna a 20 anni di reclusione. Lombardino, che aveva pianto e protestato durante l'udienza, quando sentì pronunziare la condanna a ciglio asciutto esclamò: per quanto è vero Iddio sono innocente! e chinò il capo e non profferì più una parola. Il capitano Piccoli si dette dei pugni sulla testa.
Perchè fu così inesorabile e ingiusto il Tribunale? Ecco qua: era uno dei primi processi; non bisognava discreditare le istruttorie; si doveva dare un esempio; si trattava di un soldato... Eppoi, eppoi... Lombardino era stato dal rapporto dei carabinieri di Gibellina designato come individuo sospetto... perchè nulla tenente. Oh milioni di proletarî d'Italia: voi siete sospetti perchè nulla tenenti, onde la galera è per voi!
L'ultimo tra i processi minori, di cui giova intrattenersi è quello del Prof. Vincenzo Curatolo da Trapani. Il Curatolo, intimo del compianto deputato Friscia, fu tra i primi ad iniziare nel 1870 la propaganda121 socialista in Sicilia sia coi giornali, sia coi tentativi di associazione; l'averla continuata con ardore all'indomani della Comune lo rese oltremodo inviso alla borghesia di Trapani; egli però non si lasciò mai imporre dall'odio dei potenti, nè scoraggiare dalla pochezza dei risultati e rimase sulla breccia sino a tanto che negli ultimi tempi, insieme al Montalto, riuscì ad organizzare un vero partito socialista nella sua città natia. In Consiglio Provinciale rappresentava la vicina Paceco, dove aveva interessi e amici numerosissimi.
Nel periodo dei tumulti, fu dei più attivi nel frenarli e nell'arrestare le conseguenze del contagio psichico e nei giorni 1 e 2 gennaio il Prefetto Palomba, preso da tale spavento che lo fece piangere innanzi a diverse persone, lo richiese di consiglio e di aiuto, e della sua opera pacificatrice si disse lieto e grato. Questa circostanza risulta dal rapporto di chi lo denunziò e dalla sentenza.
Il 3 gennaio l'Ispettore di Pubblica sicurezza Rinaldi lo invita a recarsi nel di lui ufficio; ma Curatolo rispose sdegnoso di non aver nulla da fare con l'Ispettore. L'indomani l'Ispettore si vendica del rifiuto arrestandolo, chiudendone la farmacia e trattenendone la chiave per dodici giorni. E l'Ispettore arrestandolo non nasconde che ciò fa pel rifiuto e di averlo punito siffattamente ancora si vanta!
La Camera di Consiglio non ebbe il coraggio di legittimare l'arresto una prima volta; si limitò invece a secondare la proposta del Pubblico ministero di rinviare la legittimazione dell'arresto ad un altro mese aspettando che si potessero rinvenire gli elementi di colpabilità sino allora mancanti. Trascorso il mese, sulla base degli stessi elementi negativi, la Camera di Consiglio del Tribunale Penale lo rinviava al Tribunale di guerra di Trapani.
Il giorno 12 Marzo doveva trattarsi la causa; ma fu rinviata, sicuramente per pressioni dell'autorità politica, perchè l'avvocato fiscale Cav. Anastasi aveva detto che egli non trovava alcun elemento che sorreggesse l'accusa ed il Presidente del Tribunale di guerra Colonnello Bussolino - quello stesso che staffilò a sangue la magistratura ordinaria - aveva detto pubblicamente essere sicura l'assoluzione dell'imputato.
Innanzi al Tribunale di guerra la causa si trattò122 il giorno 20 marzo con un personale tutto diverso, a cui, affermavasi da tutti, era stata imposta la sentenza; e Vincenzo Curatolo, infatti, non ostante le risultanze del processo, nell'assenza di alcun documento che lo accusasse e sulla base della sola testimonianza di un confidente di questura che disse averlo visto in Paceco - il grande delitto! - il giorno 3 Gennaio, venne condannato a sette anni di reclusione!
La enormità e la iniquità di questo processo e di questa sentenza risultano a luce meridiana dai considerandi della sentenza stessa e dal rapporto dell'Ispettore di P. S. Rinaldi, che dopo averlo arrestato per una bizza personale, lo denunziò al magistrato - e volle egli stesso rilevare che denunziava lui solo - come responsabile dei reati previsti dall'art. 120 e 252 del Codice penale.
Il rapporto del 7 Gennaio al Giudice Istruttore del Tribunale Penale fa colpa al Curatolo di essersi sdegnosamente rifiutato d'intervenire nell'ufficio dell'Ispettore: e di avere inneggiato al socialismo mentre, arrestato, veniva condotto in caserma; di aver sempre di nascosto diretto il movimento; di essere uno dei capi agitatori. Il rapporto non nega che il Curatolo avesse consigliato pubblicamente la calma: ma soggiunse «il suo breve discorso fatto con molta arte, nel mentre non meritava interruzioni da parte dell'autorità di P. S., dall'altra eccitava vieppiù gli operai verso le classi più abbienti».
Venne forse l'ordine di arresto da Palermo dove nelle perquisizioni ai membri del Comitato Centrale dei Fasci si erano per avventura trovati documenti compromettenti pel Curatolo? Niente affatto. È123 l'Ispettore Rinaldi che ci dà124 il testo di questo eloquente telegramma del Questore di Palermo: «Prego disporre accurata perquisizione nel domicilio del nominato Vincenzo Curatolo farmacista, costà in via Cortina, noto socialista e disporne arresto secondo risultanze perquisizione.» Dunque a Palermo non c'erano motivi di veruna sorta - non ne trovò il sig. questore Lucchese! - per il suo arresto.
Ma le risultanze della perquisizione, alle quali il questore Lucchese subordinava l'arresto, furono tali da far mantenere l'arresto già avvenuto? Meno che mai!
Narra il suddetto ispettore: «Furono sequestrate più (?) carte di nessuna importanza». Fra le più carte di nessuna importanza ce n'erano125 di quelle importanti? Manco per sogno; ma il signor Rinaldi spiega la mancanza di documenti compromettenti supponendo che gl'interessati li abbiano messi in salvo; e questa supposizione, - che farebbe onore a Torquemada - lo autorizza a questa splendida illazione: «Tale sottrazione di documenti ad esuberanza prova, che negli stessi dovevano contenersi le disposizioni per una generale insurrezione, nonchè gli ordini impartiti ai varî Fasci per incominciare il movimento».
Del resto si poteva procedere senza cerimonie all'arresto perchè, dice l'Ispettore, «si assicurava che essendo il Curatolo consigliere Provinciale di Paceco, ed anima di quel Fascio, gli abitanti di quel paese aspettavano da lui il segnale per scendere armati in città ed incominciare il saccheggio. Tale gravissimo fatto risultava non solo dalle riferenze d'ufficio, ma benanche da discorsi di cittadini onesti e stimati nel pubblico.»
Orbene non un solo di questi cittadini onesti e stimati andò a testimoniare contro il Curatolo... invece sindaco, deputati provinciali, assessori, consiglieri provinciali e comunali, molti altri eminenti cittadini quasi tutti avversari politici affermarono esplicitamente la legalità della sua condotta e l'opera sua eminentemente pacificatrice nei momenti del pericolo. Non monta: «la prova più schiacciante contro il Curatolo, conchiude l'Ispettore Rinaldi, l'abbiamo nel fatto che «in Trapani avemmo due sere di disordini; arrestato il Curatolo, senza bisogno di altri mezzi, la calma rientrò in Città.»
Questo perfezionato allievo di Lojola diceva il vero, ma dimenticava una sola cosa: Curatolo venne arrestato dopo la proclamazione dello stato di assedio, quando dappertutto la calma rientrò senza arrestare le anime dei Fasci e solo perchè gl'ingenui contadini si convinsero, con quell'atto, che il governo riprovava le agitazioni e non le vedeva di buon occhio, come era generale credenza in seguito alla condotta tenuta dal Consigliere della Prefettura di Palermo mandato a Partinico.
In qualunque altro paese civile e libero il rapporto-denunzia dell'Ispettore Rinaldi sarebbe stato bastevole per lo meno a farlo destituire; in Italia valse ad indurre il Tribunale di guerra di Trapani, presieduto da un Barbieri, a far condannare il Curatolo.
La sentenza non è che la parafrasi pura e semplice del rapporto; i suoi considerandi non sono, che supposizioni e insinuazioni. In quanto a fatti concreti così si esprime: «Che mente direttiva della organizzazione dei Fasci e di siffatti propositi - precedentemente la sentenza aveva accennato ai fatti luttuosi accaduti in altre parti dell'isola e che non si erano verificati in Trapani per la pronta ed energica repressione (?) delle autorità - «fosse il giudicabile Curatolo Vincenzo e fosse esso che dirigeva ogni movimento che si verificava e in questa città e nel vicino comune di Paceco, i cui moti dovevano avvenire contemporaneamente e confondersi in una sola azione è provato dalla corrispondenza, che gli fu sequestrata, che lo compromette nel più assoluto modo, dalla sua posizione nel Fascio dei lavoratori di Trapani, da esso si può dire formato e moralmente presieduto, dalle sue relazioni coi capi dei rivoltosi in tutte le parti dell'Isola, dalle sue corse a Paceco fatte in momento opportuno, mal celate e poi negate, e finalmente dal grido di Viva il socialismo, emesso quando lo trassero in arresto, che fatto in quelle condizioni e con quell'espressione, non poteva non essere un grido sedizioso rivolto al pubblico, grido che rileva il di lui animo bramoso di disordini popolari...»
Constava al Tribunale di guerra che Vincenzo Curatolo nei momenti dal pericolo, e quando un animo bramoso di tumulti avrebbe potuto facilmente provocarli, aveva rivolto al popolo parole di pace e consigli di calma, ma non ne tiene conto perchè, seguendo l'Ispettore Rinaldi, «delle disapprovazioni che l'accusato avrebbe fatte pei detti avvenimenti, non è il caso di occuparsene, nulla deducendo in di lui favore, ma solo addimostrando una non comune e provetta attitudine in lui di eccitatore occulto ma efficace, come offrono la stessa prova le esortazioni alla calma col rispetto della legge fatte palesamente.»
Per tali fatti così stabiliti il Tribunale di guerra visti gli articoli 120 e 252 del Codice penale condanna il Curatolo a sette anni di reclusione e alle spese!
Si è visto che la sentenza trova le prove dell'accusa sopratutto nella corrispondenza sequestrata al Curatolo, cioè tra le più carte giudicate di poca importanza dall'ispettore Rinaldi. Il quale così le giudicò per difetto d'intelligenza, poichè fu trovata una terribile lettera di Francesco Cassisa... la quale non potè valere, però a fare condannare questi dal Tribunale di Guerra di Palermo, - il quale pur distribuì generosamente migliaia di anni di condanne facendo una vera strage d'innocenti!
Da questo processo, - superato soltanto in mostruosità dalla sentenza - rimane provato all'ultima evidenza che dai Tribunali di guerra si ritenne reato l'avere avuto relazioni con persone incriminate - e con tale criterio si potrebbe mandare in galera mezza Italia, compreso il Parlamento; reato la visita al vicino paese, che si rappresenta in Consiglio Provinciale: reato il presiedere... moralmente un Fascio , e di esserne stato l'anima126; reato il gridare: Viva il socialismo! con espressione, reato l'avere disapprovato pubblicamente e l'avere impedito nella misura delle proprie forze i fatti, che si ritengono criminosi.
Il processo alle intenzioni in base alle più scellerate supposizioni, la persecuzione contro il pensiero, e la condanna dell'esercizio del diritto di associazione e di riunione negli stretti termini della legalità - perchè i Fasci dei lavoratori furono sodalizî legali, che per tre lunghi anni si riunirono ed agirono in pubblico senza che mai le autorità politiche e giudiziarie vi avessero trovato da ridire - da nessun altro processo risultano lampanti quanto da quello istruito contro il Curatolo, perchè a confessione e del denunziatore e dei giudici, che condannarono, mancano in esso tutti gli elementi di un processo qualsiasi, che non siano il processo alle intenzioni, la persecuzione contro il pensiero, la condanna dei diritti sanciti dello Statuto. Ed è perciò che ho ritenuto doveroso occuparmene con particolarità per segnalare al giudizio severo ed imparziale del pubblico il governo che dispose e permise agli agenti suoi, che eseguirono e condannarono.
L'animo di qualunque italiano, che sognò e lavorò per la rigenerazione di una patria libera, e la cui libertà doveva venire a farne la grandezza e la ragion di essere nel consorzio delle nazioni civili non può che rimanere profondamente sconfortato ed indignato dell'opera dei Tribunali militari in Sicilia ch'è la negazione assoluta di cinquant'anni di lotte, di sacrifizî, di eroismi contro la tirannide; quest'opera deleteria induce a melanconiche riflessioni. Oh! valeva la pena di abbattere il governo, che fu detto negazione di Dio e di far cadere tante vittime preziose sui campi di battaglia e sulle forche per arrivare a vedere funzionare come hanno funzionato i Tribunali militari in Sicilia e in Lunigiana nell'anno 1894 e in nome dell'Italia libera ed una? Non si direbbe che le libertà promesse dallo Statuto siano tranelli tesi alla buona fede degli italiani? Quanto più onesto e leale il governo borbonico, che senza ipocrisie proibiva di occuparsi di politica, e sotto il quale almeno erano sicuri di vedere rispettata la propria libertà coloro che ottemperavano scrupolosamente ai suoi ordini!
Lo sconforto sarebbe minore se dell'opera nefasta dianzi tratteggiata fossero responsabili soltanto i Tribunali di guerra. Si sa! i militari non comprendono il diritto, non conoscono leggi e statuti, non discutono ma ubbidiscono, come impone la disciplina, non conoscono altra ragione che quella che viene dalla forza. Ma il guaio maggiore è questo: nelle aberrazioni giuridiche, politiche e morali dei Tribunali di guerra c'è la solidarietà e la complicità necessaria dei magistrati ordinarî, che dovrebbero tutelare i diritti dei cittadini e fare rispettare le leggi e lo Statuto in alto e in basso. E questa solidarietà e questa complicità, per quanto possa riuscire doloroso il confronto, bisogna metterle in evidenza.
Da parecchio tempo la magistratura italiana avea perduto nella coscienza pubblica quella stima e quella rispettabilità, che sono indispensabili al suo ufficio supremo in uno stato libero e bene ordinato e per cagioni molteplici, che sono state esposte e studiate da illustri magistrati, da giuristi e da scrittori politici di ogni parte. Ciò che maggiormente si rimproverava e si rimprovera tuttavia alla magistratura italiana si è il suo asservimento al potere, le cui conseguenze sono incalcolabili tutte le volte in cui essa dovrebbe colpire gli agenti del governo; giudicare nei conflitti tra il Fisco e i privati cittadini; istruire processi d'indole politica ed emettere le relative sentenze. Di tale asservimento, che riesce sempre di grave danno ai cittadini e di pericolo continuo alle pubbliche libertà, somministrai esempî in Corruzione politica e il fatto stigmatizzai severamente in Banche e Parlamento unendo la mia voce modesta a quella di tanti altri assai più di me autorevoli. E la iattura è tanto grave e antica, che parvero eroi - e furono esaltati ed eletti deputati in odio al governo - il Procuratore Generale Nelli e il Procuratore del Re Borgnini, che seppero resistere alle pressioni dall'alto nel famoso processo Lobbia - e preferirono dimettersi sdegnosamente anzichè sottomettersi - altri tempi e che sembrano leggendarî! - come di recente bastò che un alto magistrato integro, l'Eula, arrivasse al ministero, dopo avere pubblicamente affermato che la magistratura deve giudicare e non rendere servigi, perchè la nazione aprisse il cuore alla speranza di vedere realizzata la più necessaria delle restaurazioni: quella dell'indipendenza della magistratura127.
Ma Eula, cadente per anni e per malattia, al ministero di grazia e giustizia passò come una meteora luminosa, che non riscalda e non vivifica, e gli ultimi episodî del processo della Banca Romana, le solenni e gravi dichiarazioni dell'attuale ministro Calenda dei Tavani in risposta ad interrogazioni degli on. Cavallotti128, Imbriani e mie nonchè rialzare il prestigio della magistratura lo hanno ormai come distrutto!
Come e perchè il governo riesca ad imporsi ai giudici e ad ottenerne servigi e non sentenze sarebbe lungo l'esporre; basta in questo libro, in cui l'interessante quistione è toccata incidentalmente, ricordare che nell'ultima discussione sul bilancio del ministero di grazia e giustizia per l'anno 1894-95 l'on. Gianturco, che gode meritata fama per dottrina, per integrità di carattere e per avere occupato il posto di sottosegretario di Stato sotto l'Eula, segnalò al ministro l'arbitrio pericolosissimo che si esercita nelle promozioni, mercè le quali gli abili governanti profittando delle debolezze del cuore umano e dei bisogni di magistrati mal pagati, sanno piegarli alle loro voglie renderli docili e servizievoli quando occorre.
Nè il ministro osò negare la esistenza e la gravità del pericolo.
I magistrati onesti e indipendenti non solo si vedono sopravvanzati nella carriera da quelli servili, ma vengono puniti coi traslochi da una sede più importante ad una di minore importanza ferendone la dignità e gl'interessi economici ad un tempo. E di questo mezzo illecito di cui si serve il governo per punire i magistrati ricordai in Banche e Parlamento alcuni casi, che si riferivano alla Sicilia (p. 337) ed altro con grave rammarico devo riferirne qui, che riguarda pure l'isola e i processi d'indole politica di cui mi sto occupando. Quel Procuratore del Re di Trapani, di cui si disse che era stato scelto dall'on. Crispi come successore del Lucchese al posto di fiducia di Questore di Palermo, venne invece anzichè promosso e premiato pei suoi meriti, traslocato d'improvviso in un Tribunale di poca entità della provincia di Messina, non ricordo bene se a Patti o a Castroreale. Perchè? La voce più accreditata sulla causa della punizione è la seguente: egli in una causa in cui stavano di fronte un maresciallo dei carabinieri ed un privato cittadino aveva reso giustizia al cittadino, e ciò facendo non solo aveva mancato di rendere un servizio al governo, ma aveva anche indispettito un deputato siciliano dei più reazionarî, che proteggeva il maresciallo e che negli ultimi tempi esercitava un insolito ascendente nelle sfere ministeriali...
In Banche e Parlamento, quasi presago dei futuri avvenimenti, avevo detto che in Sicilia più che altrove era notorio il servilismo della magistratura verso il governo. Tale servilismo nell'isola aveva le sue non nobili ma continuate tradizioni - interrotte per un momento dal conflitto Tajani-Medici - delle quali il senatore Zini riporta parecchi dati, tra cui impudente una lettera del Procuratore Generale Morena, che parla come della cosa più semplice e corretta di questo mondo «di detenuti, che non sono a disposizione dell'autorità giudiziaria e sul conto dei quali egli confessa di non potere prendere alcun provvedimento perchè non può mettere la falce nella messe altrui (?!) e consiglia impertanto di rivolgersi al Prefetto o a S. E. il Ministro dell'interno.» (Dei criterî e dei modi di governo della sinistra. Bologna, 1880 p. 45).
Gli ultimi avvenimenti e i consecutivi processi della Sicilia hanno distrutto, se pur ne avanzava, l'ultimo residuo della buona fama della magistratura in quanto a senso di giustizia e ad indipendenza. Ed è da avvertire in proposito che le numerose assoluzioni dei membri dei Fasci, nel periodo precedente alla proclamazione dello Stato di assedio, che potrebbero invocarsi come una prova in contrario, perderono di efficacia perchè controbilanciate da altrettante condanne in casi perfettamente identici: sicchè le prime non servirono, che a rendere più evidente la ingiustizia delle seconde, la mancanza di un unico ed esatto criterio giuridico e il servilismo dei più129.
La magistratura ordinaria è doppiamente colpevole; perchè da un lato si è spogliata indebitamente e volontariamente - dico: volontariamente, stando alle apparenze - dei propri diritti dichiarando la propria incompetenza nei casi, che vennero deferiti ai Tribunali militari e dall'altro si è prestata con inaudito sfoggio di servilismo ad istruire i processi sui quali poi hanno in ultimo giudicato gli stessi Tribunali militari.
Data la legittimità dei Tribunali militari, sulla quale non spettava alla magistratura ordinaria di minor grado di giudicare, certo è che essa doveva, a salvaguardia del proprio decoro e della propria autorità, non consentire all'ingiustificabile principio della retroattività così largamente applicato; e dove e quando la giurisdizione eccezionale militare avesse accampato pretese e diritti che non le spettavano, alla magistratura ordinaria incombeva assoluto l'obbligo di resistere e di mostrarsi vigile custode delle leggi e dei diritti dei cittadini e di sollevare quei conflitti, che in ultimo avrebbero dovuto essere decisi dalla Suprema Corte di Cassazione di Roma.
La magistratura ordinaria invece venne meno al proprio dovere e senza che in modo alcuno possa scusarsi. Non resistette all'invadenza di chi in nome dei pieni poteri accordatigli credette potere impunemente calpestare statuto e leggi; non sollevò alcun conflitto; essa stessa invocò il principio della retroattività; essa stessa lo applicò, dichiarando130, non richiesta, la propria incompetenza e deferì al giudizio dei Tribunali militari gli accusati il cui reato era stato consumato molto tempo prima della proclamazione dello stato di assedio quale fu il caso dell'ex-Presidente del Fascio di Palazzo Adriano che, per uno dei tanti pretesti accampati nel periodo della provocazione in agosto 1893, venne processato e il giudizio venne rinviato a richiesta dell'accusato, il quale poi inopinatamente con senso di stupore generale, venne deferito al Tribunale Militare di Palermo. Questa febbre di servilismo arrivò al punto di rendere dimentica la magistratura ordinaria della più elementare osservanza delle procedure e delle competenze in vigore anche sotto il regime eccezionale della sciabola: e così si vide il Tribunale penale di Trapani deferire al Tribunale militare la conoscenza di alcuni reati non contemplati negli editti del generale Morra e ricevere la più umiliante delle lezioni dallo stesso Tribunale militare di Trapani, che dichiara la propria incompetenza e rinvia al Tribunale penale il processo. Un militare, il colonnello Bussolino, non poteva mostrarsi più severo verso il magistrato ordinario insegnandogli le regole della procedura; e il rossore dello schiaffo assestato ci vorrà del tempo perchè scompaia.
Grave è inoltre la colpa della magistratura ordinaria relativamente all'istruzione dei processi. Dato pure e non concesso che fosse stata legale la istituzione dei Tribunali militari e che si fosse potuto applicare l'anti-giuridico e mostruoso principio della retroattività, ne derivava che la magistratura ordinaria non avrebbe dovuto menomamente impicciarsi dei reati e dei processi nei quali veniva riconosciuta la competenza della giurisdizione eccezionale militare; così facendo si sarebbe potuta accusare la magistratura di vigliaccheria e non altro. Essa invece ha tolto l'incomodo ai Tribunali militari - violando il Codice penale militare - d'istruire i processi e glieli ha presentati belli e completi rendendosi non solo complice di tutte le enormità di detti processi, ma principale responsabile di tutte le flagranti irregolarità, che vennero esposte in questo stesso capitolo sulla condizione sospetta dei denunziatori e dei testimoni e sul valore delle prove raccolte.
Onde su di essa ricade la maggior parte della colpa delle sentenze inique dei Tribunali di guerra, perchè questi giudicarono quasi sempre sulle orme delle requisitorie dell'avvocato fiscale e alla sua volta l'avvocato fiscale non fece che copiare le requisitorie del Procuratore del Re colle quali si mandavano gli accusati innanzi ai primi. I militari, in fatto di diritto e di applicazione delle pene, dovevano e potevano mostrarsi, essi che non li hanno mai studiati, più meticolosi e meno severi dei magistrati? Non era possibile sperarlo.
Ond'è che l'on. Lucchini, penalista illustre e Consigliere di Stato, commentando la sentenza Molinari e Gattini, non potè a meno, di fronte alle declinatorie, all'abdicazione della magistratura ordinaria, di constatare che si è messa in evidenza la sua ignoranza e il suo servilismo e si è resa complice dello strazio della libertà e della giustizia (Appendice alla monografia di Brusa: Della giustizia penale eccezionale p. 53). E più aspro certamente sarebbe stato il giudizio dell'antico professore dell'Ateneo bolognese, se avesse dovuto enunziarlo a proposito della condotta della magistratura siciliana131. La quale è stata tale che al mitissimo insegnante della università di Torino ha strappato questa sentenza: «Le condanne, se grazia sovrana non interverrà, rimarranno quali testimoni e accusatori di una giustizia, la quale parrà una forsennata e che si mostrerà a tutti velata per le patite offese: di una giustizia resa serva della polizia preventiva.» (Brusa p. 35).
Ed ora allo esame della condotta della più alta magistratura italiana: la Suprema Corte di Cassazione.
All'indomani della sentenza della Cassazione nel ricorso del Procuratore Generale del Re Comm. Bartoli - contro il giudicato della Sezione di accusa, col quale nel processo della Banca Romana si mandarono assolti Pietro Tanlongo e Michele Lazzaroni - in Italia ci fu una generale esultanza e l'animo di tutti si aprì alla speranza. Il supremo magistrato aveva reso giustizia; e pur rispettando la sentenza della Sezione di Accusa in nome della legge scritta, di cui esso dev'essere sempre ed esclusivamente l'indefesso tutelatore, aveva trovato modo con parole elevate in nome dello interesse morale di stigmatizzarla. Si sperava che il responso della Corte di Cassazione dovesse e potesse servire di rampogna ad alcuni magistrati inferiori e d'incoraggiamento ad altri.
In Sicilia e in Lunigiana sappiamo già che il nobile esempio non giovò ai magistrati inferiori; oggi sappiamo del pari che la stessa Cassazione non continuò a battere la via sulla quale si era messa nello scorso anno, e non ci resta che lo sconforto di dovere constatare che il supremo magistrato italiano è disceso al livello dei magistrati inferiori, anzi forse tanto più in basso quanto più alto dovrebbe essere il suo ufficio.
Il Prof. Impallomeni chiudeva il suo ricorso in Cassazione dell'on. De Felice Giuffrida e Compagni con questa perorazione, che giova riprodurre integralmente: «Eccellenze, nel disgregamento morale e fra le passioni che travagliano le società odierne, le coscienze non si possono far serene che in un centro solo di equilibrio e di sicurezza: nell'amministrazione della giustizia, affidata alla rettitudine di magistrati indipendenti.»
«I rancori, le ire di partito passano, le onde agitate delle azioni e delle reazioni sociali si ricompongono in calma, ma le offese alla giustizia restano ferite irrimediabili alla compagine sociale. Un grande ufficio di riparazione è a voi affidato; ufficio ad un tempo di riconciliazione e di pacificazione degli animi: che voi compirete quando risolleverete la bandiera del diritto, abbassata nella causa presente, in cui una condanna non giunse al suo segno, se non passando sopra lo Statuto prima, e poi sopra il Codice penale.»
In verità dopo la sentenza della Cassazione sul ricorso Molinari e Gattini, che dette luogo alle critiche severissime del Brusa e del Lucchini, - per non citare quelle unanimi della stampa politica quotidiana, - un linguaggio siffatto - che del resto può considerarsi come la parafrasi felice dei considerandi della stessa Cassazione nella sentenza sul ricorso Bartoli nella causa Tanlongo e Lazzaroni - potrebbe giudicarsi o la manifestazione di una ingenuità superlativa o una delle tanti e volgari tirate retoriche di avvocato esercente, che non crede affatto in ciò che scrive. Esclusa questa ultima interpretazione nel caso dello egregio prof. Impallomeni rimane la prima; e si può anche dire che nell'animo suo albergasse la speranza della resipiscenza. Ascoltò la Cassazione questo linguaggio degnissimo che racchiudeva un savio consiglio, utile più alla conservazione dell'autorità del supremo magistrato anzichè alla causa dei condannati dal Tribunale militare di Palermo?
Oramai la risposta della Cassazione è nota ed è noto che essa non s'inspirò allo Statuto, alla legge, alla giustizia; ma lasciò passare trionfalmente l'interesse della politica dell'ora che volge e respinse il ricorso De Felice, come tanti altri ne aveva respinti. La sua opera nella quistione vitale della competenza e della revisione delle sentenze dei Tribunali militari deve essere esaminata e giudicata al lume dei fatti e del diritto; ed essa risulta uguale, se non peggiore, a quella del resto della magistratura, per incoerenza, per servilismo, per ingiustizia.
Il primo errore e la prima colpa della Cassazione furono commessi nello statuire sulla legalità dei Tribunali militari. Essa non ebbe gli scrupoli della Corte dei Conti - e questa differenza dev'essere la sua maggiore umiliazione.
Essa li trovò legittimi, legali, anche quando evidentemente esorbitavano proclamando la propria competenza pei reati commessi prima della proclamazione dello Stato di assedio!
La Cassazione, però, non si mantenne logica e coerente; perocchè se nei casi di Sicilia l'applicazione del diritto bellico si è fatta correttamente come in guerra guerreggiata anche alle persone estranee all'esercito, non c'era ragione del suo intervento, perchè una persona non può essere giuridicamente duplice nei rapporti con gli stessi reati a lei imputati; non è e non può essere prima pareggiata al militare per la giurisdizione di merito e poi restituita al novero degli estranei alla milizia per la decisione formale sulla incompetenza del giudice di merito.
La Cassazione doveva astenersi dal conoscere delle sentenze pronunziate da Tribunali estranei alla sua giurisdizione, non provocata neppure da conflitti insorti fra essi e i Tribunali comuni. Perciò132 la Cassazione intervenne senza regola, intervenne quando accomodava: e le sue decisioni, quando parzialmente riformarono le sentenze dei Tribunali militari non possono essere considerate che come grazie parziali fatte da chi non le poteva e non le doveva fare». (Brusa e Lucchini, p. 28, 29 e 55).
Alla Cassazione incombeva, però, un obbligo superiore: quello di annullare puramente e semplicemente le sentenze dei Tribunali militari distruggendone la usurpata giurisdizione e stabilendone la illegalità. La Cassazione doveva e poteva fare rispettare lo Statuto e le leggi anche senza avere la precisa attribuzione delle Supreme Corte federali degli Stati Uniti; poichè non ha sostanziale fondamento ciò che disse l'on. Sacchi nella Camera dei Deputati, che la Cassazione Italiana, cioè, non abbia la missione di contenere le leggi nei limiti della costituzione oltre quella di contenere i provvedimenti esecutivi: nei limiti della legge; e non ha fondamento «giacchè una legge che non sia nei limiti della Costituzione non è legge; e tutti i magistrati dal Conciliatore alla Corte di Cassazione hanno insita al loro ufficio la facoltà di sindacare la costituzionalità degli atti della pubblica autorità, perciò stesso che il loro mandato è quello di fare applicare le leggi, e i provvedimenti emanati in conformità alle leggi.» (Impallomeni, p. 47).
Poteva, doveva farlo la Cassazione - e non lo fece - per non lasciare tutto all'arbitrio del potere esecutivo, gli averi, la libertà e la vita dei cittadini.
«Chi non vede che col sistema della Cassazione - rispettando ed accettando cioè la legalità dei Tribunali militari - si condannano potenzialmente a perpetua impotenza le norme di competenza, stabilite dal Codice di procedura penale? Ogni volta, che vi saranno delle bande armate, dei moti insurrezionali, basterà che il potere esecutivo dica essere necessario sospendere la competenza ordinaria perchè si creda essere nel diritto di farlo; per modo che i Tribunali e le Corti di Assise potranno essere competenti a conoscere di simili reati sempre..... meno quando avverranno. Vi saranno sempre le autorità giudiziarie del regno pronte a dire, come ha detto la Corte di Cassazione133: noi ce ne laviamo le mani, è affare che non ci riguarda, decidano in altro luogo se le leggi bastano; quando lassù crederanno che non bastano, noi non abbiamo che a sottometterci ai decreti che verranno imposti. Ma allora, domandiamo noi, a che serve la legge? a che serve la divisione dei poteri? qual'è la differenza, che passa tra un regime assoluto e un regime costituzionale?» (Impallomeni, p. 39).
Di più: quando la Cassazione intervenne e dichiarò la propria competenza - e non poteva essere competente e non doveva intervenire se i Tribunali di guerra fossero stati legali e costituzionali - lo fece in modo scorretto e sconveniente e misconoscendo la missione commessale dalla legge. Questa, infatti, è tassativa nello stabilire che essa debba esaminare le quistioni di diritto e non le quistioni di fatto; essa ci sta per separarle e nella separazione sta la sua ragione di essere. Or bene la Cassazione precisamente in questa occasione, in cui poteva affermarsi nella sua più grande maestà come uno dei poteri pubblici dello Stato, venne meno al proprio compito esaminando la questione di fatto, la opportunità dei provvedimenti presi, e non se tali provvedimenti per quanto opportuni, per quanto anche necessarî, siano stati conformi allo Statuto e alle leggi, sicchè il supremo magistrato desumendo la legittimità di siffatti provvedimenti dalla ipotetica loro necessità e convenienza politica, svisò la propria funzione, si sostituì al Parlamento, rese un servizio al governo, che incoraggiato dal precedente, segnalando come necessario qualunque illecito ed incostituzionale provvedimento, sa che verrà giustificato ed approvato dal corpo che avrebbe dovuto precisamente richiamarlo alla osservanza della Costituzione e delle leggi (Brusa, p. 10, 11 e 34; Lucchini, p. 57; Impallomeni, p. 40).
Epperò, tutto ben considerato, se ne deve conchiudere con amarezza, che il popolo non può riporre più la sua fiducia nel supremo magistrato, che dovrebbe avere il compito di difenderne i diritti e fare rispettare la Costituzione e le leggi del potere esecutivo, come fece la Cassazione francese anche in momenti non propizî alla libertà e alle franchigie costituzionali (Impallomeni, p.32 e 33). E la conclusione dolorosa è assai umiliante per l'Italia, la cui inferiorità di fronte alle altre nazioni, in fatto di rispetto ai diritti dei cittadini da parte del potere esecutivo, e nella pratica del regime costituzionale, rimane ognora più assodata e confermata; e questa inferiorità viene sopratutto assodata e confermata per opera della Suprema Corte di Cassazione che è venuta meno al suo compito ed ha rinnegato la propria ragione di essere.
Intanto nel periodo fortunoso dei fatti eccezionalmente disonesti e scandalosi, come la Suprema Corte di Cassazione designò quello della scoperta degli scandali della Banca Romana, si trovò un Ministro, il senatore Santamaria, che, nauseato dal contegno della magistratura, la qualificò un punto interrogativo e non avendo il coraggio di interrogare la sfinge provvide se non altro a sè stesso, e sdegnoso si ritrasse. E allora - fu già ricordato - una eco onesta e coraggiosa di questo sdegno si ebbe nel responso della Cassazione. Pare che con quell'atto si sia esaurita la vigoria del supremo magistrato, che quando si trovò nella situazione di dovere solennemente affermare la propria indipendenza di fronte al governo piegò e si sottomise e la sua voce si trovò all'unisono con quella del Ministro, che in Parlamento, dimentico di rappresentare la giustizia, non seppe che difendere e giustificare le pretese e gli atti della reazione.
E da questo stesso ministero nell'ora triste e pericolosa di decadenza e di reazione che attraversiamo, in risposta ad una interrogazione dell'onorevole Imbriani, l'Italia apprese che se il ministero avesse manifestato un desiderio alla magistratura, questa avrebbe trovato nella procedura i mezzi per soddisfarlo! (Seduta della Camera dei deputati del 7 aprile 1894).
La dipendenza della magistratura in quell'infausto giorno venne ufficialmente affermata; la nomina della famosa Commissione dei tre all'indomani della sentenza nel processo Tanlongo e Lazzaroni, è servita a riconfermarla. La nomina di tale commissione se è stata una indecorosa canzonatura dal punto di vista della restaurazione della moralità, è riuscita, però, ad esautorare la magistratura. Quale può essere il suo prestigio nel giudicare gli altri se essa stessa è sotto giudizio? Il giudizio sull'opera dei Tribunali militari e della magistratura ordinaria, non può essere pertanto completo senza la conoscenza di alcune cifre e di alcuni confronti.
I Tribunali militari di Palermo e di Trapani e quelli di Caltanissetta sino al 30 maggio - non ho i dati di quello di Messina - distribuirono 3203 anni di detenzione e di reclusione a 630 individui, oltre le pene per le contravvenzioni al disarmo. In tutto si può approssimativamente calcolare che i Tribunali militari di Sicilia distribuirono circa 5000 anni di prigione a contadini che protestarono contro la fame e contro l'oppressione, e a giovani non rei di altro che di onesta propaganda socialista. Ebbero sette anni di reclusione coloro che furono considerati anime dei Fasci; ebbe sedici anni di reclusione Bernardino Verro per un discorso sovversivo; ebbero venti anni di reclusione donne ingenue, che credettero lecito gridare Viva il Re! e abbasso il Sindaco!
Da un'altra134 parte sta questo: un Tenente Blanc dal Tribunale penale di Padova ritenuto responsabile di omicidio colposo e di abuso di autorità fu condannato a sei mesi e venti giorni di carcere militare ed a cinquecento lire di multa; e si spera che la Corte di Appello di Venezia, che si mostrò altra volta tenerissima degli ufficiali di Cavalleria riduca la pena....
I signori Tanlongo e Lazzaroni accusati di un grappolo di reati e della scomparsa di ventitre milioni dalla cassa della Banca Romana vennero assolti dal Giurì di Roma. Era giusto che Tanlongo e Lazzaroni uscissero a libertà quando entravano in prigione De Felice e Petrina che la loro popolarità acquistarono smascherando i ladri.
Queste condanne e queste assoluzioni si spiegano e si completano, e darebbero occasione, se questo fosse un libro sistematico, a svolgere ampiamente e confortare la opinione di coloro i quali asserivano che i Tribunali e la cosidetta giustizia funzionano attualmente nello interesse esclusivo della borghesia per assicurare il trionfo di quelli, che Pietro Ellero - un Consigliere della Corte di Cassazione di Roma - chiama i vermi della cleptocrazia. Queste condanne e queste assoluzioni ribadiscono la tesi del Vaccaro, che crede: «ufficio delle leggi penali non essere stato sin qui quello di difendere la società, cioè tutte le classi, che la compongono; ma particolarmente gl'interessi di coloro in favore dei quali è costituito il potere politico, cioè dei proprietarî135.»
Nel testo l'ho presentata colle parole del Vaccaro, perchè la scienza in questo quarto d'ora è sospetta, e perchè il Vaccaro non è solo un cultore della scienza, ma è anche il Segretario del Ministro della Presidenza e perciò non può considerarsi come un pericoloso sobillatore... L'egregio Prof. Alimena metterebbe meno impegno a combattere il Vaccaro se dovesse scrivere l'ottimo suo libro sui Limiti modificatori dell'imputabilità dopo le condanne di Sicilia e di Padova e le assoluzioni di Roma.