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L'OPERA CIVILE DEL GENERALE MORRA
Di ciò che si è fatto in Sicilia - dal giorno della proclamazione dello Stato di assedio in poi - risponde politicamente il ministero; ma la responsabilità diretta, materiale e morale, spetta al generale Morra di Lavriano e della Montà.
Se i poteri del Regio Commissario straordinario fossero durati poco tempo - pel solo tempo necessario ad assicurare l'opera del ristabilimento materiale dell'ordine - è assai probabile, che sul di lui conto non ci sarebbe stato molto da ridire e si sarebbero soltanto ricordate le sue benemerenze, siano pure immeritate ed immaginarie; ma la durata eccessiva e la estensione stessa dei poteri che gli erano stati accordati, fecero sperare, autorizzarono anzi, ad aspettare da lui, oltre la repressione, un'opera eminentemente civile d'iniziamento, se non altro, di restaurazione morale, di giustizia politico-amministrativa, di miglioramento economico della condizione dei lavoratori.
A quest'opera il generale Morra venne meno completamente, e la sua azione invece fu talmente diversa da quella che avrebbe potuto e dovuto essere, ch'egli ne raccolse larga messe di biasimo e di disonore.
Il giudizio severo non solo viene giustificato dallo esame dei fatti imputabili al Commissario, ma sopratutto dal sistema prezioso dei paragoni, dal confronto con ciò che persona di grado uguale al suo ha dichiarato che avrebbe fatto se fosse rimasto al suo posto; dal confronto di ciò che altri ha fatto realmente in analoghe condizioni dolorose.
Ciò che si avrebbe dovuto e potuto fare in Sicilia venne detto dal generale Corsi, che col comando del XII Corpo di armata trasmise i poteri militari al generale Morra.
Certamente non sarò io che troverò tutto da lodare e crederò che possa in tutto soddisfare ciò che espone il generale Corsi, in quanto a riforme economiche, amministrative, politiche e morali da attuarsi immediatamente in Sicilia, (p. 356 e 357): nè dimenticherò che egli, conservatore, non vede con simpatia tutto ciò che sa di libertà, e non nasconderò che egli ha idee erronee sullo sciopero e sui rapporti economici che possono correre tra lavoratori e proprietari e sui modi di trasformarli e di migliorarli.
Bisogna, però, riconoscere che non ostante i suoi errori e i suoi pregiudizî il generale Corsi era animato da uno squisito senso di umanità e di equità. Se ne giudichi da questo brano del suo libro, che sembra precisamente il programma di azione immediata di un generale italiano, munito di poteri straordinarî e mandato in una regione per ristabilirvi l'ordine materiale e morale ad un tempo: «La suprema autorità militare nell'isola - egli scrive - tutto ben ponderato, aveva compreso sin dal primo momento che l'opera sua doveva essere sopratutto e in sommo grado civile, cioè di pacificazione e concordia tra le classi sociali, che gli agitatori (?) traevano a nimicizia. Quei tanti ufficiali, che si spandeano pei paesi dovevano essere altamente pacieri, apostoli di fratellanza tra genti divise, che si guardavano in cagnesco, esigenti gli uni, ripugnanti gli altri; dovevano mantenersi rigorosamente neutrali, benigni con tutti, di modo che non sembrasse che le truppe fossero adoperate a sostegno degli interessi dei possidenti e contro le giuste rivendicazioni dei proletarî.
«Dovevano insomma far la parte, che avrebbero dovuto fare i buoni cittadini se avessero saputo, o potuto, o voluto farla.» (Sicilia p. 366 e 367).
Questi nobili intendimenti del generale Corsi erano conosciuti in alto e avrebbero dovuto indicarlo come Regio Commissario straordinario, se in Sicilia davvero si avesse voluto fare opera civile di pacificazione e di giustizia! Si dirà che al Corsi non vennero affidati i pieni poteri, precisamente perchè il suo onesto pensiero era conosciuto?
Non voglio divagare nel campo delle ipotesi, che potrebbero riuscire di disdoro a chicchessia: ma che tale ipotesi abbia qualche fondamento si può argomentarlo dalla denunzia - fatta dall'on. Saporito-Ricca - della citata circolare dell'antico Comandante del XII Corpo di armata, nella quale si prescriveva di non adoperare le armi contro nessuno in nessuna occasione. Certo è poi, che il generale Morra adottò e svolse un programma del tutto opposto a quello del suo predecessore: programma di odio, come per rinfocolare quello grande già esistente: programma d'iniquità, parteggiando per i proprietarî e per le classi dirigenti contro i lavoratori.
Esagero, calunnio? Si ascolti non la mia, ma la voce del giornale ufficioso più autorevole che ci sia in Italia e che nella sua amarezza lascia comprendere che se in alto si è soddisfatti dell'opera soldatesca del generale Morra, nelle sfere ministeriali, invece si è assai malcontenti della sua opera civile. «Il paese - dice la Tribuna - attendeva da lui un principio di pacificazione. Era in condizioni di ottenerla. Tutte le vie gli erano aperte: autorità altissima, eccezionale, senza opposizioni burocratiche, senza difficoltà e opposizioni locali, perchè i Consigli comunali erano o sciolti o in sua potestà: con un popolo in parte fatto docile dai suoi soldati, in parte dal lato dei proprietari, ancora sotto la paura delle recenti ribellioni, il generale Morra poteva mettersi in mezzo, arbitro e paciere, e svolgere tutto un programma di trattative e di accordi.»
«Hanno detto che il male maggiore della Sicilia era la tirannia dei subbaffitti, contro la quale ferocemente i contadini si ribellavano: ed egli poteva e doveva andare man mano sui luoghi e istituire Commissioni di probiviri e veder di comporre, di accomodare, di migliorare i contratti agrari. »
«Egli doveva e poteva percorrere l'Isola città per città, paese per paese, studiare le ragioni particolari di avversione, di opposizione, le cagioni dalle quali le ribellioni, gli incendi, le uccisioni erano scaturite, e udire, e prendere consigli e rimediarvi e provvedere.
«Era questa opera nobile e santa.»
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«L'ha compiuta; ha tentato neppure di compierla il generale-dittatore?
«Imponiamoci, guardando alle cose siciliane, una doverosa serenità; facciamo un bilancio spassionato delle condizioni dell'isola.
«L'ordine è ristabilito in Sicilia; era difficile ottenerlo senza che la libertà dovesse coprirsi d'un velo.
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«Ma la questione siciliana non era soltanto contenuta in questa semplice enunciazione: ristabilire l'ordine materialmente.
«Conveniva e conviene rimuovere le cause dei tumulti siciliani, le quali ormai sono note; conveniva e conviene migliorare le condizioni dei lavoratori siciliani.
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«Ma questo è avvenuto, che come il generale Morra si è manifestato impari alla missione che gli era stata affidata, così questa legge dei latifondi siciliani è rimasta indiscussa per la chiusura della Camera.
«E la questione della tranquillità pubblica in Sicilia è rimasta risolta solamente a mezzo.
«L'ordine regna in Sicilia, ma un po' come a Varsavia. Le popolazioni sono quiete, ma attendono ancora che siano mantenute le promesse del Governo intorno al miglioramento delle condizioni dei contadini.» (n. 194, 15 luglio 1894).
Ho voluto riprodurre quasi integralmente questo giudizio, che venendo da un giornale tanto temperato e quasi assiduamente laudatore del governo di Francesco Crispi, (assai lodato nello stesso articolo) non può essere menomamente sospettato di partigiana avversione contro il generale Morra e riesce perciò assolutamente caratteristico. E il generale Morra va tanto più severamente biasimato per quello che non ha fatto, in quanto che i poteri veramente straordinarî che gli vennero accordati e dei quali usò ed abusò, sconfinarono sino ad assumere facoltà legislative - come venne rilevato, con parole severe di biasimo, dal Prof. Brusa (Della giustizia ecc. p. 14).
Egli molto poteva, e se nulla fece, segno è che non volle o non seppe fare. E in quanto al saper fare, si avverta che consigli opportuni e suggerimenti adatti alle circostanze del momento, richiesti o spontanei, non gli mancarono: dunque non volle!
L'opera civile del generale Morra dissi che risulta veramente deplorevole non solo dal confronto col programma del generale Corsi e dalle deluse speranze su ciò che si poteva attenderne; ma anche e sopratutto dal paragone con ciò che ha fatto il generale Heusch in Lunigiana in condizioni analoghe e con poteri uguali.
Questo paragone venne fatto, con quello squisito senso artistico che gli è proprio, dall'on. Cavallotti: il quale nella tornata del 25 maggio della Camera dei Deputati, in mezzo alla più viva attenzione dei suoi colleghi al seguente richiamo del Presidente: - «Onorevole Cavallotti, le ripeto di moderare le sue parole. Ella fa requisitorie che non hanno ragione d'essere, e stabilisce coincidenze che proprio non hanno fondamento.» -
«Io non faccio requisitorie, racconto fatti, e non ne parlerei se essi non fossero come il commento di tutta l'opera del generale Morra, troppo diversa da quella del suo collega della Lunigiana. A me, di cui non può essere sospetta la parola; a me, che ritengo illegittimi, perchè non conferiti da nessuna legge i poteri di entrambi i commissarî straordinarî, a me è debito di giustizia, d'altronde già resa dal sentimento pubblico, il riconoscere tra i due la differenza che passa tra chi non si è reso nessun conto del suo mandato e chi, soldato di cuore, investito di dolorosa consegna ha saputo dal male cavare un bene, e profittarne per fare opera di cuore. Invece di farsi compatire coi decreti allegri sulla proroga delle cambiali, invece di appartarsi dal paese e dalla vita delle classi popolari, invece di passare tutti i santi giorni nei salotti dell'aristocrazia a far la vita galante e il cicisbeo alle signore».... Qui il Presidente interrompe con un nuovo richiamo.
- «Eh, onorevole Presidente - continua il Cavallotti - ci vuol altro che richiami! Io vengo da Palermo, dove le son cose notorie, e dove ho raccolto informazioni d'ogni parte, nelle classi più diverse della città. Invece di segregarsi dal popolo, invece di mettersi a parte da tutto il resto della vita cittadina, il generale Heusch capì che là dove ei recavasi erano cause di malessere che non si curano con anni di galera, capì che il suo posto era fra il popolo, fra operai e padroni, fra minatori e proprietari di cave; entrò nelle case e nei tugurî, visitò, studiando, ogni angolo della provincia, portò da una classe all'altra parole di conciliazione e di pace. Ecco perchè egli lascia circondato di simpatie e di rispetto la terra a cui il suo giungere non fu lieto.
«Il generale Morra s'illude molto se crede di avere salvato, coll'opera sua la Sicilia.
«A me basta notare che quando a certe opere si vogliono chiamare soldati si debbono chiamare almeno soldati che abbiano fatta veramente la loro carriera nell'esercito, vissuto la vera vita militare, assorbitene le rare e maschie virtù. E per opera come quella che in Sicilia richiedevasi, ci voleva un uomo che avesse mente e cuore per intenderla. Ecco perchè, concludo, dei due commissari, uno lascia ricordi benedetti da cuori italiani, sull'altro rimane la responsabilità dei mali che non seppe curare, degli odii e dei rancori profondi che egli lascia dietro di sè.»
E pur troppo non è questo il solo confronto che fa torto al Generale Morra: l'Italia nova dovrà ricordare con vergogna che un Satriano, domata la rivoluzione nel 1849, promulgò poco dopo editti contro l'usura e per il censimento dei demanî comunali e dei beni degli enti morali. Ciò che fece un proconsole borbonico non volle fare l'inviato dall'organizzatore principale della spedizione dei Mille. E ciò che avrebbe dovuto e potuto fare - con feroce ironia contro sè stesso - lo dice il generale Morra nella sua circolare del 12 Agosto ai Prefetti della Sicilia, nello annunziare la cessazione dello Stato d'assedio.
Gl'Italiani e la storia sono e saranno inesorabili verso il generale Morra, non solo per quello che non ha fatto, ma ancora e di più per quello che fece, poco, sì, ma cattivo assai.
Date le cause dei tumulti di Sicilia, s'intende che chi voleva fare opra degna di lode e duratura doveva porre ogni suo studio nella loro eliminazione e nella riparazione.
Si sa che in Sicilia sono pessimi i rapporti tra capitale e lavoro, tra proprietarî e proletarî, e che ai lavoratori poca parte si concede di quello che a loro spetterebbe. I lavoratori a migliorare la loro misera condizione stimolati più dal bisogno impellente che dal giusto apprezzamento dei vantaggi che possono venire dalla cooperazione, in qualche luogo si erano riuniti in cooperative di consumo, sottraendosi ai gravosi ed esosi balzelli sui consumi nell'applicazione dei quali le classi dirigenti posero tutta la loro buona volontà per mostrarsi inique. Orbene, chi lo crederebbe? Il generale Morra non solo dispiega il suo furore reazionario contro gli odiati Fasci dei lavoratori e contro i sodalizî, che facevano della politica democratica, ma se la prende anche con quelle cooperative di consumo, che egli avrebbe dovuto promuovere con ogni sforzo, se non in nome di un alto senso politico, almeno sotto l'impulso di un cuore un po' umano.
Nell'odio suo contro i Fasci arrivò a permettere ed a lasciare impunite le usurpazioni indecenti e lo sperpero di ciò che apparteneva ai poveri lavoratori. Così a Mazzara del Vallo gli agenti della questura - dopo un mese dallo scioglimento volontario del Fascio - vanno a perquisire le case dei socî, che in seguito ad indicazione del Consiglio direttivo, erano in possesso dei mobili del disciolto sodalizio e li sequestrano indebitamente e, più disonestamente, prima li adibiscono ad uso della polizia, del municipio e dei soldati, e poscia li vendono all'asta e si arbitrano distribuirne l'irrisoria somma ricavatane, non ai loro legittimi proprietarî, i socî del Fascio, ma ai poveri del paese.
I poveri contadini di Caltavuturo non sanno ancora come fu impiegata la meschina somma ricavata dalla vendita all'asta dei mobili del Fascio fatta da un delegato di Pubblica Sicurezza.
Da quest'odio ingiustificabile contro tutto ciò che ha relazione coi Fasci e che si traduce talora, come a Mazzara, in danno economico dei lavoratori, ne derivò anche la persecuzione contro le cooperative di Consumo.
Una ce n'era a Campobello di Licata, e che si era costituita con grande stento, riunendo i magrissimi risparmi dei poveri lavoratori, e che riusciva invisa oltremodo ai maggiorenti del paese - e si dice anche, per loschi motivi personali. Appena proclamato lo stato di assedio venne disciolta e si sequestrarono.... il pane, il vino, l'olio, la pasta. L'inaudita violenza sarebbe stata completa se, come qualcuno voleva, quei generi fossero stati lasciati a muffire ed a guastarsi in un qualsiasi locale; e si deve all'intervento di un bravo capitano di fanteria se questi nuovi e strani sostituti della dinamite furono consegnati ad un giovane egregio, il Catanzaro, che li ha venduti e ne ha depositato l'equivalente in una cassa di risparmio.
I fatti di Campobello ebbero una coda dolorosa: il pretore, Annibale Mattioli, mosso a pietà dalla condizione dei lavoratori e dai soprusi che subivano, rivelò il suo pensiero nel casino dei cosiddetti civili. Non lo avesse fatto: fu telegraficamente traslocato come sobillatore.
Pregai il generale Morra perchè volesse consentire la ricostituzione della cooperativa, che riusciva utilissima ai lavoratori; denunziai il provvedimento impolitico ed inumano alla Camera; ma ebbi in risposta, e dal primo e da chi si eresse a suo difensore in Parlamento, l'on. Filì-Astolfone, che non si poteva perchè la Cooperativa di consumo di Campobello era una dipendenza del Fascio locale.
Questo motivo, per quanto balordo, non era però che un mendace pretesto; infatti anche dove la Cooperativa preesisteva al Fascio e non era connessa al medesimo la sua sorte non fu diversa. A Caltavuturo la Cooperativa sorse nel 1890 ed era consolidata e prospera nel 1893 quando, in seguito all'eccidio del gennaio vi si costituì il Fascio. La cooperativa riusciva assai giovevole ai miseri contadini ed era perciò antipatica ai galantuomini; perciò il generale Morra si affrettò a discioglierla per dare soddisfazione, come sempre, agli oppressori contro gli oppressi.
I contadini ripetutamente si rivolsero a me per ottenere una giusta riparazione, ed io alla mia volta ne scongiurai amici e congiunti dell'on. Crispi - reputando oramai inutile rivolgermi al Regio Commissario - ed un provvedimento, ad onore del vero, non tardò. Ma qual provvedimento! venne promossa la liquidazione giudiziaria della innocente ed odiata cooperativa di Caltavuturo...
Ancora. La miseria è grande in Chiaramonte Gulfi - che ho dovuto ricordare per il numero considerevole delle vendite d'immobili all'asta pubblica nello interesse e ad istanza del fisco - i lavoratori credono poterla diminuire costituendosi in Cooperativa di consumo conformandosi alle più rigide prescrizioni delle leggi vigenti.
Lo statuto viene redatto, e ad evitare ogni sorta d'inciampi si rivolgono al sottoprefetto di Modica chiedendo il permesso per la riunione dei socî. Con sorpresa mista ad indignazione i lavoratori appresero dal Sindaco che il sottoprefetto in data 18 luglio gli aveva scritto non poter consentire alla domanda «perchè vigendo tuttora l'editto del R. Commissario straordinario per la Sicilia, che sospende il diritto di riunione e di associazione, non potevasi autorizzare la riunione dei socî della cooperativa...»
Non è dunque evidente nel generale Morra il sistematico proponimento di avversare tutto ciò, che può mirare, negli stretti limiti della legge, al miglioramento economico dei lavoratori? Probabilmente, se egli lo potesse, metterebbe agli arresti di rigore il generale Heusch, che in Lunigiana da Regio Commissario si è fatto promotore di una Cassa di soccorso e pensioni degli operai invalidi - uno scandalo! - che gli ha procurato gli elogi calorosi del più antico e instancabile sostenitore della cooperazione; ma il generale Heusch, come scrisse l'on. Prof. L. Luzzatti, «ha asserita la responsabilità morale e sociale della ricchezza e della coltura e la legge di solidarietà, che le collega nel bene come nel male alla miseria e all'ignoranza;... ha seminato l'amore e raccolto la previdenza; ha raccolto fiore che raramente spunta dallo Stato d'assedio, persino la riconoscenza, poichè il lavoro non è ingrato quando il capitale non è implacabile» mentre il generale Morra ha seminato l'odio ed ha ribadito l'oppressione...
In Sicilia, si sa, non si soffre soltanto in basso: soffre anche il commercio, come soffre la piccola e media proprietà. Il generale Morra, previdente e provvidente, si commosse pel primo e gli assestò un colpo per stramazzarlo a terra, ferendolo nella parte più vulnerabile153 - il credito - coi suoi famosi editti sulle cambiali, riusciti un capolavoro d'ignoranza giuridica e di sovvertimento, deplorevoli pel contenuto, e stranamente sibillini nella forma, tanto da esigere a pochi giorni di distanza il commento straordinario dello stesso straordinario loro autore. Il Commercio serio ed onesto, sdegnato, protestò pel non richiesto editto; solo qualche giuocatore di baccarat, che discende da magnanimi lombi, invece avrà potuto attestare al Regio Commissario la propria riconoscenza. Il Commercio onesto e serio avrebbe potuto giovarsi dalla rimozione di alcune stupide pastoie postegli collo Stato di assedio e il generale Morra non fu sordo alle sue preghiere: dopo sei mesi si accorse che l'Italia non correva alcun pericolo consentendo ai negozianti la trasmissione dei telegrammi in linguaggio convenzionale. Sia lode a lui!
C'era un campo in Sicilia in cui si avrebbe potuto mietere allori in gran copia da chi si fosse proposto di fare opera di sincera riparazione: quello delle amministrazioni comunali. La circolare che nei primi giorni della sua dittatura emanò il Regio Commissario fece sperare che egli si sarebbe messo sulla buona strada, poichè nella medesima si davano norme e criterî retti per la revisione dei bilanci e dei tributi comunali, affinchè gli uni e gli altri commisurati ai mezzi disponibili rispondessero all'interesse generale delle popolazioni. E ciò che si avrebbe potuto e dovuto fare ha ripetuto nella citata circolare del 12 agosto.
La circolare giustificò i moti siciliani e li spiegò, senza bisogno di ricorrere ai sobillatori e alle cospirazioni alla Gaborieau; e fece di più: insegnò che le intenzioni buone, senza i fatti corrispondenti, costituiscono la più deplorevole delle ipocrisie. E i fatti non potevano essere più inconsultamente scellerati.
Ecco la ragione del severo giudizio:
Dalla circolare del generale Morra di Lavriano, da accenni e telegrammi dell'on. Crispi, dai telegrammi dei Prefetti e sotto prefetti nei momenti del pericolo e quando in Sicilia non c'erano ancora truppe a sufficienza, emerge che il Presidente del Consiglio e il Regio Commissario Straordinario, che il governo insomma, in alto e in basso, riconosceva ciò che deputati e pubblicisti avevano denunziato, e cioè: che la causa determinante dei moti di Sicilia doveva riconoscersi nella partigiana, dissennata e iniqua amministrazione dei municipî, infeudati da anni a consorterie locali che ne usavano ed abusavano in tutti i modi sotto l'egida dei Prefetti, ed anche di deputati, ai quali in contraccambio delle protezioni accordate rendevano con zelo servizî polizieschi ed elettorali.
Un governo perfettamente conscio di tale stato di cose, che avrebbe dovuto fare immediatamente, fulmineamente? Tener conto della indicazione causale, provvedendo al sintomo più minaccioso e più doloroso: dare addosso alle camorre locali, alle mafie amministrative, disoneste e prepotenti!
Ebbene, il governo italiano ha fatto cosa che sembrerà in appresso inverosimile, impossibile e che è rigorosamente vera: ha messo la sua fiducia in quelle consorterie, che avrebbe dovuto punire; dove non c'è delegato di pubblica sicurezza ne ha lasciato la funzione ai sindaci malvisti e che si sanno odiati; e sindaci ed assessori hanno consigliato e fatto eseguire gli arresti dai carabinieri e dalle truppe ai loro ordini; essi, proprio essi! hanno imbastito processi mostruosi di cui per un pezzo si dovrà vergognare l'Italia; e per loro suggerimento sono stati deportati giovani d'illibata condotta, rei soltanto di avere militato nelle fila della opposizione amministrativa e di avere svelato le turpitudini commesse dai feudatari municipali. Così, coloro che avrebbero dovuto essere puniti, coloro che si videro minacciati dall'ira popolare - ex lege, in mancanza dell'azione punitrice legale - sono stati messi in condizione di fare le proprie e spietate vendette sugli avversarî accusatori.
E il generale Morra non si contentò di lasciare al loro posto quegli amministratori, che avrebbe dovuto punire quale causa vera e diretta dei tumulti, ma si rese loro complice, e somministrò loro gli strumenti per consolidarsi al potere, fare le proprie vendette e continuare nella dilapidazione e nella oppressione dei lavoratori, e dei vinti avversarî.
Qualche Consiglio comunale fu sciolto in sulle prime; e questa parve soddisfazione accordata a coloro che avevano protestato in tutti i modi e che avevano reclamato l'opera risanatrice di un regio commissario. Ma la resipiscenza verso il male non tardò, e dove i regî commissarî mostrarono onesti propositi di riparare ai mali furono rimossi o costretti a dare le dimissioni, perchè avevano osato disturbare le antiche disoneste e prepotenti camerille amministrative154.
Era noto del pari, che le disoneste camerille locali si mantenevano155 al potere mercè la falsificazione delle liste elettorali, nelle quali indebitamente erano iscritti gli amici fedeli, i complici, i dipendenti e ne erano cancellati quanti erano in odore di avversarî. Il generale Morra volle che tale stato di cose non fosse menomamente modificato. Curò, anzi, che s'impedisse qualche levata di scudi da parte degli elettori stanchi delle pessime amministrazioni; e dai suoi Commissarî straordinarî fece fare più che una decimazione, una vera strage di elettori di parte popolare, e chiamati sobillatori.
La strage fu parziale da principio, e limitata alle località nelle quali era avvenuto lo scioglimento del Consiglio Comunale e dove si sapeva che i sobillatori avevano grande seguito.
Così a Piana dei Greci fu mandato quel regio Commissario, che si rese celebre a Misilmeri e di cui si occupò l'on. Comandini nel Corriere della Sera, il quale cancellò 527 elettori dalla lista, radiando come analfabeta, a quanto si dice, anche un Professore di lettere in un Regio Ginnasio di Palermo!
Poscia la misura divenne generale coll'invio dei Commissarî speciali per la revisione delle liste elettorali; commissarî che spiegarono a preferenza la loro azione dove democratici e socialisti preponderavano. In tal guisa a Catania, patria e collegio dell'on. De Felice, si cancellano cinquemila elettori sopra novemila iscritti: cifra quest'ultima niente affatto esagerata per una città di oltre centomila abitanti; mentre nelle cittadelle dei conservatori - Aci Reale, Bronte, Castelvetrano, ecc., ecc. - gli elettori oltrepassavano ogni misura; arrivavano anche ai 25 e al 30 per cento della popolazione, quanti non avrebbero potuto essere col suffragio universale; mentre a Catania vennero cancellati dalle liste elettorali professori di Università, medici, ingegneri, avvocati, proprietarî... E la censura sapientissima non tollerò che la mostruosa epurazione, come veniva chiamata, fosse denunziata e discussa in pubblico156.
Con questi savi provvedimenti il generale Morra avrà pensato di riparare alle malversazioni, alle corruzioni elettorali, alle ingiuste ripartizioni dei tributi, a tutti i mali delle amministrazioni locali denunziati e non contraddetti nè in Parlamento nè fuori.
Certo è che egli ne ha annunziati e disciplinati non pochi; e tanto ha disciplinati alcuni municipî, che alcuni si sono fatti spontanei iniziatori della sottoscrizione di un indirizzo - che suona protesta contro le irriverenti parole pronunziate dal Cavallotti nella Camera dei deputati - proclamante la benemerenza del generale Morra di Lavriano e della Montà per la sua opera civile di rigenerazione nella desolata Sicilia!
Quest'opera civile poteva rimanere incompleta se non si pensava alla base: alla coltura cioè, e alla educazione. In Sicilia il numero degli analfabeti era ed è grandissimo, quale in nessun'altra157 nazione civile di Europa; ebbene, si rimedia assecondando le aspirazioni dei grandi proprietarî della sala Ragona, che acclamarono alla proposta di sopprimere la istruzione obbligatoria; incoraggiando quel bravo consigliere di Prefettura, che in Mazzarino proclamò che il dogma della nuova Italia da ora in poi dovrebbe essere quello della ignoranza obbligatoria ed in conformità chiudendo tutte le scuole, ch'erano state scandalosamente aperte dai Fasci, tanto deleterie pei lavoratori quanto le cooperative di consumo.
Il libero insegnamento scientifico è uno scandalo e il generale Morra chiama nel suo ufficio due professori della Università di Palermo - Schiattarella e Salvioli - e fa loro intendere e si fa promettere che nelle lezioni non ci doveva entrare la sobillazione, se no... Si sa che un poco di domicilio coatto fortifica lo spirito e prepara nobilmente ad impartire una scienza sana ad usum delphini, a base di catechismo e di cristianesimo annacquato e corretto, di completo gradimento di Monsignor Celesia e degli altri vescovi, che generosamente si scagliarono contro i socialisti relegati, processati, imprigionati!
La mente eletta e l'animo nobile del generale Morra non si rivelarono soltanto nelle cennate circostanze e nei modi summenzionati; altre occasioni egli ebbe di mettere in evidenza la equanimità, la delicatezza dei sentimenti, il tatto squisito. Il premuroso sindaco di Catanzaro manda - spontaneamente s'intende - un telegramma al colonnello Giussani Presidente del Tribunale militare, in difesa del Questore Lucchese e in danno di De Felice e C.?
E il generale Morra lo lascia pervenire al suo indirizzo. Da Catanzaro mandano poco dopo un telegramma al Giornale di Sicilia, che dà notizia delle proteste del Consiglio Comunale contro l'operato del sindaco, e che gioverebbe agli stessi accusati? E il generale Morra si affretta a sequestrarlo. Ciò per la equanimità.
Quanto al tatto squisito, il generale Morra distribuisce lodi e dà banchetti in quali occasioni e per quali motivi? Lasciamolo dire a Felice Cavallotti.
Il generale Morra «è l'autore di quel saluto di congedo agli ufficiali in partenza, che dopo avere nell'isola, tra dolorosi frangenti158, mostrato pur cuore di soldati italiani, mentre partivano pensosi ed afflitti delle cose vedute, si udirono in un discorso gonfio di rettorica vanesia decretare allori da essi nè bramati nè sognati nè chiesti, i tristi allori della guerra civile, come tornassero da Filippi o da Farsaglia.
Di più: «il giorno che nell'aula di un tribunale si domandano 23 anni di galera, per delitto di lesa patria, contro un deputato italiano, fino a ieri circondato dall'aura popolare, rappresentante di una illustre città, onorato della fiducia di due collegi dell'isola sua... il giorno che tanti anni di galera si domandano contro un deputato e contro altri cittadini italiani, alle cui virtù morali e civili lo stesso rappresentante, non dirò della legge, che non lo è, ma dell'accusa, ha dovuto rendere omaggio, è sempre un giorno doloroso per chiunque abbia cuore italiano, per chiunque abbia senso di gentilezza italiana.
«Ebbene, è deplorevole che questo sentimento elementare non sia stato capito dal signor generale Morra di Lavriano, il quale ha creduto delicato, opportuno, gentile, scegliere proprio il giorno, in cui si pronunziava quella enorme requisitoria... (Interruzioni) per indire, proprio in quel giorno, in via eccezionale un solenne festoso banchetto ai notabili e all'alta società di Palermo. (Rumori). Io mi domando a quale altro generale che non fosse il generale Morra di Lavriano sarebbe venuta in mente un'idea così peregrina, coprendo un ufficio che per la sua stessa anomalia di fronte alla legge esigeva per lo meno un tatto squisito, e in un momento nel quale la pacificazione degli animi è il bisogno supremo dell'isola.
«Io nato in Milano, sotto il felice governo di Casa d'Asburgo, ben so che i generali austriaci sceglievano i giorni delle condanne di patrioti per indire feste e banchetti, a provocazione e sfida del sentimento cittadino. E se mal non ricordo, devo aver letto in un bellissimo libro del deputato Bufardeci, qui a me vicino, libro scaldato da quella fiamma giovanile che pare oggi essersi riconcentrata nell'animo dei vecchi, che il maresciallo Del Carretto sceglieva il giorno della esecuzione di Mario Adorno e del suo figlio giovanetto in Siracusa per celebrare l'eccidio con una festa da ballo. Ma è deplorevole che, dopo 34 anni che l'Italia fu redenta, reminiscenze e confronti simili si ridestino da generali italiani!»
E chi infine oserebbe mettere in dubbio la delicatezza dei sentimenti del Generale Morra di Lavriano e della Montà, che all'indomani della sentenza che manda l'on. De Felice per diciotto anni nella reclusione, espelle da Palermo la gentile Maria, colpevole di non sapere nascondere il cordoglio ineffabile per la condanna del padre e di destare la simpatica commiserazione in una cittadinanza cavalleresca e pietosa?
Un ultimo accenno all'opera civile del generale Morra.
Perchè essa fosse riuscita proficua, opportuna, apprezzata sarebbe stato necessario che egli avesse percorso la Sicilia, per conoscerne de visu i mali, che egli avesse avvicinato i sofferenti e gli oppressi ed avesse ascoltato dalla loro viva voce i reclami e le proteste, che si fosse frammischiato col popolo e col popolo avesse vissuto. Il Generale Heusch gli dette l'esempio in Lunigiana di ciò che avrebbe dovuto fare; ed anche qualche suo subordinato, il simpatico colonnello Pittaluga, gli additò la via da battere. Ma tali esempî non erano degni di lui; egli invece di visitare i tugurî, di informarsi delle sofferenze del popolo, di studiarne le cause, preferì passare da una casa principesca all'altra, da questa a quell'altra villa per gradire banchetti lauti, per assistere a sfarzose soirèes, che riuscivano un insulto alla miseria grande delle moltitudini: insomma tutto fece meno che muoversi da Palermo e adempire il proprio dovere.
Principi, marchesi e baroni si tennero onorati delle visite dell'ospite eminente e vollero mostrarsi riconoscenti: cospirarono - è la parola adatta - per fargli concedere la cittadinanza onoraria di Palermo; ma la città di Palermo, giammai vile e servile, sventò la indecorosa manovra, e colla sua attitudine impose il rispetto che si doveva ad un paese che tale onorificenza solo a Garibaldi ha voluto concedere.
Solo per un momento il Morra vuol rendersi popolare e va al Foro italico per assistere... alla benedizione delle capre!
Finalmente esce da Palermo, dove si godette i suoi veri ozî di Capua, e va a fare la sua visita di congedo alla Sicilia. Va e passa in rassegna le truppe per informarsi, forse, se le cartucce sono sufficienti e se i fucili sono pronti per ripetere la cura del piombo al popolo. Vero è che egli raccoglie ciò che merita: accoglienze strettamente e glacialmente ufficiali dai suoi dipendenti, talvolta urli e fischi dagli imperterriti Gavroche isolani, che non sanno valutare e temere abbastanza i benefizî e i pericoli dello Stato di assedio: ma in compenso lo conforta il brindisi laudatorio dell'on. Marchese di San Giuliano...
Il generale Morra lasciando l'Isola, nella sua circolare ai prefetti, osò scrivere questo periodo sbalorditoio, ch'è meritevole di essere tramandato ai posteri, come l'indice più esatto della sua incoscienza: «Durante questo periodo eccezionale sprezzando fatiche e disagi mi sono dedicato con vero affetto alla non facile impresa della pacificazione degli animi per varie cause eccitati, e allo studio arduo dei principali bisogni delle popolazioni siciliane....»
E l'ironia amara per quest'opera incivile del Regio Commissario straordinario in Sicilia potrebbe continuare, se non fosse tempo di ricordare che di quest'opera sua c'è chi è direttamente e politicamente responsabile di fronte al paese: l'on. Crispi.
Si mentirebbe e si calunnierebbe il Presidente del Consiglio dei ministri se si dicesse che egli sia rimasto contento e soddisfatto del modo come il generale Morra ha adempiuto alla delicatissima e grave missione affidatagli. Si assicura che egli si sia accorto in tempo della cattiva scelta fatta e che non abbia nascosto il suo malumore. Un sintomo del suo malumore si volle scorgere nella insolita fiacchezza colla quale difese egli nella Camera dei deputati il regio Commissario dagli attacchi dell'on. Cavallotti159.
Ma se l'on. Crispi si accorse in tempo che il Generale Morra non rispondeva alle esigenze imperiose della difficile situazione, perchè non lo rimosse dall'ufficio? Forse temette di attentare alla reputazione della propria infallibilità? Più verosimilmente ubbidì ad ordini che vennero dall'alto protettore del Morra. Nell'uno e nell'altro caso sul capo del governo che scelse un uomo inadatto al compito e lo mantenne, quando si manifestò tale apertamente, ricade la responsabilità intera dell'errore commesso. In un modo solo potrebbe farselo perdonare: disfacendo l'opera del generale Morra e cominciando dalla pacificazione degli animi, che non potrà iniziarsi efficacemente se non coll'amnistia: amnistia, suggerita dalla160 suprema Corte di Cassazione, e moralmente necessaria ai giudici anzichè ai condannati.