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Falascia e missioni religiose in Etiopia prima delle spedizioni di Jacques Faitlovitch: ricerche storiche e testimonianze di viaggiatori. |
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Falascia e missioni religiose in Etiopia prima delle spedizioni di Jacques Faitlovitch: ricerche storiche e testimonianze di viaggiatori.
Costante nel corso del tempo, fin da epoche antiche, è stato l'interesse per le popolazioni abissine di fede ebraica, noti come Falascia o Kayla ed in epoca più recente detti Beta Israel (la casa di Israele); interesse stimolato dalla singolarità di una gente ebraica di colore e dalle origini oscure, tenacemente legata alla propria fede tanto da resistere ad ogni tentativo di convertirla. Carlo Conti Rossini ha così ricordato l'interesse per i Falascia dimostrato dagli studiosi "... sia per l'eroismo con cui seppero attraversare, senza andarci sommersi, tante spaventose tempeste politiche e belliche, sia pe’ molti ed oscuri problemi di storia e di religione connessi con loro, sia, in alcuni ambienti più strettamente confessionali, per la loro stessa esistenza, nel remoto continente africano, in mezzo a popoli battaglieri di altre fedi".1
Una prima testimonianza sulla loro esistenza ci è data da Heldad Ha-Dani: nell'anno 880, recatosi presso la comunità ebraica di Qairawan, asserì di appartenere alla tribù di Dan, che assieme ad altre tribù avrebbe formato un regno ebraico nell'Africa orientale.2
Successivamente, un altro viaggiatore ebreo, Beniamino da Tudela, negli anni 1159-1173 compì un lungo viaggio fino a Bagdad, riferendo nel suo resoconto di aver appreso nel 1171 durante uno scalo nel porto di Aydháb, sulla costa africana del Mar Rosso, l'esistenza nell'India media (nome con cui si indicava in quell'epoca l'Etiopia), di una popolazione ebraica stanziata sulle montagne abissine.3
Marco Polo non visitò l'Etiopia, ma riferì le notizie pervenutegli sugli Ebrei di quel paese, anche da lui denominato "India media". Nell'edizione francese del "Milione" sostenne difatti la presenza di un supremo re cristiano, da cui dipendevano altri sei sovrani (tre cristiani e tre musulmani); la popolazione però era composta, oltre che da cristiani e musulmani, anche da ebrei; la fede religiosa era indicata dal diverso numero di marchi impressi a fuoco, rispettivamente tre per i cristiani, due per gli ebrei, uno per i musulmani.4
Si trattava comunque di notizie approssimative e sommarie; poco interesse per i Falascia dimostrarono poi i Gesuiti, venuti al seguito della spedizione portoghese del 1541, al comando di Cristoforo da Gama, uno dei figli di Vasco, il famoso navigatore, chiamato in aiuto dall'imperatrice Elena, alla cui tutela era affidato l'ancor giovane suo successore Dawit, contro la pericolosa invasione dei musulmani del terribile Adel Ahmed, detto "Gragn", cioè il mancino.
- 2 -I Gesuiti difatti miravano a convertire i Copti e quindi trascurarono i Falascia e le loro particolari tradizioni; ma non mancarono di trattare i vari aspetti di quel diffuso ebraismo di cui era permeata la chiesa abissina, costituendone il brodo di coltura, non del tutto riportabile però ad un diretto influsso dei Falascia, poiché era un patrimonio religioso ereditato da una tradizione biblica comune alle Chiese Cristiane orientali.
Il gesuita portoghese Gerolamo Lobo nella sua lunga ed avventurosa esistenza ( 1593-1678), costellata di viaggi che lo portarono fino in sud America, fu pure in Abissinia, oltre ad essere stato rettore della casa professa di Goa, in India.
Nella sua relazione storica sull’Abissinia spiegò la locale tradizione ebraica ricorrendo alla leggendaria unione della regina di Saba con Salomone, da cui sarebbe nato Menelik, succeduto alla madre sul trono, importando in Etiopia l'Ebraismo: “... c’est de là qui sont venus tant de ceremonies juives qui se conservent encore parmi les Abissins”, scriveva l'autore.5
Uscendo dal mito, il padre Lobo non mancava comunque di ricordare dati storicamente più certi, come la vittoriosa spedizione in Arabia delle re abissino Kabeb nel 521 d.C. "...pour punir Denawes Prince juif, qui persecutoit cruellement les Chrétiens”; sconfitto ed ucciso Denawes, il regno rimase ai vincitori abissini finché non furono a loro volta sconfitti dai musulmani.6
Il gesuita manifestava poi le sue perplessità per le numerose affinità della Chiesa copta con lo Ebraismo (la circoncisione; il matrimonio della vedova col fratello del marito morto; la rigorosa osservanza del sabato, vietata ai cristiani dal Concilio di Laodicea; il rispetto per i divieti alimentari imposti dalla legge; la purificazione stabilita per le puerpere); finiva quindi per chiedersi a proposito degli Abissini: "...enfin on a raison de demander s’ils sont plus Chrétiens que juifs”. 7
In definitiva Lobo riconosceva comunque l'affinità della Chiesa Copta con quella cattolica e polemizzava con il luterano Ludolf, autore di una monumentale storia dell’Etiopia, che aveva invece sostenuto una vicinanza dei Copti alla fede protestante. A sostegno della sua asserzione il padre gesuita citava le preghiere per i defunti, la pratica della confessione, la fede nei miracoli, il culto delle immagini e delle reliquie,la devozione alla Vergine ed ai Santi. Ludolf aveva ricordato l'autorità religiosa oltre che civile attribuita al negus: ma Lobo gli opponeva l'indipendenza dell’Abuna, nominato dal Patriarca di Alessandria, capo supremo della Chiesa abissina, tra le cui prerogative c'era l'unzione sacra da cui il sovrano derivava la propria autorità e legittimità.8
Nonostante tale riconoscimento, il gesuita manifestava le sue riserve sulla fede religiosa degli Abissini: " Leur ignorance, leur séparation de l’Église Catholique, leur partialité pour Eutichés, leur commerce avec les Juifs, les Gentils et les Mahometans, tout cet ensemble y a introduit tant d’erreurs, qu’on peut dire qu’ils n’ont que le nom de Chrétiens, et que leur Religion n’est qu’un mélange de diverses superstitions Judaiques et Mahometanes, dont ils on défiguré ce qu’ils ont retenu du Christianisme”.
Con un giudizio ondivago il padre Lobo però proseguiva così: " Ils ont néammoins conservé la croyance de nos premiers Mystères. Ils célèbrent avec beaucoup de piété la Passion de Nôtre Seigneur, ils révérent la Croix, ils ont une grande devotion à la Vierge, aux Anges et aux Saints, ils chômment leurs Fêtes et sanctifient Dimanche fort exactement”. 9
- 3 -Eppure dubitava della validità del battesimo impartito dai Copti perché usavano formule diverse da quelle cattoliche, "...de sorte qu’on a três grande raison de douter de la validité de leur Baptême, et de dire qu’ils ne sont pas véritablement Chrétiens”. 10
Diviso tra la condanna e l'apprezzamento, condizionato anche dalle necessità polemiche nei confronti del luterano Ludolf, il giudizio del padre Lobo rispecchiava le difficoltà e le esitazioni della missione da compiere, oscillando tra la tolleranza e l'intransigenza.
Oscillazioni del resto comuni anche a Sant'Ignazio, interessatosi personalmente alla missione in Etiopia, tanto da redigere egli stesso le istruzioni per i confratelli incaricati di svolgerla. Nella prima stesura di quelle istruzioni difatti il fondatore dell'Ordine raccomandava di mostrarsi tolleranti verso gli usi dei Copti, in particolare verso la circoncisione, verso la quale era diviso nel ‘500 il giudizio dei teologi: per alcuni era soltanto una pratica igienica, per altri invece, ed erano la maggioranza, si trattava di una pratica religiosa ebraica,inaccettabile per i cattolici. " Tolerem lo que se puede etiam la circoncision mente donandae salutis” (“Tolleriamo quanto si può, anche la circoncisione nell'intento di dare la salvezza") aveva scritto il Santo, ma tale apertura scomparve nel testo definitivo delle istruzioni.
Dal canto loro i missionari portoghesi in Etiopia condannano decisamente quella pratica, ritenuta frutto di inaccettabili superstizioni. Ma questa presa di posizione causò difficoltà ed anche a Roma i Gesuiti furono accusati di intolleranza e ritenuti responsabili della persecuzione dei cattolici in Etiopia. Fu pertanto interpellata la Congregazione Propaganda Fide per decidere quale atteggiamento assumere su quella controversa questione. La Congregazione, ritenuto trattarsi di un problema grave, si rivolse a sua volta al Sant’Uffizio, che il 28 agosto 1637 decretò la condanna della circoncisione.11
La resistenza degli Abissini nel mantenere quella loro tradizionale usanza era confermata da una lettera del gesuita Tommaso Barnetto: il principale ostacolo incontrato per la conversione della moglie del viceré del Tigrai, Miserat Christos, era stata appunto l'ostinata difesa della circoncisione opposta dalla donna, prima di essere alla fine convinta dalle argomentazioni del gesuita.12
Sulla circoncisione si soffermò pure un altro gesuita, Emanuele Barradas, attivo nel Tigrai negli anni 1624-1633, condannando come un errore della Chiesa Copta d’ Abissinia l’averla ammessa a causa dell'influenza esercitata dagli Ebrei d'Etiopia, cioè dai Falascia.13
In realtà è ormai generalmente accettato che la circoncisione presso molti popoli dell'Africa e di altri continenti era praticata per finalità e igieniche oltre che religiose, anche al di fuori di ogni possibile influsso ebraico.
I Cunama, popolazione abissina, consideravano un dovere circoncidere i bambini all'età di 6 o 7 anni ( non praticavano però l’escissione femminile), perché le anime dei non circoncisi non potevano uscire dalle tombe ed erano condannate a patire sofferenze. L'operazione era ritardata fino a quell'età, a differenza di altre popolazioni che la praticavano molto prima (i Falascia a 40 giorni dalla nascita, ad 80 giorni avveniva l'escissione) perché i Cunama ritenevano che solo allora i bambini fossero divenuti coscienti, per cui prima non avrebbero sofferto. La circoncisione dava diritto alle onoranze funebri.14
- 4 -Evidenti ragioni confessionali avevano spinto il gesuita Lobo ad una polemica religiosa, prima ancora che scientifica, contro il luterano Ludolf, di cui comunque riconosceva i meriti di studioso della cultura e della lingua etiopica, affermando peraltro di essersi egli giovato dell'opera di un altro gesuita, Baltasar Teller, autore di una storia dell’Abissinia da cui l'orientalista tedesco avrebbe attinto ispirazione e notizie; Lobo esprimeva invece molte riserve sull'importanza da attribuire ad un'altra fonte, il dotto abissino Abba Gregorio, tenuto in gran conto da Ludolf, che da lui aveva appreso l'etiopico a Roma.15
Lo studioso tedesco nella sua " Historia Aethiopica” e nel successivo commentario dedicò notevole attenzione all'origine, alla religione ed agli usi e costumi dei Falascia, a differenza dei padri Gesuiti, cui rivolgeva questo appunto critico: " Non cura fuit patribus Societatis perscrutari, quando vel qua occasione isti primum in Aethiopiam venerint? Karraerumne vel aliorum judeorum sectae sunt addicti? Quibus codicibus sacris cum vel sine punctis vocalibus utantur? Librosne alios, praesertim historicos, vel saltem traditiones de sua Habessinorumve gente habeant, quod noscere multis eruditorum procul dubio pergratum futurum fuisset, quia non absimile vero illos antiquos possidere libros cum diu secure in tam munitis locis incilatum egerint”. 16
Ludolf ricordava poi come in passato i Falascia avessero occupato molte regioni, in particolare quella di Dembea, riteneva però una leggenda l'esistenza di un regno ebraico ed auspicava che in futuro gli studiosi potessero far luce sui punti ancora poco chiari: la loro provenienza, l'esistenza di tradizioni proprie ovvero desunte da quelle abissine. Per il quesito fondamentale, la loro provenienza, lo studioso accettava la tradizione del viaggio della regina di Saba presso Salomone,da cui avrebbe avuto il figlio Menelik; tradizione però non accettata in modo acritico, giudicava infatti una "fabula, non minus crassa quam novo regi indecora" ( "una leggenda, non meno grossolana che sconveniente per il nuovo re") il furto dell'Arca Sacra portata in Etiopia da Menelik.
Circa l'ubicazione del regno di Saba, se in Arabia o in Etiopia, Ludolf riteneva che quel regno aveva probabilmente compreso entrambe le rive del Mar Rosso. Erano elencate tutte le usanze dei Falascia presumibilmente di origine ebraica: la circoncisione,l'astinenza dai cibi vietati secondo la legge mosaica, la festività del sabato.
Ma anche a tali aspetti Ludolf dedicava un'attenzione critica, ricordando come la circoncisione fosse praticata anche dagli abissini Copti e dai musulmani per ragioni igieniche senza un carattere religioso;ed il rifiuto della carne suina poteva dipendere da consuetudini più che da precetti religiosi. Inoltre, fino al Concilio di Laodicea il sabato festivo era stato rispettato dalle Chiese cristiane orientali. La Chiesa copta aveva accettato i riti ebraici non contrastanti con i principi del Cristianesimo.
I Copti erano stati i più conservatori fra i cristiani di vario di rito, mantenendo antiche usanze altrove non più osservate. Avevano conservato, in campo architettonico, la pianta tripartita delle chiese; l'offerta di sacrifici da parte dei Falascia trovava un riscontro, oltre che nei precetti della legge mosaica, anche nei Vangeli; a riguardo Ludolf citava da Matteo ( 5, 23 e 24) "si ergo offers munus tuum ad altare" ( " se quindi offri il tuo dono presso l'altare”) e "relinque ibi munus tuum ante altare" ("lascia il tuo dono qui davanti all'altare"), precisando però trattarsi non di animali da sacrificare, ma piuttosto di oggetti necessari alla Chiesa.
- 5 -In quanto alle attività produttive dei Falascia, Ludolf ricordava come essi si dedicassero all'artigianato; il commercio era praticato invece dagli arabi, in grado di spostarsi con maggior facilità sulle sponde del Mar Rosso, popolate da musulmani; in minor misura si dedicavano al commercio anche gli Armeni, avvantaggiati dall'affinità della loro religione con quella dei Copti.
Ed infine per Ludolf una prova certa dell'influenza ebraica in Abissinia era lo stemma reale, in cui figurava il motto " vicit Leo de tribu Juda” ("ha trionfato il Leone della tribù di Giuda").17
Ludolf non ebbe una diretta conoscenza dell’Abissinia e per la sua opera si giovò di documenti e di testimonianze, soprattutto di quella del già citato Abba Gregorio.
Al contrario lo scozzese James Bruce fu in Africa per 5 anni, dal 1768 al 1773, alla ricerca delle sorgenti del Nilo; nel corso del suo viaggio visitò pure l’Abissinia e dedicò attenzione alla storia ed alle usanze dei Falascia, dimostrando però uno spirito critico meno spiccato di quello di Ludolf. Senza fare alcuna riserva o distinzione il viaggiatore scozzese riportò infatti la leggenda della regina di Saba e di Salomone, le cui navi si erano spinte fino al Mar Rosso, per procurarsi oro ed altri prodotti preziosi. La regina – riferiva Bruce era chiamata Belkis dagli Arabi e Maqueda dagli Abissini; la sua esistenza era attestata da tutte le popolazioni sparse sulle rive del Mar Rosso, compresi i pagani; ed esisteva pure un riscontro nei Vangeli (Matteo XII, 43; Luca XI, 31) in cui era ricordata come “la regina del Sud”; Bruce riteneva pertanto che il suo regno fosse posto più a sud dell’Arabia, sulla costa africana prospiciente il Madagascar; inoltre la regina, a suo giudizio, non era di origine araba, poiché il regno di Saba era uno Stato a sé ed i Sabei erano un popolo distinto dagli Arabi e dagli Abissini.
Negli Annali abissini, ricordava però Bruce, la regina non era considerata proveniente dall’estremo sud, era detta pagana prima di convertirsi all’Ebraismo una volta giunta a Gerusalemme. Sempre secondo gli Annali abissini il figlio Menelik, avuto da Salomone, era tornato in Etiopia, accompagnato da molti dottori della legge ebraica, cui l’intero paese si era convertito. Dopo la madre Maqueda, Menelik regnò con il nome di Davide I, a partire dal 986 a.C. ; poco attendibile secondo Bruce era da considerarsi l’elenco dei successivi sovrani; come Ludolf, anche Bruce considerava una prova certa dell’influenza ebraica il motto dello stemma regale, così riportato: “The Lion of the race of Salomon and tribe of Juda hath overcome” (“Il Leone della razza di Salomone e della tribù di Giuda ha trionfato”).
La tradizione abissina concordava con quella dei Falascia la cui Bibbia – osservava ancora lo scozzese – era nella lingua sacra degli Abissini, il ge’ez, nonostante i lunghi conflitti con essi. I Falascia si distinguevano dagli altri Ebrei perché non conoscevano il Talmud e la Cabala, né la lingua ebraica; avevano soltanto tradizioni orali; inoltre non portavano i tradizionali filatteri. L’ignoranza dell’ebraico da parte dei Falascia attestava inoltre, secondo Bruce, che essi erano arrivati dopo il periodo della prigionia babilonese, quando la lingua degli ebrei era solo il caldeo, avendo essi dimenticato la loro lingua originaria.
Alla domanda di Bruce perché la loro Bibbia fosse in lingua ge’ez, i Falascia avevano risposto che i libri portati dalla Giudea erano andati distrutti; né, essendo sprovvisti di navi, potevano recarsi in
- 6 -Palestina per prenderne altri. Non avevano poi i Falascia saputo rispondere a Bruce che chiedeva perché non vi fossero andati via terra. Rimaneva oscuro per Bruce come mai i Falascia avessero accettato una Bibbia in ge’ez, lingua degli Abissini seguaci del Vangelo, testo non avversato dai Falascia, ma ritenuto un'opera stravagante, poiché affermava esser già venuto il Messia, da essi ancora atteso, come un principe conquistatore oltre che un profeta religioso.18
Nel secolo successivo si moltiplicarono le notizie sui Falascia. Già agli inizi dell'800 lord Valentia, accompagnato dal suo segretario Henry Salt, compì una missione di studio in Abissinia, i cui risultati,comprese alcune note sui Falascia, furono riportati nel rapporto finale. Sull'origine dei Falascia è citata la tradizionale versione della discendenza da Salomone, attestata dalle pratiche giudicate di origine ebraica ( circoncisione, prescrizioni rituali per la macellazione), per cui appariva dubbia l'ipotesi di un arrivo dall'oriente arabico, attraverso lo stretto di Bab el Mandeb. Lord Valentia però obiettava che la discendenza da Salomone non sembrava conciliabile con la iscrizione greca trovata ad Axum in cui si celebrava il re Aizana,19 dicendolo figlio del Dio Marte: tale discendenza pagana non poteva essere riferita ad un ebreo tra i cui avi figurava il re Salomone. Era inoltre affermato che la regina di Saba, chiamata Makeba dagli Abissini, doveva aver regnato su entrambe le sponde del Mar Rosso, poiché l’oro l’avorio da essa donati a Salomone secondo la tradizione erano prodotti dell'Etiopia e non dell’Arabia.
Successivamente il segretario di Valentia, Salt, si recò ancora in Abissinia, ma nell'esporre i risultati delle sue esplorazioni per quanto riguarda l'ebraismo abissino si limitò ad avanzare una semplice ipotesi sulla derivazione ebraica della pratica di evirare i nemici vinti, ricordando quanto avevano fatto di abissini guidati da ras Welled, dopo aver sconfitto i Galla nella battaglia combattuta il 25 gennaio 1808. I membri virili recisi ai Galla erano stati offerti come macabri trofei al ras abissino. Scriveva Salt: “ This horrible custom (if it be not borrowed from the Jews) is probably of Galla origin, and is early mentioned, as being practised on the East coast of Africa. Vide de Bry, 1599, De Caffrorum militia: Victores victis caesis et captis pudenda excidunt, quae exsiccata regi in reliquorum procerum praesentia offerunt”. 20
La possibilità di un'origine ebraica di questa pratica dei guerrieri abissini era forse supposta dall'autore perché confusa con la circoncisione.
A ciò si limita l'interesse di Salt: nel descrivere il suo viaggio sulle montagne del Semien non dedicava alcun accenno alla locale popolazione Falascia, dilungandosi a decantare la bellezza del paesaggio e lamentando le difficoltà del viaggio. 21
A ragione quindi Filosseno Luzzatto annotava che Salt, pur avendo visitato due volte la Abissinia,"...ne dit presque rien sur les Falashas que nous ne sussions déjà par Bruce”. 22
Il giovane studioso si era interessato ai Falascia dopo aver letto un articolo di Antoine D’Abbadie pubblicato sul “Journal des Débats” il 6 luglio 1845 e poi riprodotto dal “Bulletin de la Société de Géographie (troisième série tome IV, volume I, pp. 43-75; volume II, pp. 65-74 Paris 1845). Luzzatto scrisse quindi a D’Abbadie il 1°ottobre 1845, inviandogli una serie di domande da rivolgerle a Ishaq, indicato nell'articolo del “Journal des Débats” come il più dotto fra i Falascia. La lettera pervenne però al D’Abbadie nel 1847, al ritorno da un suo nuovo viaggio in Abissinia e quindi solo in occasione della successiva spedizione furono posti ad Abba Ishaq i quesiti di Luzzatto, sulla storia, sulla religione e sugli usi dei Falascia.
- 7 -Con il primo quesito si chiedeva in quale epoca e da dove, se dall’Arabia ovvero dall'Egitto e dalla Nubia, i Falascia fossero arrivati in Abissinia.
Abba Ishaq rispose che il suo popolo era arrivato in Abissinia dall'Egitto attraverso Saunar al tempo di Salomone.23
Luzzatto ritenne corrispondente a verità la provenienza dall'Egitto, ma spostò la data dell'arrivo dei Falascia in epoca più recente;a suo parere infatti dalle tradizioni religiose dei Falascia risultava "...avec certitude que les Falashas sont des juifs hellénistes, passés d’Egypte en Abyssinie par la voie de Méroë, sue la moité du IIIe siècle avant l’ère vulgaire, c’est à dire sous le règne de Ptoloémée Évergète I, roi d’Egypte”.24
Rilevava poi Luzzatto come i Gesuiti, giunti in Abissinia al seguito della spedizione portoghese, nei secoli XVI e XVII si fossero limitati a constatare la presenza dei Falascia, senza curarsi "...de connâitre l'origine, les dogmes, les cérémonies, la langue, les livres des Falaysans”,25 riprendendo l'analoga osservazione già fatta da Ludolf. L'autore riteneva di grande interesse studiare i Falascia, perché essi formavano "... un tableau vivant et unique de l’état des juifs du temps de Salomon..”.26
E tuttavia Luzzatto non mancava di riportare l'osservazione degli antropologi Katte e Ruppel sull'aspetto fisico dei Falascia: "...quoique d’une race évidemment caucasienne non pas nègre, il ne conservent rien du type caractéristique de la phisionomie judaïque”. 27
Era questo per Luzzatto un fatto insolito, "... le plus étrange peut-être de tous ceux qui concernent les juifs d’Abyssinie…”28 di cui preannunciava la spiegazione alla fine del suo"memoire" : ma la morte precoce gli impedì di fornire i chiarimenti promessi a conclusione della sua opera; in realtà, essendo i Falascia di etnia agau, secondo il parere ormai concorde degli studiosi, era logico che essi non avessero una fisionomia giudaica.
Secondo Luzzatto la discendenza dei Falascia dagli Ebrei egiziani ellenizzati era confermata dal fatto che la legge mosaica prescriveva di compiere sacrifici soltanto all'interno del Tempio di Gerusalemme; difatti, durante la prigionia babilonese, gli Israeliti, lontani dalla città sacra, non avevano celebrato sacrifici (o quanto meno, precisava Luzzatto, non ne parlavano Ezechiele e Daniele).
Unica eccezione a tale regola era la celebrazione di sacrifici fatta dagli Ebrei egiziani in un tempio costruito a Leontopoli, nel basso Egitto; analogamente i Falascia compievano i loro sacrifici lontano da Gerusalemme, pur non avendo potuto costruire un tempio a causa della loro povertà.29
L'opera di Luzzatto proseguiva con un'attenta e minuziosa esposizione dei riti e delle tradizioni dei Falascia, per cui è rimasta un caposaldo degli studi sull'ebraismo in Abissinia, costituendo per tutto il secolo XIX un punto di riferimento obbligato per le ricerche successive.
Antoine D’Abbadie aveva riferito le risposte del Falascia Abba Ishaq al questionario di Luzzatto in una lettera del 5 ottobre 1850 da Château d’Autax (Bassi Pirenei); non conoscendo l'indirizzo dello studioso padovano, inviò la lettera ad un membro della Società Asiatica, Munk, perché la facesse pervenire a destinazione. Nella lettera D’Abbadie riferiva la commozione con cui i Falascia avevano accolto il questionario. Ya Aynë Miga, un dotto Falascia di Dafara, villaggio nei pressi di Gondar, rammaricandosi di non aver potuto assistere alla lettura del questionario, aveva affidato a D’Abbadie questo messaggio per gli Ebrei d'Europa: "Trouvons – nous ensemble; on n’à de force, on n’a de science que lorsqu’on se connaît. Communiquons notre musique et nos explications des Saints-Livres. J’ai fait voeu de visiter Jerusalem. Venez vers moi ou bien j’irai vers Vous”.30
- 8 -Con semplicità disarmante Ya Aunë Misa assicurava poi che, se fosse toccato a lui andare incontro ai lontani fratelli d’Europa, avrebbe rispettato il riposo del sabato nel corso del viaggio verso la costa: una volta imbarcatosi, non sarebbe più stato necessario spostarsi a piedi e quindi sarebbe venuto meno l’obbligo di evitare ogni movimento durante la festività del sabato.
Nella lettera che aveva suscitato l’interesse di Luzzatto, il D’Abbadie aveva affermato che la fisionomia dei Falascia era simile a quella degli Agau e non corrispondeva al tipo ebraico; essi non conoscevano la lingua ebraica ed usavano l’amarico. Precorrendo il metodo di ricerca poi applicato da Luzzatto, D’Abbadie per far luce sull'origine dei Falascia proponeva di confrontare le loro pratiche religiose con quelle delle varie sette ebraiche, pervenendo alla conclusione che essi provenivano dall'Egitto: un gruppo di Ebrei attraverso Adulis e Meroe sarebbe arrivato in Etiopia ed avrebbe convertito molti Agau, estendo alla sua presenza e la sua attività commerciale fino ad Axum. Avevano adottato il testo biblico dei settanta, usato in Egitto, traducendolo successivamente nella lingua sacra degli Abissini, il ge’ez.
L’autore riferiva ancora che i Falascia più colti pregavano in greco ed escludeva una loro discendenza dalle dieci tribù perdute in quanto essi si dicevano figli della tribù di Levi.
D’Abbadie aveva in un suo scritto incidentalmente ricordato la lingua dei Falascia tra quelle parlate in Abissinia, senza però approfondire il tema.31
Inoltre, in un'altra opera dedicata alla geografia dell'Etiopia, Antoine D’Abbadie aveva riportato alcune interessanti testimonianze sull'esistenza di libri dei Falascia, sulle loro abitudini alimentari e sulla avversione da cui erano circondati perché ritenuti "buda" cioè stregoni. 32
Molti riferimenti ai Falascia D’Abbadie li aveva fatti nel suo "Journal de Voyage” , rimasto inedito e conservato tra i manoscritti della sua collezione depositata presso la Biblioteca Nazionale di Parigi (n. 268 del fondo D’Abbadie, secondo carnet relativo al periodo settembre 1843-aprile 1844).
Nonostante la mancata pubblicazione le notizie del “Journal” furono parzialmente utilizzate dallo stesso D’Abbadie e poi da altri studiosi, da Halévy e dai missionari protestanti Flad e Stern fino in epoca più recente da Conti-Rossini, Rathiens, Aešcoly.
Proprio ad Aešcoly è dovuta la pubblicazione di numerosi estratti dal “Journal”, relativi ai Falascia, apparsi sui “Cahiers d’études africains”, corredati da un commento dello stesso Aešcoly, redatto alla luce degli studi successivi.33
D’Abbadie aveva riconosciuto senza ombra di dubbio l'appartenenza dei Falascia all'etnia Agau e Aešcoly nel suo commento ricordava le diverse opinioni espresse al riguardo dagli studiosi, divisi fra quanti avevano sostenuto il carattere semitico dei Falascia (i missionari Flad e Stern, Faitlovich, Rathiens) e quanti l'avevano invece negato; fra questi erano gli italiani Conti-Rossini e Lincoln De Castro, medico presso la legazione italiana in Etiopia all'inizio del secolo XX, con i quali Aešcoly si dichiarava d'accordo34, ricordando come i Falascia usassero una lingua Agau, insidiata da una sempre maggiore diffusione dell'amarico.35. Sempre Aešcoly affermava che il nome del mitico re dei Falascia, Gedeone, fosse più che un nome proprio, i1 titolo del sovrano, a somiglianza di quanto avvenuto con i nomi Cesare e Faraone.36
- 9 -Sia per D’Abbadie che per Aešcoly la religione dei Falascia andava posta il rapporto con quella delle sette ebraiche, ma erano da tener presenti le analogie con la chiesa copta abissina: "Ce problème reste liè, avant tout, à un autre problème non resolu de l’histoire religieuse: celui des pratiques des chrétiens éthiopiens”.37
Non sfuggivano quindi ad Aešcoly alcune peculiarità religiose dei Falascia, ricordate dal D’Abbadie, come il battesimo per immersione e la confessione dei peccati, sconosciute dagli altri Ebrei.38
La comunione, detta Korbau, aveva riferito D’Abbadie, era impartita dai Falascia con il solo pane, poiché il vino era stato maledetto da Noè ed inoltre, data la loro povertà, non avrebbero potuto comprarlo; aveva inoltre precisato che i Falascia criticavano l'uso cristiano di prenderla a digiuno; per essi invece doveva esser presa dopo un buon pasto, di cui rendevano grazie a Dio.39
Era obbligatorio per i Falascia la circoncisione per poter accedere al regno dei cieli; a questa osservazione del D’Abbadie, l’ Aešcoly riservava un commento circa l'anticipo di tale pratica al settimo giorno di vita fatto dai Falascia per distinguersi dai popoli vicini che la praticavano più tardi; l'escissione, ignota agli altri Ebrei e praticata invece dai Falascia, secondo Aešcoly era un costume e non un dovere religioso.40
Il rispetto dei Falascia per i fabbri, aveva affermato D’Abbadie, li aveva portati a considerarli “tabib” cioè saggi; rispetto dovuto, secondo Aešcoly, al fatto che i fabbri sapevano forgiare le armi.41
Molte altre particolarità dei Falascia erano state esposte dal D’Abbadie: la venerazione per i monaci ( per Aešcoly la vita monastica era derivata ai Falascia dalla Chiesa copta); l'estrema cura messa nell'evitare ogni rapporto con i seguaci di altre religioni e la conseguente necessità di una cerimonia purificatrice se c'era stato un contatto con essi; il rispetto dei divieti alimentari mosaici; la rigida osservanza di un cerimoniale per lo sgozzamento di un animale, considerato un atto religioso (lo stesso, ha osservato Aešcoly, avveniva per gli altri Abissini).42
Il levirato, cioè il matrimonio con la vedova del fratello morto,aveva ricordato ancora D’Abbadie, era un'usanza diffusa pure tra altri popoli dell’ Abissinia ( i Galla,forse gli Afau, gli Akaba –Gouray, anche se cristiani).
Per Aešcoly era un'abitudine più africana che semitica, ammessa comunque da alcune sette ebraiche (come i Samaritani), istituzione sociale necessaria in una tribù di agricoltori. 43
I Falascia, aveva affermato D’Abbadie, avevano sul Messia idee piuttosto confuse: il suo avvento sarebbe stato preceduto dal regno di Teodoro, capace di uccidere con un solo sguardo 2000 uomini. Il nome Teodoro (dono di Dio), ha aggiunto Aešcoly, era la traduzione del nome ebraico Matatiah; ras Cassa aveva assunto quel nome, salendo al trono, per rafforzare il suo prestigio con le predizioni messianiche.44
Il rigido rispetto dei Falascia per il sabato aveva ricordato a D’Abbadie il comportamento analogo di alcune sette protestanti britanniche; Aešcoly lo considerava conforme alle regole del Talmud, applicate però con uno scrupolo maggiore.
- 10 -Anche per i Copti il sabato era un giorno sacro: per Aešcoly restava da chiarire se tale rispetto, meno rigoroso comunque di quello dei Falascia, avesse un'origine ebraica, ovvero pervenisse da una comune tradizione semitica.45
I Falascia, a causa dell'isolamento in cui erano vissuti, ignoravano l'esistenza di altri Ebrei; appreso da D’Abbadie che in Europa vivevano comunità ebraiche, avevano reso grazie a Dio. Aešcoly nel suo commento ricordava che gli Ebrei di Gerusalemme avevano comunque conosciuto dei pellegrini Falascia; i missionari protestanti in alcuni casi si erano spacciati per Ebrei ed avevano annunciato che il Messia era già venuto.
I Falascia avevano allora deciso di recarsi a Gerusalemme; non erano però riusciti a raggiungerla e molti erano periti lungo il cammino; da quel fallimento era derivata la diffidenza dei Falascia verso gli stranieri.46
Aveva poi osservato D’Abbadie il rispetto di alcuni particolari dogmi da parte dei Falascia; il grande numero di feste da essi rispettate ( per Aešcoly la loro frequenza era un uso abissino più che ebraico); il valore dato ai nomi attribuiti a Dio, la cui finale in “el” attestava un'origine ebraica. Gli stessi nomi erano spesso dati a Dio anche dai Copti: si chiedeva quindi Aešcoly se si trattasse di un'influenza ebraica sulla Chiesa copta ovvero di un'influenza copta sulla religione dei Falascia; era comunque possibile la terza ipotesi che le due tradizioni derivassero da una fonte precedente comune ad entrambe, ovvero che si trattasse di due processi storici indipendenti l'uno dall'altro. 47
Nel corso dei suoi viaggi in Abissinia Antoine D’Abbadie era stato accompagnato dal fratello Arnauld, autore del volume" Douze ans dans la haute Éthiopie (Abyssinie)” – (Paris, Hachette 1868), in cui si era limitato a riportare la leggenda di Salomone, della regina di Saba e del loro figlio Menelik, tornato in Etiopia con le Tavole della Legge, sottratte dal Tabernacolo di Gerusalemme e custodite ad Axum in un tempio appositamente costruito, prendendo esempio da Salomone.
I custodi del Tempio di Gerusalemme, proseguiva la leggenda, per celare il furto subito avrebbero sostituito delle copie alle Tavole originali.
I fratelli D’Abbadie erano stati preceduti nelle ricerche sui Falascia da un altro studioso francese, Louis Marcus48, con uno studio apparso nel 1828 sul “Nouveau Journal Asiatique” in cui avanzava l'ipotesi fino ad allora inedita di un arrivo dei Falascia in Etiopia con la spedizione di Alessandro Magno contro il regno egiziano di Meroe, condotta con la partecipazione di soldati ebrei e siriani idolatri, secondo l'attestazione dello storico Eusebio e di un ebreo, Giuseppe Ben Gurion. Plinio aveva scritto di una campagna di Alessandro contro l’Arabia Petrea e l’Arabia Felix ed il poeta latino Claudiano aveva pure fatto cenno dei "Iudaei” d’ Abissinia.
Marcus concludeva asserendo che prima di Alessandro Magno non c'erano stati Ebrei in Abissinia, per cui i Falascia erano discendenti dei soldati ebrei dell'esercito macedone e dei coloni insediatisi al tempo del grande condottiero.
- 11 -Nella prima metà del secolo XIX in Francia fu tutto un fiorire di viaggiatori e di studiosi intenti ad una revisione critica della leggenda della regina di Saba e del suo figlio Menelik.
Galinier e Ferret riferivano così le loro impressioni riguardo alla pretesa tomba di Menelik ad Axum: “On nous montra son emplacement près de la ville; mais nous ne vîmes rien de remarquable: c’est un monticule peu considèrable, qui peut avoir été formé par les débris d’une ancienne pyramide. Telle fut au moins notre idée quad nous visitons ces lieux”.49
Delle rovine di Axum i due autori si occuparono ancora in un'altra opera. La loro attenzione era stata attratta da due iscrizioni, una in lingua ge’ez l'altra nella lingua yemenita, in corso di decifrazione; i due viaggiatori trovavano di particolare interesse la seconda iscrizione, in quanto l'uso di una lingua di provenienza araba pure in atti pubblici attestava con ogni evidenza rapporti commerciali tra l’Arabia e l'Etiopia, paesi che costituivano probabilmente un solo Stato all'epoca di quell'iscrizione, esistente forse al tempo del regno di Aisana, cioè intorno al 327 d.C., come informava l'iscrizione in greco.50
Nell’opera si faceva pure cenno alla superstizione, ritenuta forse di origine greca, circa i poteri magici dei fabbri, capaci la notte di trasformarsi in iene, belve numerose proprio nelle zone popolate dai Falascia, dove abbondavano i fabbri.
Su questo argomento gli autori tornavano ancora, affermando che gli Abissini detestavano gli Agau e gli Ebrei, accusati di stregoneria, era pure ricordato il rifiuto dei Falascia del Semien di convertirsi al Cristianesimo, rimanendo fedeli all'Ebraismo.51
Nella relazione di Thèophile Lefèbvre, capo di una spedizione francese condotta negli anni 1839-1843, la credenza abissina nei cosiddetti "buda” ( stregoni), capaci di trasformarsi in belve nottetempo, era paragonata alla superstizione del lupo mannaro, diffusa in Bretagna. L'autore così scriveva: "La superstition la plus populaire est celle des loups-garous, ou Bouda comme en Bretagne, les forgerons et les tanneurs ont la réputation de recéler les malins esprits, et supportent toute la responsabilité des maléfices. Eux seuls sont capable de jeter un mauvais oeil sur les troupeaux, de changer les hommes en bêtes, les rendre malade, etc. etc.”. Non era ricordato, ma era una notizia di dominio comune, che erano proprio i Falascia ad esercitare il mestiere di fabbro e di conciatore.
Un religioso italiano, il padre Borello, con toni a tratti umoristici così descriveva le superstizioni diffuse intorno al Buda: “E’ un vero untore, un guastafeste, una strega che gira il mondo col solo scopo di far dispetti a quanti incontra, spargendo ovunque malattie, miseria e morte”. Durante il giorno il Buda aveva sembianze umane, di ogni età, sesso e condizione; “….di notte invece è un essere inqualificabile, sempre a cavallo, in groppa a iene, a cavalcioni in senso inverso, con la faccia, cioè, verso la coda di quella lugubre cavalcatura dagli occhi verdastri, coda che egli tiene stretta tra le mani, servendosi di redini”.
I fabbri falascia non erano uccisi, secondo Louis Rapoport, perché la loro opera era indispensabile; l’accusa di stregoneria era rivolta non soltanto ai Falascia, ma a chiunque esercitasse l’arte del fabbro, considerato uno stregone soltanto per l’attività esercitata. Risalivano addirittura ai tempi biblici – ricorda Rapoport - i pregiudizi contro i fabbri: il termine ebraico “charash” significa difatti sia fabbro che magia. 52
- 12 -Interessanti notizie sul numero dei Falascia e sui loro rapporti con gli altri gruppi religiosi possono trovarsi nella relazione di Ed. Combes e M. Tamisier sul loro viaggio in Abissinia, da cui si ricava che “la plupart des montagnes du Sémien étaient autrefois habitées, la grande partie, par des juifs, que les Abyssiniens appellent Falachas; mais leur nombre diminue tous les jour, et, selon toutes probabilités, ils ne tarderont pas à disparaître entièrement en se confondant soit avec les chrétiens, soit avec les musulmans, qui tous les jours en attirent quelques uns dans leurs rangs. Quoique dans leurs actions, les Abyssiniens fassent preuve d’une tolérance admirable, ils häissent les juifs par habitude, et ces derniers, en butte à des tracasseries continuelles, sont assez desposés à abandoner leur foi, dont rien n’alimente la ferveur, et à s’affilier aux croyances encore vivantes dans le pays”.53
Pronostico pessimista destinato ad essere smentito dai fatti, nonostante le insistenti attenzioni di cui i Falascia erano oggetto da parte dei missionari europei venuti a convertirli.
Occorre infatti tener presente come accanto a studiosi interessati soltanto a ricerche sulla storia e sulle consuetudini civili e religiose dei Falascia, operassero in Etiopia pure missionari, sia cattolici che protestanti, per condurre un’intensa attività di apostolato.
Va ricordato anzitutto Samuel Gobat, ebreo convertito alla fede protestante, inviato in Abissinia dalla Missionary Society di Londra e successivamente divenuto, nel 1846, vescovo di Gerusalemme. Nel suo diario dedicato al soggiorno abissino, Gobat notava anzitutto l’influenza ebraica, dei Falascia in particolare, sulla storia dell’Abissinia, molto maggiore di quella riscontrabile in altri paesi della diaspora. 54
Il missionario affermava ancora come i Falascia vivessero isolati dai cristiani e fosse quindi difficile conoscerne i costumi e rispettarli: a differenza di altri, come Isenberg, Gobat non voleva imporre modelli civili e religiosi di stampo europeo.55 Non gli sfuggirono comunque i limiti delle tradizioni e del livello culturale dei Falascia: "J’ai fait ce que j’ai pu pour prendre des informations sur leur compte, mais il m’a été possible me convaincre d’une seule chose, ce qu’ils sont encore plus ignorans que les chrétiens. Ceux que j’ai vus me renvoyaient toujours à leurs savants quand je leur faisais quelque question”.56
Affermava Gobat che essi non sapevano nulla sulle loro origini, né sull'epoca del loro arrivo in Etiopia; alcuni credevano di essere arrivati con il figlio di Salomone e della regina di Saba, Menelik, sul quale riferivano ridicole leggende ritenute dal missionario prive di qualsiasi interesse; altri ritenevano invece che il loro arrivo fosse avvenuto dopo la distruzione del secondo tempio, cioè in epoca romana. I Falascia condividevano le superstizioni degli abissini, adattate alla loro fede,e, non avendo libri sacri nella loro lingua, usavano quelli in lingua etiopica peraltro ben conosciuti da alcuni fra di essi. A loro merito andava ricordata la maggiore laboriosità rispetto a quella degli Abissini copti, da cui volevano tenersi distanti, vietando loro l'accesso nelle proprie abitazioni; né gli altri tentavano di farlo, in quanto li ritenevano terribili stregoni. Erano caritatevoli verso i poveri e di natura pacifica, tanto da non usare le armi neanche per difendersi; ritenevano impuri i contatti con i cristiani e, se ne avevano incontrato uno, si lavavano prima di rientrare nelle proprie abitazioni; erano più aperti verso i musulmani che verso i cristiani.57
- 13 -Gobat insisteva sull'ignoranza dei Falascia, ricordando che non averne conosciuto uno che sapesse leggere58; a riprova della loro ignoranza il missionario riferiva il fantasioso racconto sulla vergine Maria, fattogli da una donna Falascia, considerata una grande strega. Secondo costei Maria era una giovane vergine che viveva chiusa in una casa o una sinagoga, sorvegliata dall'arcangelo Michele. Questi, impietosito dalla sua reclusione, si trasformò in uomo ed ebbe rapporti con lei, morta nel dare alla luce sulla pubblica via Cristo, subito portato in cielo da una grande aquila bianca e poi adorato come un Dio.
La stessa donna aveva pure raccontato, a proposito dell'arrivo di Menelik in Abissinia dalla Palestina, che erano divenuti cristiani quelli del suo seguito che avevano traversato un fiume di sabato, non rispettando il divieto di qualsiasi movimento in quel giorno sacro; erano rimasti invece di fede ebraica quanti avevano rifiutato di traversare il fiume.59
In un'altra occasione Gobat ebbe invece modo di apprezzare l'acutezza di giudizio e l'accorta eloquenza di un Falascia, che aveva saputo rintuzzare l'accusa di stregoneria rivolta a tutta la sua gente da un prete copto. Il Falascia replicò che non esisteva nessuna prova della stregoneria rimproverata ai Falascia e che erano false le accuse fatte dal prete. Ma seppure i Falascia fossero stati stregoni, non avrebbero potuto agire contro il volere di Dio che avrebbe protetto i suoi fedeli: chi diffondeva contro i Falascia l'accusa di stregoneria dimostrava quindi di non credere in Dio. Interpellato dal Falascia perché decidesse chi era nel giusto, Gobat aveva dovuto dare ragione a lui.60
Ancora dei supposti poteri magici malefici dei Falascia il missionario dovette occuparsi per un suo caso personale. Gli Abissini davano la colpa di una sua malattia alla visita fattagli da alcuni Falascia; insistevano quindi a donargli amuleti che Gobat rifiutava, minacciando di licenziare il suo servo se li avesse accettati.61
Gobat fu costretto a por fine al suo soggiorno in Etiopia: a causa delle agitazioni politiche scoppiate,nel 1838 la Missionary Society interruppe la sua attività.
Sì trattò però solo di una battuta d'arresto; Gobat infatti continuò ad interessarsi dei Falascia e, appena possibile, volle riprendere l'attività missionaria, seppur non più condotta in prima persona.
L'occasione propizia sembrò presentarsi nel 1855 con l'incoronazione imperiale di ras Cassa con il nome di Teodoro II. Per iniziativa della Church Missionary Society di Londra e della St. Chriscona Mission di Basilea i pastori protestanti Johan Martin Flad e Johan Krapf arrivarono in Etiopia e chiesero a Teodoro il permesso di riaprire le missioni.62
Il negus diede la sua autorizzazione e nel 1856 Flad con altri tre missionari dello St. Chriscona Mission aprì a Gondar una scuola per ragazzi Falascia e vi rimase per due anni, riprendendo la sua attività dopo un viaggio a Londra nel 1858. La rivolta del Tigrai costrinse i missionari a spostarsi da Gondar a Magdala e poi nella zona di Gafat, più appartate e tranquille.
Flad contava sull'attività dei Falascia convertiti anche per riformare la Chiesa copta ed ottenne la partecipazione della London Society for Promoting Christianity Among the Jews. Questa associazione stanziò fondi a favore dell'iniziativa di Flad nel 1859, incaricando il pastore Henry Aaron Stern di studiare la situazione in Etiopia.
- 14 -Anche Stern era, come Flad, un ebreo tedesco convertitosi al protestantesimo nel 1840, all'età di 20 anni. Nel 1844 era partito per la Palestina ed a Gerusalemme era stato ordinato diacono; aveva poco dopo iniziato a Bagdad la sua attività missionaria rivolta sia agli Ebrei che ai Musulmani, svolgendola per cinque anni. Dopo l'ordinazione sacerdotale a Londra nel 1849, aveva ripreso il suo apostolato a Bagdad e successivamente era divenuto capo della missione della "London Society" a Costantinopoli ed aveva esteso la sua azione, rivolgendola agli Ebrei della Crimea e poi, nella seconda metà del 1856, a quelli dell’Arabia, esperienza descritta nel suo "Journal of a Missionary journey into Arabia Felix (London 1858)”. Era tornato a Costantinopoli quando nel 1859 fu incaricato della missione in Etiopia.
La lunga esperienza di missionario maturata in Medio Oriente rendeva senz'altro Stern ben qualificato a svolgere quel nuovo compito tra i Falascia, favorito anche dalla sua condizione di ex ebreo per cui era considerato un "Falascia bianco". I rapporti con Teodoro furono all'inizio buoni, ma presto si guastarono a causa di una incompatibilità di carattere fra i due , entrambi dotati di un temperamento autoritario che li portò a scontrarsi, oltre che per ragioni politiche generali derivanti dal conflitto sorto tra l'imperatore abissino e il governo britannico.
Stern espose le vicende della sua missione tra i Falascia nell'opera "Wanderings Among the Falachas in Abyssinia together with a description of the Country and its various inhabitants” (London 1862).63
Stern arrivò nel 1860 in Etiopia dove incontrò Teodoro e Flad per concertare l'azione da svolgere; tornato a Londra alla fine di quell'anno, tenne nel corso del 1861 una serie di conferenze in varie località del Regno Unito per propagandare l'attività missionaria da svolgere in Etiopia ed in quello stesso anno iniziò a scrivere l'opera qui citata. Nel frattempo Flad aveva lavorato ottenendo la conversione di alcuni Falascia e nel dicembre 1862 fu raggiunto da Stern nella missione aperta a Jenda; quattro dei Falascia convertiti furono destinati a svolgere attività missionaria in altre zone dell'Etiopia. Stern e Flad non mancarono di rivolgersi anche ai fedeli copti,denunciando l'ignoranza e la corruzione della loro Chiesa, con un linguaggio intemperante che non risparmiava neanche Teodoro, ironicamente chiamato " Sua Maestà negra".
Al risentimento personale dell'imperatore, causato da quella poco accorta condotta dei missionari europei, si aggiunsero presto ragioni politiche di fondo, derivanti dal rifiuto opposto da Londra alla richiesta di Teodoro di procedere ad uno scambio di ambasciatori ed i missionari costituirono una facile occasione di rivalsa da parte abissina.
Nell’ottobre del 1863 convocò a Gondar Stern e per manifestare il suo malcontento dispose l'arresto dei servi del missionario; questi non si trattenne da un moto di stizza,mordendosi un dito.
Gesto considerato in Abissinia una minaccia di vendetta per cui Stern fu a sua volta messo in carcere; lo stesso trattamento fu riservato al suo principale collaboratore, Rosenthal, a Flad ed a sua moglie, a molti altri missionari e, con una grave violazione dell'immunità diplomatica, al console britannico Charles Duncan Cameron.
- 15 -Flad fu scarcerato perché recapitasse a Londra una lettera di Teodoro, con la quale fra molte rimostranze ed accuse veniva rinnovata la richiesta di stabilire rapporti diplomatici a più alto livello con l'istituzione di ambasciate. Tutti gli altri prigionieri subirono la galera abissina fino al 1866, quando, falliti tutti tentativi per una soluzione politica, l'Inghilterra dispose la spedizione guidata da Sir Robert Napier, a seguito della quale Teodoro fu sconfitto e dopo la perdita della sua ultima roccaforte a Magdala, morì suicida.
I prigionieri furono liberati; Stern, tornato a Londra, illustrò le sue esperienze tenendo conferenze e pubblicando una nuova opera "The captive missionary: being an account of the country and people of Abyssinia. Embracing a narrative of King Teodoro’s life, and his treatment of political and religious mission” (Londra 1868).
Stern non tornò più in Etiopia e si limitò a dirigere da Londra la missione della “London Society", affidata ai Falascia convertiti poichè era vietata l'attività di missionari europei, tranne che per gli svedesi che stabilirono una missione per la "Evangeliska Fasterlands Stifvelsen”, ("Società nazionale Evangelica Missionaria") sulle coste del mar Rosso, territorio abissino divenuto poi la colonia italiana dell'Eritrea.64
Flad mantenne i contatti incontrando alla frontiera etiopica i Falascia convertiti, cinque dei quali furono nel 1871 inviati a Basilea per seguire un corso di formazione missionaria.
Nuove difficoltà sorsero per i Falascia quando il nuovo imperatore, Menelik II, sospettò di essi ritenendoli agenti italiani in occasione della guerra conclusasi con la battaglia di Adua. Finita la guerra e svanita quindi la minaccia italiana, Menelik consentì la riapertura della missione protestante, rimasta tuttavia affidata soltanto ai Falascia convertiti.65
Nella sua opera "Wanderings Among the Falashas…” Stern non descrisse soltanto la sua attività missionaria, ma si occupò anche della storia e degli usi dei Falascia. Considerò la tradizione di Salomone e della regina di Saba un intreccio vago di invenzioni e di verità, ritenendo attendibile l'arrivo di Ebrei nell’Arabia Felix spinti dalle loro attività commerciali, in età remota, quando le navi di Salomone si erano spinte fino al mar Rosso; a suo giudizio gli Ebrei più avventurosi si erano poi recati dall’Arabia in Abissinia. Successivamente, dopo la sconfitta degli Ebrei ad opera di Nabuccodonosor, altri immigrati sarebbero giunti dalla Palestina in Etiopia. Notava poi Stern gli stretti rapporti esistenti in Etiopia tra Ebraismo e Cristianesimo, il settarismo dei Falascia per cui erano vietati matrimoni misti ed ogni rapporto con i fedeli di altre religioni, tanto che dopo un eventuale contatto con essi i Falascia dovevano purificarsi, cambiando completamente gli abiti prima di far ritorno a casa.
Le intransigenti abitudini - riteneva il missionario - erano però valse a preservare i Falascia dai costumi depravati degli altri abissini, conservando un'apprezzabile rigore morale; inoltre la loro lontananza dalla Palestina li aveva resi immuni dall'orgoglio dei Farisei e dalle superstizioni proprie degli altri Ebrei.
Stern attribuiva ai Falascia un'origine ebraica, che sarebbe stata attestata dalla loro fisionomia; lo stesso riconoscimento era dato ai Kemanti, ritenuti tuttavia una popolazione diversa dai Falascia, perché più rozzi e seguaci di una fede intrisa di elementi pagani: il loro nome sarebbe derivato dalla risposta da essi data a chi chiedeva quale fosse la loro religione: "Kiamant” o “Kam Ant” (Come te ). 66
- 16 -Erano poi lodate la laboriosità, la pulizia e la moralità dei Falascia: "Exemplars in their morals, cleanly in their habits, and devout in their belief, the Falashas are also industries in the daily pursuits and avocations of life”.67
Erano dediti all'agricoltura ed all'artigianato, trascurando, a differenza degli altri Ebrei, il commercio: "... commerce they unanimously repudiate as incompatible with their Mosaic creede”.68
Un esempio di moralità era dato ai Falascia dagli eremiti, venerati dal popolo; l'intolleranza verso le altre religioni per Stern era giustificata dalle grossolane superstizioni e dall'idolatria diffusa in Etiopia; i missionari protestanti avevano incontrato il favore dei Falascia quando si riseppe dell'ostilità della chiesa copta nei loro confronti.69
Gli incontri dei missionari protestanti sfociavano a volte in veri e propri psicodrammi; così Stern descriveva le impressioni suscitate nell'uditorio dall'esposizione delle verità divine: "...from the audible groans and sight, which involuntary burst from the hearth of many a one in that assembly of more two hundred persons, I could see that our words felt, in part at least on willing and impressible hearts".70
In quell'occasione Stern aveva sostenuto come la purificazione dei peccati non si potesse ottenere sacrificando animali, ma solo grazie al supremo sacrificio di Cristo sulla Croce.
Ma non sempre gli incontri con i Falascia erano così edificanti: in un'altra occasione Stern rimproverò un monaco per la sua ignoranza,poiché lo sfortunato aveva ricordato le imprese delle 12 tribù di Israele, di cui però diceva di non ricordare i nomi. Secca e mortificante la replica del missionario: "We told him that a little child in our country knew all these, and many of the more important incidents much better”. 71
Ancora profonda emozione suscitò invece un altro incontro dei missionari con i Falascia a Chamarra:”: "It is quite impossible to describe their amazed looks and startled expression of countenance, when we delated on the subject of sacrifices, and clearly demonstrated that sacrificial rites and mysterious emblemy were to cease with the advent of Him”. 72
Particolarmente emozionato l'uditorio femminile quando Stern dimostrava come la salvezza non potesse venire da vuote cerimonie esteriori, ma dal perdono ottenuto dal Messia: "This was particuraly the case with the women, who listened in silence to all that we said and only now and then by supposed sighs, or devouted upturned glances of their dark eyes, betrayed the swelling emotions which they experienced”. 73
A quei discendenti da Israele Stern riteneva affidata la diffusione del Cristianesimo in Etiopia, poiché molti Falascia avevano espresso la volontà di convertirsi e, affermava il missionario: "...these incipient movement lead us to cherish the pleasing hope that the Falashas will yet under God, be the medium of communicating to the Ethiopian that very truth, wich pride and suspicion would never allow him to accept from envied stranger. This unexpected breath of heaven, now agitating the dry bones of Israel on the mountain-tops of Africa, seems an unmistakable indication that our work enjoie the Divine favours. The only obstacle to be apprehended is the intolerant spirit of the hierarchy”. 74
- 17 -La costanza con cui Falascia avevano resistito alle persecuzioni garantiva l'affermazione in Etiopia di "...a Christianity full of Energy and spirit”.75 Essi avrebbero condotto "...that unhappy and sinstained land to the obedience of the Gospel of Christ”. 76
Non tralasciava infine Stern l'occasione per ricordare polemicamente il fallimento dei tentativi dei missionari Gesuiti, accusati di aver usato metodi violenti:"...the vanted triumphs of Rome were at last neutralized through the excessive violence and flagrants enormities of her own sanguinary agents”.
Compiaciuto Stern considerava fallimentari pure le successive missioni cattoliche, pur rendendo l'onore delle armi al loro responsabile, Monsignor de Jacobis, definito: "...an able and learned bishop”.77
Nell'altra sua opera "The Captive Missionary…" Stern oltre ad esporre le traversie seguite al suo scontro con Teodoro, si soffermava sulla storia religiosa dell’Abissinia e sui metodi seguiti dai missionari nella loro azione. Ricordato che era dovuta a Frumenzio l'evangelizzazione dell'Etiopia, il missionario sottolineava quale difficoltà fosse stata opposta ai suoi sforzi dai sofismi degli avversari e quale importanza la tradizione ebraica avesse avuto per la chiesa dei Copti; in quanto "...they consented to a compromise and thus some of the institutions of the Jews and the superstitions of the surrounding Pagans became interwoven with the spiritual doctrins of the Gospel".78
Anche il missionari protestanti fecero ricorso ad un compromesso prima di esser costretti a lasciare l'Etiopia dopo lo scontro avuto con Teodoro. Considerando i scarsi risultati ottenuti con la predicazione religiosa, si decise di operare anche su di un piano professionale e pertanto arrivarono artigiani per istruire i Falascia sulle attività tecniche ed al contempo svolgere attività di proselitismo; in quel modo si contava di ottenere anche utili economici. La Chriscona Mission di Basilea inviò i tecnici e la diocesi anglicana di Gerusalemme fornì i mezzi finanziari necessari per quell'operazione. Ma - notava con disappunto Stern - gli interessi economici prevalsero e gli artigiani-missionari, nonostante la contrarietà di Flad e dello stesso Stern, finirono per svolgere soprattutto una proficua attività artigianale al servizio del negus.
Quei missionari artigiani venuti da Chriscona si stabilirono a Gaffat e ad essi si unirono elementi di varia nazionalità del tutto estranei all'attività missionaria, come il polacco Maritz, disertore dell'esercito russo, l'armaiolo francese Bourgaud, l'avventuriero tedesco Zarder, i cacciatori mercenari Schiller e Essler.79
Con amarezza Stern dovette inoltre ammettere che non tutti i Falascia convertiti erano "…nor enlightened nor conscientions christians”; i convertiti a parer suo erano una minoranza, ma dovevano pur esser presi in considerazione quanti, pur aderendo in cuore loro alla fede protestante, ufficialmente erano rimasti nella chiesa Copta: costoro erano "...virtually adherents to the Creed of Protestants, and yet nominally attached to what may be termed the religion of Abyssinians, avowedly followers of an infallible and Divine Revelation, and yet apparently learning to erroneus and human traditions”.80
- 18 -Questa equivoca situazione derivava dalla condizione imposta da Teodoro ai missionari: essi avrebbero potuto svolgere tra i Falascia la loro attività, ma i convertiti dovevano essere battezzati in una chiesa copta e non era concesso creare una chiesa protestante autonoma. Stern aveva accettato, sperando in cuor suo che in tal modo si sarebbe rinnovata la chiesa abissina. Da parte sua invece il clero copto temeva la presenza dei Falascia convertiti perché potevano costituire una sorta di cavallo di Troia, anche se l'Abuna Salama si era detto d'accordo. Questa forzata aggregazione dei Falascia convertiti alla chiesa copta era così commentata dal viaggiatore inglese Henry Dufton: "Mr Flad had induced some thirty jews to embrace Christianity; but the laws of the country will not permit him to form a Church of his own, so he was obliged to unite them to the native one. This would be going from bad to worse did he not by precept and example succeed in keeping up in them a highter of feeling than that arounded them”.81
Abuna si mostrava comunque ben disposto verso Stern e gli altri missionari, memore forse degli anni trascorsi nella scuola protestante del Cairo, 82 e con Stern si era quasi creata una complicità nei confronti di Teodoro, mettendo con queste parole in guardia il missionario dal rivelare all’imperatore il numero dei Falascia convertiti: “Take care! Take care! Was the primate’s admonition on july 3rd, 1863, that your people do not divulge to the negus the number of proselytes or catechumens that you have gathered among the Falashas! This intimation – kind, generous, and affectionate as it was - fell on my ear as the death knell of our mission, and the funeral not of our buried hopes”.83
Stern aveva concepito grandi speranze sull’esito della sua missione, nonostante i pesanti condizionamenti imposti da Teodoro e la conseguente equivoca situazione creatasi includendo i Falascia convertiti nella Chiesa copta; scriveva infatti: “The light of Divine truth, diffuse over many a hill and dell had already dispersed much mental darkness and spiritual night. It had tought the Falashas to reject the childish tenets and unauthorized requisitions of fanatical dreamers and self-righteous ascetics and turned their inquires to that word which neither burdens reason nor esclave the soul”.
Il successo - proseguiva il missionario – sarebbe stato pieno se non ci fossero stati lo scontro con Teodoro e la guerra che ne seguì: “…a little of the Spirits impulse, and the dismal shadows of superstition and idolatry would have fled before the illuminating beams emanating from the sacred Scriptures. Unhappily, events occurred which put an end to our mission, and the hopes which clustered around it”. 84
Sarebbe stato quindi, secondo Stern, soltanto un incidente di percorso a compromettere l'opera dei missionari, impedendo il trionfo completo dello Spirito divino; c'è da chiedersi perché, una volta superata la crisi con Teodoro, e anche successivamente quando altri occuparono il trono d'Etiopia, si sia mai realizzata una conversione in massa dei Falascia.
- 19 -Appare più convincente attribuire il fatto alla fiera resistenza opposta dal Falascia a tutti tentativi – provenissero essi dai cattolici o dai protestanti - messi in atto per far loro abbandonare la fede antica: le difficoltà risiedevano nella popolazione stessa da convertire piuttosto che nei rapporti con l'imperatore.
Un antropologo tedesco, Robert Hartmann, già alcuni anni dopo le vicende di cui erano stati protagonisti Teodoro ed i missionari protestanti, sostenne che gli scarsi risultati per convertire al Cristianesimo i pagani dipendevano dal carattere di quelle popolazioni, poiché "...les principes relâchés de l’islamisme conviennent mieux aux moeurs rudes des païens africains que les précepts plus sévêres du Christianisme”: pur nella diversità delle situazioni (ai Falascia non potevano certo attribuirsi "moeurs rudes”) il principio era lo stesso: l'esito dell'opera dei missionari, sia cattolici che protestanti - la cui abnegazione era riconosciuta dallo studioso - dipendeva dalle tradizioni e dalle caratteristiche delle popolazioni che si voleva convertire.
Era poi molto severo il giudizio di Hartmann sul Cristianesimo praticato in Etiopia: "Le ryte Chrétien ne s’est jamais élévé, dans ce pays, au dessus d’un vide formalisme”.85
Stern quindi attribuì esclusivamente a Teodoro, descritto come animato da una cieca violenza e dotato di un carattere imperioso, la responsabilità degli scarsi successi ottenuti dai missionari.
Giudizio questo da rivedere: Donald Crummery, nel ricostruire l'attività missionaria in Etiopia, ha dato dell'imperatore un ritratto molto più complesso e sfumato, ricordando la sua partecipazione nel 1855 ad un dibattito teologico con Flad e Krapf, in cui rivelava "...a mind both quick and penetrating”. 86
Era dotato inoltre di una sincera e profonda religiosità e non venne mai meno la sua fede in Cristo, sebbene avesse perduto ogni fiducia nella Chiesa etiopica, da lui accusata di sedizione, per cui nel 1856 aveva soppresso le agevolazioni fiscali fino ad allora concesse.
All'inizio aveva accolto con favore i missionari confidando nel loro contributo per la rigenerazione della Chiesa copta e per realizzare l'unità religiosa e nazionale, convertendo i Falascia ed i pagani attraverso la conoscenza della Bibbia e la predicazione in amarico.87
Aveva pure dato prova di equilibrio, intervenendo nella disputa sorta tra i Falascia convertiti ed i missionari artigiani venuti da Chriscona, accusati di operare con la forza le conversioni. Ai loro pressanti tentativi di conversione, i Falascia avevano ironicamente opposto che sia la loro fede che quella dei Copti si basavano sull'Antico Testamento; e quindi erano abbastanza simili ai Protestanti e non era necessario convertirli. Nel loro entusiasmo di neofiti i Falascia convertiti avevano pure sostenuto l'inutilità, dopo la venuta di Cristo, dei riti e sacrifici espiatori per ottenere la remissione dei peccati; Teodoro mise fine alla disputa, ma da allora rimase diffidente verso i missionari, ritenuti colpevoli di non aver rispettato la libertà religiosa; Flad fu poi scagionato da tale accusa, grazie alla testimonianza resa da altri Falascia.88
- 20 -Crummery ha pure sottolineato le responsabilità di Stern per il contrasto con Teodoro e le difficoltà sorte per l'attività missionaria:"... Stern’s pomposity and contempt towards ingidinous society offended not only fellow missionaries, but also Towdros”.89
I colleghi missionari qui ricordati erano quelli venuti da Basilea, che svolgeva un'attività mista, artigianale oltreché religiosa, gestita dalla"Church of Scotland’s Jewish Mission”.
Stern era stato loro avversario,perché temeva che le occupazioni artigianali prevalessero su quelle religiose: ed in effetti quei missionari si erano prodigati al servizio dell'imperatore, costruendo strade, ponti ed altre opere; attaccando i missionari artigiani Stern quindi colpiva anche Teodoro.
Le cose si complicarono quando l'imperatore chiese ai missionari artigiani di costruire un cannone; essi tentarono di opporsi a tale richiesta, facendo presente di essere uomini di pace e di non poter quindi fabbricare ordigni di morte; essi inoltre mancavano di ogni esperienza in quel campo,ad eccezione del polacco Moritz Hall, che aveva servito nell'esercito russo, e del francese Bourgaud, che era stato armaiolo. Ma fu tutto inutile: alla fine dovettero cedere alle insistenze del negus e costruirono il cannone; anche se poi risultò difettoso, Teodoro ne fu molto lieto e li ebbe quindi molto cari per i servizi a lui resi: fra i capi d'accusa rivolti a Stern dall'imperatore figurarono anche le critiche da lui rivolte ai missionari-artigiani stabilitisi a Gaffat per aver privilegiato le attività utili al negus rispetto alla loro missione religiosa. Ma tra Stern ed i missionari-artigiani l'avversione era reciproca: quando Stern era tornato da Londra in Etiopia, partì da Gaffat la richiesta a Teodoro di proibirgli il rientro e di interdire alla "London Jewish Mission" la continuazione della sua attività; tali rivalità non furono forse determinanti, ma contribuirono comunque a spingere il negus ad agire contro i missionari.90
Altro motivo di contrasto fra Stern ed i missionari di Gaffat fu la propensione di questi ultimi ad integrarsi totalmente nella società locale, frequentando assiduamente le chiese copte ed in alcuni casi sposando donne abissine. Nonostante la predilezione ad essi riservata da Teodoro, incorsero nella repressione disposta dall'imperatore quando si guastarono definitivamente i suoi rapporti con l'Inghilterra.
Eppure le relazioni anglo-etiopiche erano iniziate sotto i migliori auspici. Walter Chichele Plowden, primo console britannico ad esser nominato in Etiopia nel 1848, aveva intrattenuto ottimi rapporti con Teodoro; quando, finita la sua missione, nel 1860 era sulla via del ritorno in Inghilterra, fu ferito e catturato nei pressi di Gondar dagli uomini di un ras ribelle, Dejay Garred, furono le autorità abissine locali a pagare il riscatto di 1000 dollari richiesti per la sua liberazione. Condotto a Gondar, vi morì a seguito delle ferite riportate e fu sepolto con un solenne funerale nella chiesa del re.91
Un altro inglese, Bell, giunto in Abissinia assieme al console Plowden, era stato particolarmente caro al negus, che lo nominò generale in segno di gratitudine per avergli salvato la vita in battaglia. Lo stesso Stern, al suo arrivo in Etiopia, non aveva lesinato lodi a Teodoro per la sua legislazione progressista (fine delle esenzioni fiscali per le proprietà ecclesiastiche; assegnazione di terre ai contadini; limiti posti al numero dei preti e dei diaconi, fissato rispettivamente in due e tre per ogni Chiesa, assegnando loro terreni da coltivare per avere di che vivere e porre così fine ad una vita fino ad allora parassitaria).
- 21 -Stern aveva lodato il negus anche per la lotta condotta contro la schiavitù e per aver rispettato il divieto di contrarre un nuovo matrimonio opposto ai sovrani ed ai preti.92
Nella repressione disposta da Teodoro contro i missionari agli inglesi (fu imprigionato pure il console britannico Cameron) rimase coinvolto il console francese Guillaume Lejean, rimasto in ceppi per 25 ore e poi espulso il 28 settembre 1863 per ordine del negus, irritato per la richiesta di consentire l'attività delle missioni cattoliche poste sotto la protezione del governo francese.
La richiesta era stata avanzata in una lettera del governo di Parigi, pervenuta in risposta a quella inviata da Teodoro a Napoleone III.
All'inizio il negus aveva accolto con favore la risposta di Parigi, considerando un successo l’averla ottenuta e ne diede pubblica lettura a tutti gli europei presenti ad Addis Abeba, convocati per l'occasione. Ma presto cambiò idea, considerando quella richiesta un'arbitraria intromissione negli affari interni dell’Abissinia ed, incurante dell'immunità diplomatica, fece imprigionare e poi espellere il console francese. In seguito Lejan attribuì la sua espulsione ad insinuazioni fatte sul suo conto dai missionari protestanti, cui era sgradita l'azione francese a tutela delle missioni cattoliche.93
Lejan aggiungeva poi particolari sul contrasto insorto tra Teodoro e Stern: nelle lettere confiscate al missionario si erano trovati giudizi severi sugli artigiani cari al negus; fatto ancora più grave, erano ricordate le umili origini del negus: sua madre sarebbe stata una venditrice ambulante a Gondar di Kousso (era una pianta medicinale); e si accennava pure al malcontento suscitato dalla crudeltà di Teodoro. In un precedente articolo sulla Revue Des Deux Mondes, Lejan aveva criticato Gobat, accusandolo di aver dimostrato troppa credulità nel riportare nel suo diario le notizie sui Falascia riferitegli dagli Abissini; aveva comunque riconosciuto la buona fede e l'indiscussa moralità personale di quel missionario.
Ma non erano risparmiati neanche i cattolici: secondo il console i Gesuiti venuti con i portoghesi nel secolo XVI erano divenuti impopolari "...à force l’orgueil, de maladresses, et de folies sanglantes", per cui erano stati espulsi. Al vescovo cattolico, cui nel 1840 era stata affidata la missione in Etiopia, il napoletano de Jacobis, si riconoscevano rigore morale e spirito di carità, tanto da esser chiamato “Kedous”, cioè il Santo; ma al tempo stesso gli si rimproverava un eccesso di diplomazia, tanto da essersi prestato a sollecitare il Patriarca di Alessandria perché inviasse un nuovo Abuna, quale capo della Chiesa copta. Si trattava di Salama, considerato filo-protestante perché educato nella scuola protestante del Cairo.
A Salama Lejan attribuiva difetti e nefandezze di ogni tipo: avido, violento, superbo avrebbe fatto - a suo dire - commercio di schiavi e, secondo il suo confessore padre Giuseppe, poco rispettoso del segreto della confessione, avrebbe avuto nove amanti, fra cui due suore! Oltre tutto l’Abuna si era dimostrato ingrato verso monsignor de Jacobis, sollecitandone l'espulsione, dimentico dell'intervento del vescovo cattolico presso il Patriarca di Alessandria perché Salama fosse nominato capo della Chiesa copta d’ Abissinia.94
Ai Falascia Lejan dedicava un breve cenno: la loro origine era misteriosa e forse potevano essere identificati con i "Phalliges" di cui aveva parlato Plinio.95
- 22 -Sotto Teodoro l'attività missionaria protestante ebbe un maggior rilievo storico della cattolica per le sue ripercussioni sulla situazione politica dell'Etiopia; la Chiesa di Roma, dal canto suo, aveva da più lungo tempo dimostrato interesse per la religiosità di quel paese, assumendo significative iniziative.
Già Niccolò IV, sommo pontefice dal 1288 al 1292, aveva nominato il domenicano Giovanni da Montecorvino Nunzio apostolico per l'Armenia e l'Etiopia, con il compito di promuovere l'unione della Chiesa copta etiopica a quella cattolica. Altri pontefici ancora (Giovanni XXII nel 1329, Eugenio IV nel 1433 e nel 1442) compirono analoghi tentativi e l'obiettivo sembrò raggiunto quando, in occasione del Concilio di Firenze, i delegati abissini copti dichiararono, il 4 febbraio 1442, di abiurare la teoria monofisita e di aderire così al credo cattolico: promessa eternata nell'iscrizione sulla porta bronzea di San Pietro, disposta da Eugenio IV, ma non mantenuta. Gli sforzi effettuati da Roma erano stati rivolti a promuovere l'unione delle due Chiese mediante accordi di vertice e non ad ottenere la conversione dei singoli. Nel secolo successivo, nel 1541, ci fu l'intervento portoghese in aiuto dell'imperatore etiopico David contro l'invasione musulmana, sollecitato dalla reggente Elena e favorito anche dal Papa Paolo III. Con i portoghesi arrivarono anche i gesuiti ed ancora una volta sembrarono aprirsi al cattolicesimo le porte dell'Etiopia, sulla scia della vittoria etiopica sui musulmani, ottenuta grazie alle armi portoghesi. Ma, svanito il pericolo musulmano, l'imperatore David si mostrò ostile ai cattolici e questa ostilità si confermò con i suoi successori, rafforzata dal comportamento arrogante dei Gesuiti, sprezzanti nei confronti della Chiesa locale. L'imperatore Claudio decise pertanto l'espulsione del patriarca cattolico portoghese Bermudes, nè ebbero sorte migliore i patriarchi successivi, Mugues Barreto e Oviedo. Una nuova prospettiva di successo per il Cattolicesimo sembrò aprirsi quando l'imperatore Sultan Segud propose la nomina di Alfonso Mendes a Patriarca, dichiarò la sua obbedienza a Roma ed emanò un decreto contro la tradizionale fede degli Abissini, il monofisitismo; contro quella decisione imperiale insorsero la Chiesa ed i fedeli copti, per cui l'imperatore fu costretto a revocarla. Con Basilides, figlio e successore di Sultan Segud, repentinamente scomparso, riprese un nuovo vigore l'opposizione alla fede cattolica ed il patriarca Mendes fu scacciato. Fallì pure il tentativo cattolico di riprendere l'attività missionaria, affidandola ai padri Cappuccini anziché agli odiati Gesuiti; tentativo conclusosi tragicamente con l'uccisione dei missionari Cappuccini.
Negli stessi anni in cui Bruce visitava l'Etiopia alla ricerca delle sorgenti del Nilo, una missione esplorativa fu affidata dalla Congregazione Propaganda Fide al padre Michelangelo Pacelli da Tricarico, partito il 23 gennaio 1787 per l'Etiopia in qualità di "Visitatore Apostolico per la Nazione Copta" e di "Prefetto della Missione”. Padre Pacelli poteva vantare una lunga esperienza missionaria, durata 15 anni in Palestina e Siria; era stato inoltre lettore di arabo presso il collegio di San Bartolomeo all'Isola in Roma ed aveva tradotto in arabo il Catechismo romano di S. Roberto Bellarmino.
Dopo aver visitato la comunità copta in Egitto, il 30 luglio 1789 partì da Suez per Moka, in Arabia, dove giunse il 24 agosto dello stesso anno e da lì proseguì per l'Etiopia.
Del suo viaggio e delle sue esperienze presso gli Etiopi padre Pacelli ci ha lasciato l'interessante relazione presentata a "Propaganda Fide".96
- 23 -Assunta per ragioni di prudenza la falsa identità di Giuseppe e spacciandosi per un fedele copto di Gerusalemme, padre Pacelli il 12 gennaio 1790 giunse alfine ad Axum, dove si presentò al principe locale Saada Zeca, presso cui si trattenne per più di sette mesi. Durante questo giorno visitò il monastero di Debra Bizen (monte dell'Abbondanza), ammirandone i dipinti da lui ritenuti di fattura europea97 e notando come gli strumenti musicali dei monaci fossero quelli già usati dagli Ebrei.98
Attirarono la sua attenzione altri particolari che potevano ricordare usanze tradizioni ebraiche,ma di cui in alcuni casi negava una derivazione mosaica, come per la circoncisione,su cui scriveva: " La circoncisione vien praticata in Egitto, in Arabia ed in Etiopia, in una maniera affatto diversa da’ Giudei. Dicesi che gli Etiopi ne avessero ritratta l'usanza non già dalla legge Mosaica, ma da un mero costume, siccome i popoli della Nubia, e diverse altre Province dell'Africa si tagliano il viso in diversi luoghi, ed altre Nazioni si forano gli orecchi. È falso quel che dicesi, che la circoncisione appresso gli Etiopi derivasse da una legge della Regina Makeba, che circoncinder fece le sue figliole per un principio di Religione. Tra i Copti, alcuni riguardano la circoncisione come una pratica puramente civile, o fisica. Gli Abissini sono egualmente discordi su questo punto; e ve ne sono però anche di quelli che credono essere questa una cerimonia religiosa, necessaria a salvarsi".99
Il Pacelli riportava le varie ipotesi al riguardo, senza prendere una posizione propria, ed oltretutto confondeva la circoncisione con l'escissione femminile.
Riconosceva invece un precedente ebraico per le prefiche, presenti nelle cerimonie funebri abissine.100
Ma il tratto più singolare della missione di padre Pacelli fu l'incarico affidatogli dall’ imperatore Ezechia, quando fu alfine svelata la vera identità del missionario, tramite Jacob, consigliere imperiale: recapitare al papa Pio VI una lettera (anticamente detta "diploma") per chiedere l'invio di 5000 o almeno 3000 soldati e di 200 cannoncini per resistere all'attacco dei Galla.
Ezechia ricordava il precedente dei 400 soldati portoghesi determinanti per la vittoria sugli invasori musulmani nel ‘500. In cambio dell'aiuto richiesto, il sovrano etiopico si diceva disposto a dare al papa non denaro "per cui finirebbe presto l'amicizia, perché transitorio" e faceva invece quest'offerta: "... vi assegneremo grande porzione di terreno nel nostro Regno, verso il Mar Rosso, continente città e villaggi". Sarebbe stato questo un pegno di duratura amicizia.101
Della bontà del progetto, a dire il vero alquanto cervellotico, Pacelli si era mostrato convinto.
Glielo rinfacciò aspramente il cardinale Leonardo Antonelli, prefetto della Congregazione "Propaganda Fide".
Sua Eminenza ci andò giù pesantemente: "... il progetto, che ha fatto quell'imperatore, mi è sembrato così strano, e così ineseguibile, che non posso concepire veruna speranza, che possa per quanto meno sortire l'apertura delle Missioni in Etiopia". Il cardinale si diceva stupito del fatto che Pacelli non se ne fosse reso conto: era impossibile mandare navi, soldati e cannoni in quel paese tanto lontano, dove il visitatore apostolico era dovuto entrare sotto falso nome.
C'era poi da chiedersi cosa si potesse sperare da un sovrano sul punto di essere fatto prigioniero dai Galla, dopo aver perso un'esercito di 290.000 uomini. Del tutto chimerico era poi il compenso promesso di un territorio. Ezechia faceva promesse irrealizzabili ed inoltre - scriveva Antonelli -"... cosa vuole che si faccia il Papa di queste terre così lontane, e tra gente barbara, infedele, incostante, e soggetta a tante guerre de’ Principi vicini?".
- 24 -Sarebbe stata una più allettante prospettiva potere in quel modo convertire gli Etiopi al Cattolicesimo; ma la Chiesa di Roma non poteva ricorrere alle armi, come facevano i Musulmani, per raggiungere quello scopo.
Oltretutto, c'era poco da fidarsi di Ezechia e del "suo amato ministro Jacob", latore della missiva dell'imperatore ed autore di "mille favole": Pacelli - rimproverava il cardinale - avrebbe dovuto sapere "quanto è varia la fede orientale".
L'aspro rimbrotto del cardinale si concludeva con l'invito a Pacelli a riflettere "con più maturità di giudizio"; avrebbe così riconosciuto "... che la sua fantasia si è scaldata di zelo troppo fervente e che il suo progetto è un vero sogno in pieno giorno". Pertanto padre Pacelli doveva togliere ogni illusione a Jacob e lasciarlo libero di tornarsene a Gondar.102
Sfumò così il progetto dell'imperatore Ezechia, che il Visitatore Apostolico aveva fatto suo inviandolo a Roma ed una effettiva attività missionaria cattolica in Etiopia si ebbe nel 1839, con la nomina di Monsignor Giustino de Jacobis a "praefectus Aethiopiae et finitimarum regionum”.
Uomo di un'angelica mitezza de Jacobis riscosse simpatia, tanto da ricevere dagli Abissini l'onorifica denominazione di Abuna; operò attivamente fondando scuole e seminari a Gondar, a Guela, nelle regioni di Haloi e Moncullo.
La sua attività, come quella degli altri missionari cattolici, fu però rivolta ai Copti e non ai Falascia.
I successi da lui ottenuti indussero la Congregazione Propaganda Fide a rafforzare la missione in Etiopia con l'invio di un vescovo:questi fu il cappuccino Guglielmo Massaia, arrivato nel 1846 e destinato ad una fraterna collaborazione con il de Jacobis, tanto da sollecitarne la nomina a vescovo, dopo aver vinto la sua riluttanza.
Anche i missionari cattolici incorsero nelle misure punitive di Teodoro: de Jacobis, arrestato a Gondar, fu poi espulso; uno dei suoi collaboratori etiopici, Abba Ghebra Michael, fu condannato a morte. Intrepidamente de Jacobis, tornato in Etiopia, si offrì prigioniero al posto del Conte Russel, emissario di Napoleone III e fu poi liberato dietro pagamento di un riscatto di 1000 dollari; morì esausto per la fatica e le privazioni nel 1860, compianto da tutti.
Con l'apostolato di Guglielmo Massaia l'attività missionaria cattolica in Etiopia ebbe il suo momento più alto. Del suo costante impegno il Massaia, divenuto in seguito cardinale in riconoscimento della sua opera, ci ha lasciato testimonianza ne "I miei 35 anni di missione nell'alta Etiopia", in cui, fra l'altro, non rinunciava lasciare bordate polemiche contro i missionari protestanti. Scriveva difatti il sant'uomo, con ironica malizia, di una distribuzione da parte dei Protestanti di "bibbie ed altri libracci", tradotti in lingua galla, ma usando l'alfabeto amarico; il risultato fu che non soltanto i poveri Galla, ma gli stessi protestanti non ci capivano niente; anche Massaia, sebbene esperto conoscitore delle Sacre Scritture, poté appena cogliere il senso generale.103
Secondo il cardinale in Europa era necessaria una vasta cultura per "dirigere le coscienze, combattere gli errori e sventare i sofismi e le male arti di chi sostiene false dottrine e così induce gli altri in errore"; non era così in Abissinia, dove gli indigeni ignoranti nulla sapevano di "filosofia, teologia, letteratura, ecc." ed anzi erano completamente analfabeti: erano quindi sufficienti per l'attività missionaria "... pochi sacerdoti europei sufficientemente istruiti, e con alcuni indigeni abili ad assisterli ed aiutarli nel sacro ministero...".
- 25 -Era quindi giusto ammettere agli ordini sacri giovani indigeni, seppure sprovvisti di studi filosofici e teologici. Ai missionari occorrevano soprattutto lo spirito apostolico, il fervore e la santità della vita: “senza queste doti, ogni missione è destinata a perire, anche se in retta da uomini dottissimi".104
In questo almeno Massaia concordava con i missionari protestanti, che si avvalsero largamente dell'opera dei Falascia convertiti.
Molto spesso, aggiungeva Massaia, missioni " bene avviate e floridissime, sonosi perdute e distrutte per mancanza di clero indigeno”, poiché in occasione dei frequenti sconvolgimenti politici e religiosi un sacerdote indigeno "... ha maggiore autorità ed ajuti dell'Europeo per difendersi ed essere rispettato nel suo sacro ufficio...". 105
Il presule conobbe pure il carcere e l'espulsione, disposta nel 1861 da Teodoro, che revocò presto il provvedimento e ne decise la liberazione grazie all'intervento dei principi e dei cattolici galla, restituendogli pure quanto gli era stato confiscato e scusandosi col dire di esser stato tratto in inganno con false accuse il suo conto.106
Fu più duro il trattamento riservato a Massaia in un successivo arresto, quando, accusato di cospirazione, venne lasciato in mutande ed incatenato; ma anche stavolta ci fu un lieto fine:il religioso rivelò a Teodoro di essere un vescovo ( in precedenza si era fatto passare per un semplice missionario) ed il negus gli manifestò la sua ammirazione assieme al rammarico che non fosse lui l’Abuna della Chiesa copta, al posto di Salama da due anni imprigionato a Magdala per le sue malefatte.107
Commentando l'arresto del console francese Lejan, perché aveva rifiutato di sottomettersi all'umiliante cerimoniale imposto da Teodoro, il cardinale disapprovava il rigore del negus, ma criticava anche la condotta del console,perché non si era adattato agli usi locali; osservando: "...chi voglia fare il comodo suo, se ne sta nel proprio paese,e non vada a comandare e imporre i suoi usi in casa altrui...".108
Riscuoteva invece l'approvazione di Massaia l'intervento militare britannico, che aveva posto fine al regno ed alla vita di Teodoro, odiato per la sua violenza dalla maggioranza degli Abissini; tale giudizio era però temperato dal riconoscimento delle qualità dell'imperatore, che avrebbero potuto fare il bene del paese; aveva perciò - rivelava il cardinale - acconsentito alla richiesta di benedizione fattagli da Teodoro. Questi avrebbe fatto meglio ad arrendersi agli inglesi, anziché opporre una resistenza ad oltranza, poichè "... la sovranità ond’era rivestito; il valore dimostrato nelle armi; la rinomanza ch’erasi acquistato sarebbero stati titoli sufficienti per ottenere dai vincitori larghi riguardi", salvando la vita ed almeno in parte la sua corona.109
Massaia naturalmente si soffermava sulle condizioni religiose oltre che politiche dell'Etiopia, perché voleva condurre la sua missione non da diplomatico, ma da "... semplici missionario, col bastone in mano". 110
Ammetteva di non essersi potuto fare un'idea precisa delle tradizioni ebraiche del paese "... cioè, quanto a religione, se quel popolo abbia conosciuto e praticato completamente la legge mosaica; e poi abbia avuto una completa conoscenza del Cristianissimo". Dopo aver consultato molti scrittori e fonti anche locali, dichiarava di essersi alla fine convinto della probabilità "... che la Abissinia non ebbe mai un'epoca fiorente né di Mosaicismo né di Cristianesimo".111
- 26 -Riprendeva poi la polemica con i Protestanti prendendo di mira Gobat; sempre sul filo dell'ironia ne storpiava il nome in "Gobba" e ricordava la sua nomina a vescovo di Gerusalemme; era però ha sposato e la dignità vescovile era per i Copti incompatibile con lo stato matrimoniale, "... per la qual cosa gli Abissini ne ridevano, e lo chiamavano Patriarca dell'ordine di Abramo e di Giacobbe".112
Esprimeva Massaia la sua disillusione per il mancato appoggio dei governi europei "... per un'Africa incivilita o cattolica...", in cui assieme a de Jacobis aveva operato per "... chiudere le porte all'islamismo ed ai sordidi Arabi che da secoli dissanguano ed abbrutiscono questa florida regione..."; si sarebbe dovuto invece dare spazio "...agli onesti industriali e commercianti europei,ed a chi con i beni materiali porta buoni costumi ed incivilimenti..."; in tal modo sarebbe finito il commercio degli schiavi praticato dagli Arabi.
Ma i governi d'Europa invece,- lamentava il cardinale - "... fatta lega con le sette, affaccendavansi a distruggere in Europa la Chiesa, le più sante istituzioni, i principi medesimi della religione cattolica".113
Secondo l'esploratore italiano Antonio Cecchi non erano soltanto i governi europei a disinteressarsi delle missioni in Etiopia; a suo giudizio anche la Chiesa di Roma sembrava trascurarle, per cui Massaia, malgrado i suoi sforzi, aveva ottenuto risultati modesti avviati oltretutto ad uno sfacelo completo, così da lui descritto: " Sia che le strade si chiusero come per incanto dietro al bravo vescovo, sia che Roma dimentichi queste missioni, il fatto si è che esse decaddero al punto da considerarle oggi come distrutte ed al presente non servono altro che a procurare al viaggiatore tutte le difficoltà immaginabili in quei paesi ov’esse hanno esistito".
Cecchi considerava un errore aver fondato missioni nel Kaffa, regione abitata da fanatici musulmani e illustrava così le angustie del padre Léon des Avanchers, missionario rimasto ad affrontare la fame, le malattie, l'ostilità dei musulmani: "... per vivere ha dovuto mettere da parte la divisa di missionario per esser fabbro, muratore, tornitore, agli ordini di questi tiranni. Lo vorrebbero far diventare musulmano, ed è costretto umiliarsi davanti ai nemici per non divenir apostata".114
Le elevate qualità spirituali di Massaia superarono comunque simili difficoltà e misero a tacere l'avversione ed il sospetto che la sua attività di missionario poteva suscitare nei religiosi locali: fu difatti un successo la sua visita ad un "gadam" (monastero) nella regione di Mentek, dove fu accolto con gentilezza.
Nel monastero vivevano monaci e monache che - osservava il religioso italiano - si dedicavano come i Trappisti più ad attività manuali che a quelle religiose; per guadagnarsi da vivere facevano i fabbri, i vasai, i tessitori e gestivano pure un piccolo ospedale all'interno del monastero.
Si chiese a lungo il cardinale a quale religione essi appartenessero; non disponevano di testi scritti e si basavano soltanto su tradizioni; erano battezzati nelle chiese copte ed osservavano le stesse feste e gli stessi digiuni diffusi in Abissinia, per cui si sarebbe potuto crederli cristiani copti, da cui però differivano per alcune particolarità, come il diverso culto dei morti ed una più stretta osservanza della festività del sabato praticata anche dalla Chiesa copta ufficiale, ma in forma meno rigorosa; essi pertanto erano ritenuti Ebrei dagli Scioani più colti; sembravano confermarlo i loro rapporti con agli Ebrei di Gondar, osservava Massaia, nella regione esistevano circa cinquanta monasteri di quel tipo.
- 27 -Si può aggiungere da parte nostra che dovevasi trattare proprio di Falascia, dal momento che quei monaci e si esercitavano mestieri come quelli del fabbro, del vasaio, del tessitore, disprezzati generalmente da tutti, tranne che dai Falascia.
Il quadro di quel monastero tracciato da Massaia era nel complesso positivo: "Io aveva visitato parecchi monasteri eretici dell’Abissinia - scriveva il cardinale -; ma non vi aveva trovato davvero la subordinazione ai Superiori, la stima e l'affetto tra i membri della casa, e la regolarità nell’adempiere i propri doveri, che vidi ed osservai nel Gadàm di Mentek". Faceva alcune riserve sulla moralità lì esistente, ma in definitiva assolveva con benevolenza i monaci: "Quanto a moralità, vidi che si chiudeva assai troppo gli occhi: ma potevasi sperare condotta casta e devota da gente, la quale poteva dirsi piuttosto pagana che cristiana?". I monaci del resto non erano vincolati da voti od obblighi particolari, l'unica regola loro imposta era quella di vivere e lavorare insieme.
Massaia asseriva di aver operato in quel monastero molte conversioni, impartendo molti Sacramenti fra cui il matrimonio, necessario per rendere legittime le unioni di fatto già esistenti. Aveva però agito con discrezione, senza cerimonie pubbliche, non volendo urtare le autorità civili e religiose locali. La sua condotta aveva riscosso molta simpatia, tanto da essere invitato a restare nel Gadàm; ma aveva preferito far ritorno alla missione, invitando i monaci ad andare a trovarlo; aveva sperato di ottenere con la sua discrezione risultati duraturi, migliori di quelli che avrebbe potuto conseguire con un apostolato chiassoso.
Aveva sperato di trovare nel monastero "notizie, documenti ed altri materiali da poter dare un concetto sull'origine, decadimento e variazioni della loro casta". Speranza andata delusa, in quanto non aveva trovato nulla; i monaci ignoravano la lingua ebraica, non possedevano una Bibbia in quella lingua; permaneva quindi - concludeva Massaia - l'oscurità sull'origine e sulla storia dell'Ebraismo etiopico.
Criticava poi Frumenzio per aver diffuso il Cristianesimo in Etiopia operando negli ambienti di Corte, piuttosto che tra il popolo; le conversioni di conseguenza erano state ottenute per costrizione e non per convinzione, restando a volte solo esteriori, poiché i catecumeni erano rimasti in cuor loro fedeli all'Ebraismo ed alcuni avevano cercato rifugio in regioni lontane e poco accessibili per mantenere la loro fede; altri, come i Kemanti, erano regrediti verso il Paganesimo.
Se Frumenzio ed il clero copto si fossero rivolti al popolo anziché alla Corte ed alla nobiltà, non ci sarebbero state conversioni soltanto esteriori e sarebbero scomparse le pratiche ebraiche ancora rispettate, come la circoncisione, il rifiuto della carne di animali ritenuti impuri o macellati senza seguire il rituale mosaico, l'offerta di sacrifici a Dio.
I pochi rimasti apertamente Ebrei vivevano in luoghi isolati e celebravano "... qualche loro rito antico, in gran parte alterato e confuso con cerimonie cristiane e pagane. Non erano più perseguitati, ma venivano ancora disprezzati per la loro attività artigianale, poiché per gli Abissini meritavano rispetto soltanto l’attività militare, l'agricoltura e la pastorizia.
Alla domanda posta da Massaia ad alcuni notabili ebraici abissini, si avessero rapporti con gli Ebrei di altri paesi, fu risposto che essi non sapevano neanche se e dove esistessero altre comunità ebraiche.115
- 28 -All’incirca negli stessi anni di Massaia viaggiò in Etiopia un altro religioso italiano, il padre Lazzarista Giuseppe Sapeto; fu lui a suggerire a "Propaganda Fide" di istituire la missione cui fu in un primo tempo preposto Monsignor de Jacobis, precedentemente all'arrivo di Massaia.
Si dovette a Sapeto un'apertura del clero copto verso la Chiesa cattolica, manifestatasi il 28 luglio 1838, in occasione della visita a Roma di una missione religiosa copta abissina, venuta a presentare al Papa Gregorio XVI un documento attestante il compiacimento per l'attività di Sapeto, poiché il sacerdote italiano "colla parola e coll'esempio" aveva ispirato agli abissini "amore col Capo della Chiesa".
A quest'elogio di Sapeto si univa la promessa di guardare con simpatia lui stesso e quanti fossero andati ad istruire Copti nei loro doveri di buoni cristiani. Ma a tali promettenti dichiarazioni non seguì alcun atto concreto.116
Sapeto però aveva interessi da studioso, più che da missionario; finì difatti per lasciare l'abito religioso, tornando allo stato laicale, ed egli è ricordato soprattutto per aver attivamente contribuito alla creazione della colonia Eritrea, spingendo l'armatore genovese Rubattino ad acquistare un territorio ad Assab, sulla costa dancala, per crearvi una stazione di rifornimento per le sue navi, diventata il primo nucleo della presenza italiana in Africa.
Su Sapeto diede un giudizio molto lusinghiero l'ufficiale francese Théophile Lefèbvre capo della spedizione effettuata in Abissinia negli anni 1839-1843; ricordando di averlo conosciuto al Cairo e poi di nuovo incontrato ad Adua, così l'esploratore scriveva di lui: "Venu en Abyssinie pour y prêcher le Catholicisme au moment même où l’on venait de congédier la mission protestante, il avait su, malgré cette circonstance défavorable, se concilier l’affection du peuple et des chefs. En ce moment je ne pouvais pas me défendre d’une sorte de respect et d’admiration pour le zèle et le courage de ce prêtre qui s’était volontairement soumis aux plus dures privations”..117
Prova degli interessi socio-culturali di Sapeto è il saggio "Arti liberali e manuali servili degli Abissini", 118 in cui affermava l'influenza della musica ebraica su quella abissina, risalente ai tempi di Salomone e durata fino al sesto secolo dopo Cristo.
Ascendenze ebraiche Sapeto le trovava pure nelle danze religiose abissine, scrivendo: "...datbara (diaconi) e preti abissini... in circostanze solenni e ne’ riti religiosi, saltabeccano, come David e i sacerdoti ebrei, con tutte le forze calcando il suolo intorno all'Arca". Anche gli strumenti musicali abissini per Sapeto derivavano da quelli usati dagli Ebrei.
A proposito dei Falascia il sacerdote osservava come quel loro nome significasse "emigrato, fuoruscito, e per metafora monaco uscito dal mondo", così proseguendo: "... viene dalla radice verbale Falasa, emigrare, esulare, trasmigrare, trasferirsi. I Falascia sono giudei proseliti scappati in Abissinia ai tempi della conquista dei babilonesi".
Le superstizioni sulla stregoneria dei Falascia e sulla loro pretesa licantropia (secondo Sapeto da dirsi piuttosto ienantropia) avevano valso ad essi il soprannome di "Buda": il fenomeno riguardava soprattutto le donne, oltre che i fabbri.
- 29 -In alcuni casi si trattava di una finzione femminile e Sapeto così descriveva il comportamento delle simulatrici: "... gagnolavano ed ululavano perfettamente come le iene, colsi anche alcuna che faceva solfeggi sulla gamma zoologica". Che si trattasse di una finzione lo dimostrava il fatto che le donne cominciavano ad emettere "versi di iene" quando arrivava il "bada-medenith", il guaritore. Per punirle del loro inganno Sapeto consigliava ai parenti di frustare quelle donne. Questo poco caritatevole consiglio corrispondeva ad una pratica diffusa. Lincoln De Castro, medico della legazione italiana ad Addis Abeba, anni dopo scriveva a proposito delle cure contro il demonio: "... se qualcuno ne è posseduto, e come tali sono considerati gli epilettici e le isteriche, durante l'accesso legano le vittime e le bastonano di santa ragione; così il diavolo, se è in corpo, trovandocisi a disagio, fuggirà da quel trambusto".119
La superstizione, aggiungeva Sapeto, era incoraggiata dagli stessi Falascia: a somiglianza degli orecchini da essi portati, essi appendevano "cerchietti di ferro alle orecchie delle ienette catturate: quando poi le iene venivano uccise, le si credeva appunto Falascia trasformatisi in belve".
Quando non si trattava di una finzione, le donne presentavano una prima fase della crisi meno acuta e la musica era un'efficace rimedio per curarle.
In un'altra sua opera Sapeto riconosceva un influsso civile e politico dell’Ebraismo, e non soltanto religioso sugli Abissini: "Nella stessa guisa che nella costituzione dello Stato, nel suo reggimento politico-amministrativo e nell'amministrazione della giustizia, gli Abissini si accostano più alle norme giudee che ad altre qualsiasi, così nella religione, dopo l'importazione del giudaismo, furono sempre propensi a seguire le pratiche di questo culto".
In Abissinia, osservava infine Sapeto, questa influenza ebraica durò a lungo, fino alla diffusione del Cristianesimo ad opera di Frumenzio.120
Questa opera fu pubblicata nel 1890 a cura dello Stato Maggiore dell'esercito italiano: l'interesse dei militari si spiega facilmente poiché proprio in quegli anni il governo di Roma mirava ad espandere il territorio della colonia Eritrea verso l'interno, occupando zone dell'Etiopia.
Pellegrino Matteucci nel resoconto del suo viaggio in Etiopia ricordava il mititco viaggio della Regina di Saba a Gerusalemme, il suo connubio con Salomone e la nascita di Menelik I, arrivato in Etiopia con l’Arca Santa: iniziò così il culto ebraico in Abissinia, ad opera di una razza "ingiustamente maledetta". Accompagnarono in Etiopia Menelik 12 rappresentanti delle tribù ebraiche, divenuti poi i 12 giudici che formavano il seguito abituale del re; e sempre 12 erano rimasti i giudici che sedevano nei tribunali. Con un pizzico di fantasia Matteucci aggiungeva che tra le rovine di Axum potevano ancora vedersi i 12 stalli destinati ai giudici.
Nella chiesa metropolitana di Axum era custodita l’Arca dell'Alleanza, trafugata a Gerusalemme da Menelik I, al momento della partenza dalla Palestina per l'Etiopia. In quella chiesa si era fatto incoronare il negus Giovanni, assiso su di una copia del trono di Salomone fatta costruire da un falegname italiano, Giacomo Narretti da Ivrea, che aveva firmato l'opera con il suo nome scritto in caratteri amarici oltre che italiani.121
- 30 -Del Narretti, divenuto fidato collaboratore del negus, un altro viaggiatore italiano, Pippo Vigoni, scriveva che "... colla sua onestà, con suo grande senno pratico e colla rettitudine e disinteresse nei suoi intendimenti, seppe accaparrarsi la stima e l'affetto del re...".
Vigoni più che dei Falascia si interessò dell'ebraismo etiopico in generale, riportando la tradizione abissina secondo la quale gli Ebrei sarebbero giunti in Etiopia guidati da un figlio di Noè che, traversato l'Egitto, per sfuggire al diluvio si sarebbe rifugiato sulla prima montagna abissina incontrata; la costruzione di Axum sarebbe avvenuta ad opera dei suoi discendenti, poco prima della nascita di Abramo: si trattava di una datazione molto più remota rispetto all'epoca di Salomone ed il particolare del rifugio su di una montagna trovato dal figlio di Noè, sembrava essere forse una reminiscenza dell'approdo dell'arca sulla cima del monte Ararat, una volta cessato il diluvio.
Vigoni notava ancora un ricordo biblico nello stemma reale abissino, dove figurava un leone con l'orgogliosa scritta che proclamava il trionfo della razza di Salomone e della tribù di Giuda.
La popolazione abissina secondo Vigoni derivava dalla mescolanza di vari popoli giunti per ragioni commerciali dall'oriente attraverso lo stretto di Bab.el-Mandeb, cui si erano poi aggregati coloni venuti dall'alto Egitto, fuggitivi dall'Asia minore, discendenti degli Ebrei venuti con Menelik I. Questi ultimi si distinguevano per il colorito meno scuro e per i lineamenti che gli ricordavano alcuni profili incisi sugli antichi monumenti egiziani. L'Arca Santa, prima di essere custodita nel tempio appositamente costruito ad Axum in epoca incerta, seguiva la Corte reale nei suoi spostamenti fra varie sedi. Un cenno Vigoni lo riserbava infine ai Falascia, ritenuti gli eredi degli Ebrei che non si erano convertiti al Cristianesimo predicato da Frumenzio; vivevano sui monti del Semien ed il loro nome Falascian (poi divenuto Falascia) significava "esiliati".
Ad essi Vigoni attribuiva una rivolta avvenuta nel secolo X d.C., guidata da una regina, e la successiva creazione di un regno retto dai suoi discendenti per tre secoli.122
L'interesse diffuso in Italia per le vicende abissine era attestato anche dalla edizione Vallardi di un saggio del tedesco Gerardo Rohlfs avvenuta nel 1887, tradotto in italiano.123
L'autore era stato testimone diretto della spedizione inglese di Lord Napier, partecipandovi come delegato tedesco; lo stesso ruolo aveva avuto per l'Italia, assieme al maggiore Bacon, il capitano Egidio Osio, in seguito, divenuto colonnello, precettore del principe Vittorio Emanuele, futuro re.
In un estratto della sua relazione su quell'esperienza Osio ricordava la liberazione, dopo la fine di Teodoro, di 61 prigionieri, per la maggior parte artigiani tedeschi.124
Nella sua opera Rohlfs ricordava la diffidenza di Teodoro verso i missionari, considerati l'avanguardia di una conquista straniera: "... dapprima vengono i missionari, poi i consoli, da ultimo i soldati...", aveva detto il negus. Tale timore, condiviso dal negus Giovanni, successore di Teodoro, bloccò sul litorale eritreo l'attività della missione evangelica svedese, impedendone l'espansione verso l'interno. Giovanni si era rivolto con ironia ai missionari svedesi affermando che gli Abissini erano cristiani e non c'era bisogno di missionari per convertirli. Chiesto poi se in Svezia ci fossero ebrei ed ottenuta una risposta affermativa, aveva consigliato di dedicarsi alla loro conversione, piuttosto che a quella dei Falascia.
- 31 -Per giustificare la propria attività, uno dei missionari tentò una timida difesa, sostenendo essere la loro missione ispirata da intenti educativi piuttosto che religiosi. In effetti, ricordava Rohlfs, nella missione svedese in Eritrea erano educati circa 150 ragazzi abissini di entrambi i sessi; lo studioso criticava però l'insegnamento dello svedese, lingua del tutto inutile in Etiopia, per cui sarebbe stato preferibile insegnare l'inglese ed il tedesco.
I protestanti erano malvisti in Abissinia per il loro rifiuto del culto di Maria e dei santi e per non praticare essi i digiuni; l'ostilità dell'imperatore nei loro confronti era quasi scusata dall'autore ricordando l'analoga intolleranza contro i Gesuiti, espulsi dai governi di Francia e Germania.
Rohlfs riteneva i Falascia della stessa razza degli Abissini ed ebbe occasione di incontrarli a Gondar visitando il quartiere ad essi riservato. Pur se appartenenti alla stessa etnia degli Abissini, i Falascia erano indubbiamente di fede ebraica, anche se il loro credo differiva da quello degli Ebrei degli altri paesi, in quanto basato sulla Bibbia, restando invece da essi sconosciuto il Talmud. Questa particolarità per Rohlfs dimostrava il loro arrivo in Etiopia in epoca precedente alla prigionia a Babilonia, provenendo essi come gli altri Abissini dall'Arabia.
Nei tempi più antichi, sosteneva Rohlfs, la religione ebraica era stata propria di tutti gli Etiopi.
Il fanatismo dei Falascia non era inferiore a quello dei copti, con i quali avevano molte affinità religiose, usando pure una Bibbia nella lingua sacra dell'Etiopia, il ge’ez. Durante la visita al quartiere dei Falascia a Gondar l'esploratore tedesco era stato accompagnato da una scorta, per il timore di incidenti.
I problemi ci furono non con i Falascia, ma con i soldati che attaccarono un Falascia per il suo rifiuto di dare loro il grano richiesto. Un altro momento di tensione c'era stato quando i Falascia spruzzarono d'acqua Rohlfs per purificarlo e l'esploratore dovette intervenire per trattenere i soldati.
A Gondar Rohlfs aveva pure incontrato nella chiesa metropolitana il gran sacerdote copto, cui aveva chiesto se avesse mai visitato Gerusalemme. Il religioso rispose che Axum era un luogo ancora più sacro, poiché vi si era fermata la Sacra Famiglia in fuga verso l'Egitto. La seconda domanda di Rohlfs fu come mai l'Arca Santa custodita nella chiesa non fosse andata distrutta nell'incendio appiccato dagli invasori musulmani. Quasi scandalizzato e dimostrando una fede disarmante nel sovrumano, il gran sacerdote rispose che gli angeli avevano sottratto l'Arca alla vista dei Musulmani.
L'Arca era anzi invisibile per tutti, custodita in un luogo ignoto e visibile solo per il gran sacerdote, che confidava al suo successore dove si trovasse l'andito segreto che l'ospitava.
L'unica Arca autentica era quella custodita nella Chiesa metropolitana di Axum; nelle altre chiese vi erano soltanto delle copie.125
Ma l'Etiopia e la sua civiltà non erano in quel periodo oggetto di interesse soltanto per gli esploratori italiani o di altra nazionalità. Veniva infatti allora fondata la Scuola Orientale di Roma ad opera di Ignazio Guidi, autore di un articolo, "I popoli e le lingue di Abissinia" apparso nel 1887 sulla "Nuova Antologia", dedicato anche ai problemi storici e linguistici posti dai Falascia.
- 32 -Era ricordata l’incertezza relativa al loro numero, oscillante fra 10.000 e 50.000 individui; veniva riconosciuta la loro appartenenza all'etnia agau; la loro particolarità consisteva nella religione ebraica da essi professata; lo studioso scriveva:"... piuttosto che scorgere in essi i discendenti di non so qual tribù israelitica, dovranno, se non erro, riguardarsi piuttosto come una popolazione agau, che abbracciò il giudaismo. Un simile fatto non è inaudito, e neppure improbabile in popolazioni primitive; le quali mancando di idee religiose ben determinate, accettano facilmente quelle di religioni superiori". Si trattava, secondo Guidi, di un fenomeno analogo a quello verificatosi per i Saho, i Dancali, i Somali e molti Galla, convertitisi nell'islamismo. Nella lontana Asia si convertirono all'Ebraismo i Kazari; anche nell'Arabia meridionale alcune popolazioni si erano convertiti alla fede ebraica, rimasta diffusa fino al VI secolo d. C. e da lì passate in Etiopia - riteneva il Guidi - ad opera dei re di Axum che avevano mosso guerra agli Ebrei dell’Arabia, fatti prigionieri ed oppressi al pari degli Agau; spinti appunto dal comune odio contro gli oppressori ad abbracciare la religione dei compagni di sventura venuti dall’Arabia.
In seguito ai ritrovamenti fatti successivamente in Egitto dei resti della colonia ebraica di Elefantina, Guidi ritenne esser quello il luogo di provenienza dei Falascia, rimasti ribelli alla dinastia axumita e dispersi in varie regioni. Nel 960 d.C. la ribellione dei Falascia rovesciò la dinastia axumita ed essi formarono un loro regno, durato fino al 1268 quando risorse il potere dei re di Axum, contro i quali si ebbero ancora rivolte dei Falascia. Non dimenticava infine Guidi di ricordare i kemanti, diffusi intorno a Gondar ed al lago Tana, pure essi di etnia agau e seguaci di una loro religione formata da un miscuglio di elementi ebraici e pagani.126
Ancora sulla "Nuova Antologia" nel 1890 Guidi tornò ad occuparsi della religiosità degli Abissini, ricordando come essi nei secoli XVI e XVII avessero difeso le loro tradizioni e le loro pratiche giudaizzanti in polemica con i Gesuiti e la loro pretesa di convertirli. Il re Claudio aveva orgogliosamente sostenuto che quelle tradizioni ed usanze non derivavano da una influenza ebraica, poiché esse avevano caratteristiche e motivazioni proprie ed originali. Nei pochi casi di conversione, i Copti restavano in cuor loro legati all'antica fede, cui finivano per fare ritorno a breve distanza di tempo. Il negus nel 1880 aveva costretto i musulmani a convertirsi, minacciandoli di espulsione se si fossero rifiutati; anche in quel caso le conversioni erano di breve durata.
Lo stesso fenomeno, possiamo aggiungere, si verificava per i Falascia convertiti dai missionari, ma rimasti in cuor loro fedeli Ebrei che poco dopo abiuravano il Cristianesimo ritornando all’antica fede apertamente.
Guidi concludeva respingendo ogni accostamento fra la Chiesa ortodossa russa e quella copta abissina, anche se esse avevano in comune alcune antichissime tradizioni (battesimo per immersione, eucaristia sotto le due specie, matrimonio dei preti), conservate dalle due Chiese indipendentemente l'una dall'altra e comuni anche ad altre Chiese orientali, da cui i Copti si differenziavano "... per quei precetti e consuetudini che in parte sentono di giudaismo, come l'osservanza del sabato, le leggi di impurità, l’astenersi dalla carne di porco, dal sangue ecc., ma in parte anche di rozzo paganesimo".127
- 33 -Quando a metà del IV secolo si ebbe la diffusione delle Cristianesimo in Etiopia, i Falascia - notava Guidi in un successivo articolo - dimostrarono un tenace attaccamento alla loro fede ebraica; non si ebbe quindi una conversione in massa, ma si formò soltanto una piccola comunità cristiana e - concludeva l'autore -"... molti anni dovettero passare prima che il Cristianesimo si diffondesse per tutto, o almeno nei principali luoghi...". 128
Nel precedente parallelo tracciato tra la Chiesa russa e quella copta d'Etiopia, Guidi aveva esclusa la possibilità di stabilire tra esse una connessione; lo ribadì in quella occasione, per la particolarità dei Copti "... per quei precetti e consuetudini che in parte sentono di giudaismo...". Toccava così un nodo centrale della storia religiosa dell’Abissinia, stabilire cioè quale rapporto intercorreva tra Ebraismo e Chiesa copta.
Rapporto complesso e controverso, che già Ludolf aveva affrontato, riportando l'appassionata perorazione del negus Afnaf Segued (ricordato da Guidi con il nome europeo di Claudio), intesa ad affermare che le pratiche copte, ritenute di derivazione ebraica, in realtà aveva origine e significato ben diversi.
Ludolf aveva così riportate in latino le affermazioni del sovrano abissino circa l'osservanza del sabato praticata dai Copti: "Quod vero attinet ad celebrationem nostram, prisci Sabbati diei; non sane celebramus illud sicut Iudaei, qui crucifixerunt Christum dicentes: sanguis ejus super nos et super liberos nostros. Quia illi Iudaei neque hauriant aquam, neque accendunt ignem, neque coquunt ferculum, neque pinsunt panem, neque migrant de domo in domun. Nos autem ita celebramus illud ut administremus in eo die sacram coenam et exibeamus in eo agapas (idest convivium charitatis pauperibus vel viduis dari solita sint praeceperunt nobis patres nostri Apostoli…).129
Il re Claudio sosteneva poi l'origine cristiana del divieto di mangiare carne di maiale (Matteo XV,11).
Argomenti che non convincevano il gesuita Lobo; in costante polemica con il luterano Ludolf gli rimproverava di aver accettato le tesi di Claudio, senza ricordare il divieto opposto ai cristiani dal concilio di Laodicea alla celebrazione del sabato e confermava il giudizio sull'origine ebraica del divieto di mangiare carne di porco, oltre che della consuetudine di sposare la vedova del fratello morto, della purificazione imposta alle puerpere, dei tre digiuni osservati in febbraio dai Copti, a somiglianza di quelli praticati dagli ebrei a Ninive durante la prigionia di Babilonia.130
La critica moderna si è soffermata su questo indubbio rapporto tra Ebraismo e Cristianesimo in Etiopia, prospettando le ipotesi alternative che si tratti di derivazioni dall'ebraismo ovvero da una più generale tradizione semitica.
Edward Ullendorf ha posto chiaramente il problema, esaminando i vari aspetti della religiosità degli Abissini in rapporto alle tradizioni ebraiche che appaiono esser più simili,131 per cui è possibile affermare che la particolarità del Cristianesimo dei Copti abissini deriva proprio dalle peculiarità che lo avvicinano all’Ebraismo; tale particolarità religiosa costituisce un tratto essenziale dell'individualità nazionale: "Christianity, its peculiar Abyssinian form impregnated with strong Hebraic and archaic Semitic elements had long become the repository of the cultural, politic and social life of the country. In fact, there developed in Ethiopia «a purely indigenous form of Christianity» which brought about «the integration of the Church as the symbol of Abyssinian nationality».”132
- 34 -Tali affinità potevano anche essere in alcuni casi fortuite o derivate da una eredità semitica comune ad ebrei e cristiani; gli etiopi comunque avevano sempre rivendicato una discendenza ebraica, facendone un vanto: "Ethiopians have always considered themselves the lawful successor of the Jews”.133
Una diaspora ebraica nelle regioni cuscitiche ha avuto come più antichi assertori Isaia (XI, 1) ed Erodoto (II, 104), che posero il problema se la circoncisione fosse una pratica venuta ai Palestinesi dagli Egizi o forse dagli Etiopi; in tale prospettiva erano rovesciati i termini della questione, non era considerata più quella usanza una derivazione ebraica passata agli Abissini.
Ullendorf citava pure l'opinione di Ludolf, che tra le varie ipotesi aveva ricordato quella secondo la quale gli Abissini avrebbero conosciuto il vero Dio già al tempo di Salomone: "...ii fere sunt qui putant eos cognitionem veri Dei a tempore Salomonis habuisse; ritusque judaicos veluti cinconcisionem, abstinentiam a cibis lege Mosaica vetitis, observantiam Sabbati, coniugium leviri cum glore et similia, originem suam inde traxisse”.134
Questa lontana ascendenza ebraica della religione copta è stata generalmente ammessa; Conti Rossini l'ha riconosciuta con chiarezza ed al contempo ha ritenuto erroneo definire la religione dei Falascia un semplice miscuglio di elementi cristiani e pagani con l'aggiunta di alcune cerimonie ebraiche.135
Ullendorf negava poi che gli Ebrei fossero arrivati in Etiopia da Elefantina, in Egitto, sostenendo invece la loro provenienza dall’Arabia meridionale, dove si erano già stabiliti dopo la distruzione del primo tempio, venendo in seguito raggiunti da una più massiccia emigrazione, verificatasi dopo l’anno 70 dell’era volgare, quando Tito distrusse il secondo tempio; furono così sostituite in Arabia le divinità pagane locali con quelle denominate "Du-Samawï" e "Rahmann”, di chiara origine ebraica: "South Arabia must be considered the principal avenue by which jewish elements reached the Kingdom of Aksum. At the same time, it must be clear that these elements bore a general Hebraic cast reflecting an early form of Judaism still fairly free from Talmudic minutiae”.136
Alcune tradizioni dell'ebraismo - aggiungeva l'autore -, come la leggenda della Regina di Saba, l'appellativo "figli di Israele" rivendicato dagli Abissini, l'orgogliosa affermazione di essere il popolo eletto, l'Arca dell'Alleanza devotamente custodita ad Axum erano parte integrante del patrimonio nazionale abissino ancora prima dell'avvento del Cristianesimo nel IV secolo. Ullendorf non ha ritenuta dimostrata la persecuzione degli Ebrei in quel momento storico, dissentendo dall'opinione espressa dal Rathiens;137 riti ed usanze ebraiche furono introdotti nella Chiesa copta dagli Ebrei convertiti al Cristianesimo.
Ma al riguardo Conti Rossini aveva sostenuto una diversa opinione già molti anni prima dell'articolo di Ullendorf: “ È però falso che la festa del sabato sia dovuta ad influenze giudaiche: essa fu introdotta soltanto da re Zara Jacob, non senza lunghe aspre resistenze del clero ufficiale, ed il re vi si indusse per prevenire una specie di secessione nelle province settentrionali. L'obbligatorietà dell'osservanza del sabato era propugnata specialmente da Debra Bizen e dai conventi che ne riconoscono la supremazia...".
- 35 -Non soltanto quindi vi erano diverse modalità per il rispetto del sabato per Ebrei e Copti, come aveva rivendicato il re Claudio, ma l'adozione di quella festività da parte dei Copti era molto più recente (Zara Jacob, detto pure Costantinus, regnò dal 1437 al 1468) ed era inoltre dovuta a ragioni politiche, proponendosi il re di cementare con un rito comune l'unione con le riottose popolazioni del Nord (fra cui erano appunto i Falascia), in perenne rivolta contro l'autorità regia.138
E sempre per ragioni politiche, secondo l'opinione di Conti Rossini, gli Agau avevano adottato l'ebraismo, trovando in esso una difesa contro la supremazia degli Amara cristiani.139
Comune al Conti Rossini e all’Ullendorf era l'osservazione circa l'inquinamento della religiosità abissina con "... credenze superstiziose e magiche, larghissimamente diffuse...", come scriveva lo studioso italiano, ricordando l'arcana potenza attribuita ai fabbri, ritenuti "buda", cioè stregoni, il timore del malocchio, le formule magiche ed i talismani usati per scacciare i geni cattivi.
Ullendorf dal canto suo trovava nella Chiesa abissina un substrato pagano di magia e superstizione, cui si erano sovrapposti riferimenti alla Madonna ed ai Santi.
Superstizioni derivanti non soltanto dal paganesimo, ma anche dal mondo semitico. Nell'antico Oriente, e non soltanto presso gli Ebrei, era diffusa la demonologia, osservava ancora Ullendorf, citando l'autorevole testimonianza di Ludolf, "...tota ista detestabilis scientia a judaeis originem habet…”.
Lo scudo di David ed il sigillo di Salomone avevano il valore di amuleti sia per Ebrei che per gli Abissini, ed erano accompagnati da formule magiche ed invocazioni ai poteri ultraterrene per scacciare i demoni ed il malocchio; entrambi i popoli avevano derivato quelle pratiche da una comune tradizione semitica.140 Nella saga nazionale abissina, il “Kebra Nagart” (“Libro dei Re”) aveva un ruolo centrale la leggenda di Salomone e della Regina di Saba. L'Arca Santa veniva custodita con devozione ad Axum ed in molte altre chiese erano venerati i “Kabot”, cioè le riproduzioni delle Tavole della Legge, portate in processione con cerimonie simili a quelle degli Ebrei per il trasporto dei rotoli della "Torah” e le musiche con cui i Copti accompagnavano quel rito ricordavano la danza ed il suono dell’arpa del re David eseguiti attorno all’Arca.
Anche l'architettura delle chiese copte - annotava ancora Ullendorf - con la tripartizione degli ambienti sacri ricordava quella delle sinagoghe, come non era sfuggito a Ludolf: la parte più interna era il "sancta sanctorum", cui potevano accedere soltanto i sacerdoti; inoltre le chiese copte, come le sinagoghe, erano poste in posizioni dominanti.141
Gli Abissini si attenevano, osservava ulteriormente l’Ullendorf, solo parzialmente ai precetti alimentari ebraici: rifiutavano infatti le carni proibite, ma non la commistione di carne e latte.
Le feste più importanti della Chiesa abissina erano inoltre una trasformazione di antiche pratiche religiose proprie degli Ebrei, come quella dell’anno nuovo da questi ultimi celebrata il primo giorno del mese di Moskäzäm (corrispondente all’11 settembre) mentre gli Abissini con un lieve spostamento di data la solennizzavano il 18 settembre, a ricordo dell’uccisione di S. Giovanni Battista, prendendo un bagno purificatore nel fiume più vicino e sacrificando animali.
- 36 -La festa per il ritrovamento della Croce, il “Mäskal”, una delle più importanti feste abissine, ricordava l’antica tradizione del dono del braccio destro della Croce, fatto dal Patriarca di Gerusalemme al re abissino David I (1380-1409), in segno di gratitudine per l’aiuto prestato contro il sultano d’Egitto.
La circoncisione, diffusa in molti altri paesi seppure con modalità diverse, era considerata nel “Fathe Negast”, testo sacro della Chiesa copta, un’abitudine igienica e non un precetto religioso; inoltre gli Abissini (Falascia compresi) praticavano anche l’escissione femminile, sconosciuta agli Ebrei.
Ullendorf arrivava perciò ad una conclusione analoga a quella di Conti Rossini (“…in generale, chi esamina le credenze e le pratiche della Chiesa abissina, vi rileva maggiori punti di contatto col giudaismo..”), scrivendo: “Travellers from the earliest times to the present day have always found an authentic Old-Testement-Hebraic-jewish flavour in Ethiopia and this - according to their wiews– condamned or praised them for it”. 142
Venendo infine al particolare Ebraismo dei Falascia Ullendorf concordava con il Conti Rossini nel ritenere esagerato il considerare la loro religione un semplice miscuglio pagano-cristiano con qualche cerimonia ebraica. Di particolare importanza fra le loro tradizioni era il monachesimo, estraneo alle consuetudini degli Ebrei e diffuso invece tra i Copti.
W. Leslau ha osservato come i giudizi dei Falascia siano stati sempre filtrati attraverso le opinioni espresse dai missionari e pure A.Z. Aešcoly ha sostenuto la stessa connessione della religione falascia con quella copta (“Il est probable que l’histoire de la religion des Ethiopiens chrétiens et celle des Falachas sont très lieés l’une avec l’autre, et peut-être n’en font qu’une”).
Parole analoghe a quelle di Ullendorfm che così scriveva a proposito della religione dei Falascia: “…may well reflect to a considerable extent the religious syncretism of the pre-Christien Aksumite Kingdom…”.
L’interesse storico offerto dai Falascia consiste nel costituire essi una testimonianza vivente della civiltà di stampo giudaico propria degli immigrati dell’Arabia del sud, piuttosto che “…their rehabilitation as a long lost tribe of Israel which is historically quite unworranted”.
Essi, come i Copti, “…are stubborn adherents to fossilized Hebrew – Jewish beliefs, practices and customs which were transplanted from South Arabia into the Horn of Africa…”.143
La Chiesa copta aveva poi un debito linguistico nei confronti dell'Ebraismo, sempre secondo Ullendorf, riscontrabile anche nella tradizione della Bibbia in ge’ez, usata anche dai Falascia: "...Nöldeke and Robinson have pointed out that the translators must have had the assistence of jews in the all those cases where a Hebrew original is reflected in the Ethiopic translation. There is no difficulty in seeking such helpers among the jewis or judaized immigrants from any period till about the seventh century. On the other hand, the conditions cannot possibly be adjudged suitable for large-scale Hebrew revisions or corrections in the late Middle-Ages”.
- 37 -Per Ullendorf la datazione risaliva al periodo intercorrente fra il quarto e forse il settimo secolo d.C., piuttosto che ai secoli XIV e XV: "...direct Syriac or Hebrew influences, from different quarters, of course, can readily be accounted for in the period from the 4th to perhaps the 7th century; they cannot be credible in the 14th or 15th centuries”.144 E’ da ritenere infatti che in quel tempo gli immigrati dall'Arabia meridionale avevano perduto l'uso della lingua ebraica.
Il giudizio complessivo dell’ Ullendorf sui rapporti fra l'Ebraismo e le tradizioni culturali e religiose dell'Etiopia si compendia nell'affermazione che essi sono "...an integral part of the Abyssinian national heritage long before the introduction of Christianity..”.145
Ma oltre all'adozione del ge’ez come lingua sacra, i Falascia presero dalla Chiesa copta un'altra importante particolarità: il monachesimo, estraneo alla tradizione ebraica.
Steven Kaplan ha illustrato l'importanza del fenomeno. Il regno di Amdä Seyon (1314-1344) i Falascia furono sottoposti a sempre più insistenti pressioni cristiane. Il potere effettivo del re si era difatti accresciuto grazie alla creazione di un esercito posto alle sue dirette dipendenze, sostituendo le milizie locali dei vari ras, spesso infedeli al negus neghesti, il re dei re. Pertanto i Falascia subirono ripetute sconfitte e nello stesso periodo i monaci copti aumentarono la loro attività nella zona attorno al lago Tana, abitata dai Falascia.
Nell'opera di conversione dei Falascia si distinse il monaco Gäbrä Iyasus, secondo le ricerche di Conti Rossini. Passò invece dalla parte dei Falascia un altro monaco copto, Qozemos, divenuto il condottiero della rivolta contro il re David; sotto la guida del monaco i Falascia si resero quasi indipendenti dopo aver distrutto molte chiese ed ucciso molti religiosi copti. Isacco, figlio e successore di Davide, stroncò la rivolta dei Falascia e ne accelerò l'integrazione nel regno cristiano, riservando la proprietà della terra ai convertiti al Cristianesimo. Malgrado questo decreto reale ed il proselitismo sempre attivo dei Copti, i Falascia non si piegarono e mantennero l'antica fede. Qozemos lasciò come sua eredità religiosa ai Falascia l'introduzione delle monachesimo, dotato di una valenza politica oltreché religiosa, poichè costituì il mezzo per dar loro una nuova vitalità morale ed ideologica dopo la sconfitta subita; seguendo l'esempio di Qozemos, furono i monaci a costituire la nuova classe politica dei Falascia sostituendo i capi laici. Le istituzioni monastiche furono una garanzia per l'identità Falascia, contrastando con successo l'imposizione della cultura cristiana, per cui la religiosità dei Falascia sopravvisse al loro declino politico.146
L'importanza di Qozemos nella storia dei Falascia è stata sottolineata pure da Kay Kaufman Shelemay: il monaco, oltre ad essere un protagonista della loro resistenza a re David ed al Cristianesimo, tradusse per loro il Pentateuco in lingua ge’ez.
La resistenza opposta alla supremazia politica di David ed ai tentativi da lui messi in atto per convertire al Cristianesimo i Falascia - ha osservato lo studioso - non creò comunque una barriera tra essi ed il circostante ambiente etiopico, da cui derivarono spunti e suggestioni: la loro discendenza dalla Regina di Saba e da Salomone, divenuto un mito per l'intera nazione, venne dal "Kebra Nagart”, opera celebrativa del popolo etiopico e dei suoi re, la cui composizione fu stratificata nel tempo, giungendo la redazione finale nel XIV secolo.
Lo stesso autore ha formulato dubbi sull'ipotesi largamente accettata di una immigrazione ebraica dall'Arabia meridionale in Abissinia, facendo presente che essa non coincide con i risultati delle indagini genetiche compiute su sei gruppi etnici abissini, fra cui i Falascia.147
- 38 -Kaufman Shelemay non ha dato una sua risposta a questo problema della provenienza dei Falascia, limitandosi a riportare le varie ipotesi formulate al riguardo, fra cui quella del falascia Yona Bogale (l'allievo di Faitlovitch divenuto un leader culturale della sua gente), a cui giudizio i primi Ebrei erano giunti in Etiopia dall'Egitto, seguiti da una successiva migrazione verso Axum ed il Semien.
Dopo le sconfitte patite dai Falascia ad opera del re Isac, il colpo di grazia alla loro indipendenza politica fu dato nel 1624 dal re Susneynos, che impose loro di convertirsi al Cristianesimo, minacciando la morte a chi si fosse rifiutato. Il divieto di non rispettare più la festa del sabato, imposto per sradicare una tradizione cara ai Falascia, procurò a Susneynos l'avversione anche dei Copti, pur essi rispettosi di quella festività. Malgrado le ordinanze reali, la ribellione dei fedeli impedì l'attuazione del divieto e pertanto il sabato continuò ad essere un giorno sacro anche per i Copti dell’Abissinia.148
Questi dubbi di Kaufman Shelemay sulla provenienza arabica degli Ebrei non erano stati in precedenza propri di Maxime Rodinson;149 questi però riteneva che prima del Cristianesimo l'Ebraismo era poco radicato nella penisola arabica e quindi non avrebbe potuto avere una forza espansiva verso l'Etiopia. Solo in seguito, sarebbe stata proprio la chiesa cristiana a rinverdire le tradizioni bibliche, diffondendo così elementi ebraici. Lo studioso respingeva quindi l'opinione espressa nel secolo XVI dai Gesuiti portoghesi sulle influenze ebraiche nella Chiesa copta, facendo osservare come tale giudizio fosse stato già respinto in un lontano passato da Richard Simon.150
In epoca più recente Conti Rossini aveva a sua volta riconosciuto come alcune particolarità della chiesa copta non avessero un'origine ebraica, ma provenissero piuttosto dal paganesimo, ovvero derivassero direttamente dall'antico Testamento, senza che ci fosse stata una mediazione dei Falascia, un influsso ebraico poteva esserci stato, ma solo dopo l'avvento del Cristianesimo in Etiopia.151
L'autore accettava l'ipotesi della provenienza degli Ebrei dall'Arabia meridionale, pur ammettendo l'inesistenza di documenti che lo provassero e negava la possibilità di un loro arrivo in Etiopia dall'Egitto, com'era stato sostenuto da Ignazio Guidi. Riteneva inoltre che le suggestioni esercitate dal Vecchio Testamento sui Cristiani di altri paesi, indipendentemente da un proselitismo degli Ebrei, potevano avere indotto i Copti ad adottare costumi ebraici, come era avvenuto in Inghilterra, dove una setta cristiana, quella dei sabbattisti, onorava il sabato; in alcuni casi c'era stata una conversione vera e propria all'ebraismo, frutto di letture bibliche, come era avvenuto nel villaggio pugliese di San Nicandro.
Per Donald Crummery i missionari protestanti un qualche successo l'avevano ottenuto con la loro attività fra i Falascia, nonostante i limiti imposti loro dalla situazione dell'Etiopia: "...it remains one of the most promising, but unrealized, of all experiments in our area…the Falasha missions were the only ones to meet head - on the difficulties inherent in the indirect approach. They made converts to what was essentially Protestantism, yet channelled their adherents in to the Ortodox church”.152
- 39 -La prospettiva di un pieno successo dei missionari protestanti preoccupò gli Ebrei d'Europa, che fino ad allora avevano avuto con i confratelli d'Etiopia rapporti occasionali e sporadici, restando semplici aneddoti privi di una qualsiasi conseguenza storica.
Fu questo, ad esempio, il caso di un ebreo viennese, Salomone, giunto in Etiopia all'inizio del XVII secolo, all'epoca del re Susenios. Su questo episodio ha fatto luce Carlo Conti Rossini, riferendo che era corsa voce esser stato Salomone incaricato dagli Ebrei europei di stabilire un contatto con i Falascia, ai quali avrebbe potuto portare aiuto grazie alle sue conoscenze e capacità di armaiolo. Si era pure detto che il suo viaggio aveva scopi commerciali, ma oltre a varie mercanzie Salomone aveva portato con sé libri rabbinici e Bibbie.
L'arrivo dell'ebreo fu ricordato dal patriarca Alfonso Mendez nella relazione inviata al generale dei Gesuiti Muzio Vitelleschi, relativa agli avvenimenti etiopici del 1626-1627. Si riferiva che l'ebreo era "tenuto per oracolo" e che molti gli si erano rivolti per avere chiarimenti sui libri sacri: "... il che facendo egli, insegnava loro come astuto molti errori", affermava il patriarca.
Si erano rivelati inutili i ripetuti tentativi dei Gesuiti per allontanare quel "pestifero maestro", poiché il re Susenios esitava a causa del prestigio acquistato da Salomone; ma alla fine vennero meno quelle esitazioni dopo la confutazione delle tesi dell'ebreo da parte del patriarca Mendez; pertanto Salomone fu espulso e "... furono abbrugiati per ordine dell'imperatore e tutti i libri de’ Rabbini che egli haveva...".153
Accenni all’esistenza dei Falascia erano stati fatti da studiosi ebrei ancor prima dell’arrivo di Salomone in Etiopia. Obadiah di Bertinoro se ne occupò nel 1488; successivamente Abraham Levi nel 1528 scrisse da Gerusalemme che i Falascia distavano tre giorni di viaggio da Suakin, località della costa dancala, riferendo notizie su di un regno ebraico in Etiopia e sulle persecuzioni subite dai Falascia ad opera del re cristinao Teodoro, che nel 1504 aveva compiuto una strage, uccidendo 10.000 ebrei. Ed ancora, alla fine del XVI secolo, nel 1592 Elia da Pesaro tornò a parlare degli Ebrei d’Abissinia. Ad ognuno di questi casi non seguì un interesse duraturo, restando perciò invariato l’isolamento dei Falascia dal restante mondo ebraico.
L'ebraismo europeo cominciò a dimostrare un più serio interesse per i Falascia all’inizio del secolo XIX quando Solomon Judah Löb Rapoport pubblicò nel 1824 sul “Bikkure ha – Ittim” un articolo sulle tribù ebraiche dell’Arabia e dell’Abissinia; successivamente su “Kerem Hemed” apparve un altro suo articolo sui Kazari, sui Caraiti e sulle 10 tribù perdute di Israele, da una delle quali si riteneva discendessero i Falascia. Questi articoli diedero notorietà all’autore e gli fecero avere l’amicizia di Samuel David Luzzatto, padre di Filosseno, autore di quello studio pubblicato negli anni 1851-54 sugli Archives Israélites, rimasto un caposaldo delle ricerche sui Falascia, destinato ad avere larga eco sulla stampa ebraica.
Sull’ "Educatore Israelita" di Vercelli apparve un articolo di Samuel David Luzzatto, dal titolo "Discorsi storico-religiosi", in cui era riconosciuta l'origine africana dei Falascia (1855, pp. 297-301; 1856, pp. 7-11).
Ricordata l'opera del figlio, "... quel genio che Voi meco piangete...", il Luzzatto scriveva sui Falascia: "... non presentano nulla del tipo caratteristico della fisionomia giudaica, cui (sic) gli altri ebrei hanno conservato in tutte le parti del mondo e in tutti i climi anche nell’Arabia felice sotto la medesima latitudine dell’Abissinia.
- 40 -Essi quindi non possono credersi di stirpe israelitica; ma bensì originariamente africani".
Erano poi ricordate la deportazione in Egitto di più di 100.000 abitanti della Giudea decisa dal re Tolomeo Soter e la presenza di soldati ebrei in molte guarnigioni dell'Egitto, poste anche ai confini della Nubia, da dove gruppi di ebrei si sarebbero spinti in Abissinia, creando il piccolo regno di Axum. Si diffuse così in Abissinia la fede ebraica durata fino all'avvento della Cristianesimo verso la metà del secolo IV; anche dopo alcuni rimasero fedeli all'Ebraismo e si formò così la comunità Falascia. Essi credevano nel Dio di Abramo, nella resurrezione dei morti, nel Giudizio Universale e vivevano nell'attesa di un Messia della famiglia di David, dal nome greco Teodoros (dono di Dio); tale denominazione confermava la provenienza dei Falascia dall'Egitto, dove gli Ebrei parlavano il greco.
Era rigida l'osservanza del sabato da parte dei Falascia e diffusa la pratica dei sacrifici di animali, eseguiti anche se lontani dal Tempio di Gerusalemme dove secondo la tradizione avrebbero dovuto aver luogo. I Falascia ritenevano di essere gli unici Ebrei esistenti; avuta notizia da Antoine D’Abbadie che invece essi erano presenti in molti altri paesi, avevano reso grazie a Dio.
Essi osservavano feste e digiuni corrispondenti a quelli degli altri Ebrei; l'obbligo del celibato era imposto ai monaci, ma non ai sacerdoti; oltre alla circoncisione praticavano l'escissione femminile, usanza derivata dall'antico Egitto e praticata anche dagli Abissini copti, per i quali però non aveva un significato religioso. Luzzatto aggiungeva un particolare cruento: secondo alcuni viaggiatori l'operazione sarebbe stata eseguita dalle donne abissine adoperando le unghie. Nello stesso anno 1855 "L’Educatore Israelita" pubblicò un altro articolo non firmato "Una specie di missione religiosa. Agli Ebrei d’Abissinia" (Varietà, pp. 370-371), informando dell'invio di una lettera agli Ebrei di Abissinia da parte di "... alcuni zelanti Ebrei di Gerusalemme...". Aveva dato la notizia al giornale il rabbino Hansdorf di Gerusalemme, precisando che la lettera era stata indirizzata "Ai nostri fratelli Abissini della città di Condor (Gondar) e alla loro rabbino Isaac Cohen". Gli Ebrei di Gerusalemme si dicevano lieti di aver appreso da un ebreo abissino, Daniele, l'esistenza di confratelli in Abissinia. Essi però per varie vicissitudini avevano abbandonato molte tradizioni e non conoscevano la lingua ebraica necessaria per la celebrazione di molti riti religiosi. Daniele era stato perciò istruito in molte particolarità della Santa Legge e avrebbe potuto diffonderle al suo ritorno in Abissinia. Anche un figlio di Daniele, rimasto a Gerusalemme, sarebbe stato istruito nella vera fede. Si chiedeva l'invio di alcuni Falascia a Gerusalemme per educarli all'autentico Ebraismo; da parte loro gli Ebrei di Gerusalemme si dicevano disposti ad inviare in Abissinia due esperti maestri.
Quei propositi non ebbero però un effettivo seguito, ma attestavano comunque la volontà di un'azione concreta per sostenere l'ebraismo dei Falascia.
Una successiva lettera del Falascia Abba Zaga, pubblicata dal "Journal Asiatique" nel 1867, ricordava la missione di Daniele. La lettera era stata inviata a Gerusalemme a Kaka Joseph, "le grand prêtre de tous les juifs” ed era scritta in ge’ez. Abba Zaga si chiedeva in tono emozionato:
- 41 -"Le temps est il venu que nous puissons rentrer auprès de Vous, dans notre ville, la ville sainte, dans Jerusalem? Nous sommes un peuple malheureux, car nous n’avons pas de chef, ni de prophète. Or si le temps est venu, envoyez-nous une lettre, car Vous êtes mieux placés que nous, dites-nous et indiquez-nous l’état des choses”.
Tra i Falascia - proseguiva la lettera - si era diffusa una grande agitazione: alcuni esortavano a recarsi a Gerusalemme, poiché era venuto il tempo di unirsi ai fratelli lontani: "Séparez-vous, disent ils, des Chrètiens et allez dans votre pays, à Jerusalem et réunissez-vous à vos frères et offrez des sacrifices à Dieu, le seigneur d’Israel, dans la ville sainte”.154
Risultò disastroso il tentativo dei Falascia di raggiungere Gerusalemme: molti morirono per le difficoltà e gli stenti durante il viaggio.
Non ci fu un intervento degli Ebrei di Gerusalemme dopo quello scambio di lettere con i Falascia, ma a seguito delle notizie pervenute in Europa veniva maturando nelle comunità israelitiche un crescente interesse per la sorte degli ebrei di Abissinia.
Proseguì quindi sui giornali ebraici europei la pubblicazione di notizie e proposte relative ai Falascia. Un rabbino di Gerusalemme, Hansdorf, intervenne sul "Corriere Israelitico" ("I Falascia", anno III, 1864-65, p. 228) per rivendicare l'Ebraismo a pieno titolo dei Falascia, in polemica con i dubbi espressi sull’ "Israelit" dal signor Schwarz, pure lui di Gerusalemme. Per il rabbino il carattere ebraico dei Falascia era attestato dalle loro consuetudini, simili a quelle degli altri Ebrei; Hansdorf si diceva inoltre pronto a partecipare ad un'eventuale spedizione in Abissinia per venire in aiuto dei Falascia.
Lo stesso "Corriere Israelitico" (Notizie varie "Il re Teodoro ed i missionari", anno III 1864-65, pp. 252-253) con un tono di scherno si rallegrava per la lezione impartita dal negus ai missionari protestanti; "la prigionia inflitta farà loro perdere la voglia di andare in quelle lontane regioni a tormentare gli Israeliti".
Proseguiva però con un tono caritatevole che era augurabile una pronta risposta della regina Vittoria alla lettera di Teodoro, essendo quella la condizione posta dal negus per liberare i missionari,
"... poiché il procedere di quei barbari è spicciativo e male potrebbe accadere ai poveri prigionieri".
Veniva ormai sempre più affermandosi l'idea di una missione ebraica per soccorrere i Falascia. Sempre sul "Corriere Israelitico" ("I Falascia", anno III, 1864-65, pp. 244-246) il rabbino tedesco di Eisenstadt, Hildesheimer, deprecata la condizione dei Falascia, isolati, ma decisi a mantenere l'antica fede, nonostante le continue pressioni dei missionari venuti con la pretesa di convertirli. Si chiedeva quindi il rabbino se non fosse il caso di intervenire per arginare l'attività di protestanti con "... una missione giudaica, pericolosa è vero, ma non a rischio di vita".
I Falascia avevano indubbie ascendenze ebraiche, come avevano dimostrato molti scrittori, fra cui Filosseno Luzzatto. secondo notizie che diceva di aver appreso dall’Abuna copto, Hildesheimer affermava che i Falascia erano in parte bianchi ed in parte neri, che parlavano una loro lingua diversa da quella degli altri Abissini, che avevano una Bibbia non in ebraico, ma nella loro lingua.
Risultano evidenti le inesattezze di quelle informazioni: non esistevano Falascia bianchi, né essi parlavano una lingua diversa da quella degli Agau e la loro Bibbia era in ge’ez, la lingua sacra dei Copti d’Abissinia.
- 42 -Il rabbino proponeva poi un piano di intervento, che asseriva esser sostenuto pure dall’ Alliance Israélite Universelle.
Il piano prevedeva la formazione di comitati locali, fra di loro coordinati, per raccogliere denaro, libri, oggetti di culto da inviare ai Falascia; l'invio in Abissinia di una missione formata da tre persone (una esperta di problemi religiosi, una di pratiche diplomatiche,una terza di supporto alle altre due); era pure previsto un appello ai governi d'Austria, di Prussia, di Francia e d'Inghilterra perché sostenessero le iniziative per i Falascia.
La proposta del rabbino Hildesheimer fu appoggiata dall’ “Israelit”, favorevole alla creazione di un Comitato patrocinatore internazionale formato da Sir Moses Montefiore, il famoso filantropo ebreo, e dal rabbino maggiore Adler per l'Inghilterra; dal rabbino maggiore Ulmann e dal presidente dell’Alliance Israélite Universelle, Adolphe Crèmieux per la Francia; dai rabbini Ettinger di Altona, Bamberger di Würzburg, Hirsh di Frankfurt, dallo stesso Hildesheimer di Eisenstadt, oltre che dal grande finanziere Guglielmo de Rotschild per la Germania. (“Corriere Israelitico", anno III 1864-65, p. 285. Notizie Varie "L'appello del dr. Hildesheimer e i Falhashas”).
Alla fine sembrava che dalle parole si volesse passare ai fatti e spettò alla più potente organizzazione ebraica, l’ Alliance Israélite Universelle, prendere l'iniziativa.
Per la missione in Abissinia presso i Falascia, ormai auspicata da più parti, la scelta cade su Joseph Halévy (Adrianopoli 1827 - Parigi 1917), orientalista famoso, che ebbe poi dal 1879 la cattedra di Etiopistica nella "Ecole de hautes études” di Parigi.
La spedizione ebbe inizio nel 1867, in un momento poco propizio poiché erano ancora in prigione i missionari e l'arrivo di uno straniero sarebbe stato visto con sospetto da Teodoro, quanto mai diffidente e disposto quindi a vedere una spia in Halévy, dato che erano già in corso i preparativi per la campagna militare britannica.
Sottolineava i rischi per Halévy una corrispondenza anonima dal Cairo, datata 22 aprile 1867 ed apparsa sugli “Archives Israélites” del 15 maggio 1867 (pp. 459-460). Il nome dello studioso era storpiato in Hallevi e si esprimevano seri dubbi su di un felice esito della sua missione. L'autore della corrispondenza affermava di aver conosciuto al Cairo alcune schiave Falascia e di aver appreso notizie sulla loro fede ebraica da una di esse, di notevole intelligenza, riscattata da un ebreo cairota. Un particolare fino ad allora inedito era la presenza ad Aden di artigiani Falascia, addetti alla fabbricazione di cappelli di paglia e protetti dagli inglesi per la loro abilità.
L'autore, reduce da una permanenza in India, segnalava la presenza di Falascia anche in quel lontano paese; erano poco felici le loro condizioni: molti vivevano in miseria, disprezzati dagli ebrei locali che consideravano un peccato sposare una donna Falascia. Erano infelici anche le condizioni di vita dei Falascia immigrati a Bagdad, ridotti ad essere i servi degli Ebrei del posto; conservavano però la loro particolare fede, frequentando una propria sinagoga, dove assistevano inerti alle funzioni avendo dimenticate le loro preghiere nella lingua madre.
Si dava poi un singolare consiglio: considerati i pericoli della situazione in Abissinia, meglio avrebbe fatto Halévy a cercare notizie sui Falascia in India e ad Aden, dove vivevano molti più Ebrei di quanto si potesse credere: da notare che a questo punto si parlava genericamente di Ebrei e non di Falascia.
- 43 -A conclusione della nota si poneva un problema destinato ad essere lungamente dibattuto; chiedendosi da quale tribù ebraica potessero discendere i Falascia, dal momento che i testi sacri non parlavano dell'esistenza di Ebrei di colore.
Di rincalzo ai timori espressi in questa corrispondenza sulla sorte di Halévy e della sua missione, lo stesso numero degli“Archives Israélites” (pp. 460-461) pubblicava una lettera in data 24 aprile 1867, a firma del dottor Castelbolognesi (di probabile origine italiana, a giudicare dal nome), che diceva di aver appreso dal numero del 1° aprile 1867 della stessa pubblicazione, la decisione dell’Alliance Israélite Universelle di affidare ad Halévy quella rischiosa missione, al tempo stesso religiosa e scientifica, da cui si attendevano utili risultati, tanto più che in precedenza si avevano avute notizie di seconda mano non potendosi per l'ignoranza della loro lingua entrare in diretto contatto con i Falascia anche a causa della loro diffidenza. Halévy non sarebbe stato invece condizionato da queste difficoltà, essendo un esperto conoscitore delle lingue abissine e potendo riscuotere la fiducia dei Falascia in quanto ebreo egli stesso; sarebbe quindi stato possibile un contatto dei Falascia con gli Ebrei d'Europa.
Castelbolognesi asseriva di aver conosciuto dei Falascia a Galafat, località al confine tra Sudan ed Abissinia, venendo accolto con simpatia perché ebreo. Essi vivevano sugli altipiani di Gondar e del Godjan, in condizioni migliori dei loro confratelli immigrati in India e ad Aden; vivevano facendo i muratori, i vasai ed i conciatori di pelle; inoltre esportavano piccole quantità di cera e di caffè.
Era sproporzionata e poco credibile la stima del numero dei Falascia fatta da Castelbolognesi; la sua valutazione era pari al 20% circa della popolazione abissina. A conclusione della lettera, era riaffermata la inopportunità del momento per la missione di Halévy, destinata perciò a dare scarsi risultati.
Alla fine del 1867 Halévy comunicò le prime notizie sulla sua missione, inviando una lettera da Massaua all’ Alliance Israélite Universelle in data 7 ottobre (pubblicata sugli“Archives Israélites” il 1° dicembre 1867, pp. 1084-1086).
Lo studioso informava di aver avuto al suo arrivo a Massaua poche notizie sui Falascia dal console francese Munzinger e dai missionari cattolici che gli avevano riferito di aver affidato nel 1860 la costruzione della loro Chiesa ai muratori falascia molto più esperti di quelli cristiani e musulmani; erano lodate la probità e la religiosità dei Falascia; essi parlavano una lingua agau mentre era l'amarico la lingua degli Abissini copti. Da questo particolare Halévy arguiva l'antichità del loro insediamento in Etiopia, di cui l’agau era stata la prima lingua usata. A Massaua lo studioso aveva conosciuto dei giovani Falascia convertiti al Protestantesimo. Uno di essi egli aveva però dato il testo di un loro inno di lode all'Eterno per aver liberato gli Ebrei dal giogo del faraone, facendo annegare nel Mar Rosso l'esercito egiziano.
Qualche mese dopo, il 15 febbraio 1868, gli " Archives” pubblicarono una seconda lettera di Halévy, anche questa diretta all’ “Alliance Israélite Universelle” (pp. 173-176).
- 44 -Stanco di attendere sulla costa la partenza della spedizione militare britannica, i cui preparativi andavano per le lunghe, Halévy coraggiosamente era partito verso l'interno, affrontando i rischi e le difficoltà di un viaggio attraverso un territorio dilaniato dalle guerre fra tribù rivali, i Baria, i Commera o Chengalla; sperava di trovare comunque una situazione più favorevole nel Tagazzè, regione posta al di là del fiume Setit, dove vivevano molti Falascia, pur essi perseguitati da Teodoro senza risparmiare neanche i loro sacerdoti, sebbene il negus avesse fatto ricorso alla loro perizia di muratori per costruire le fortificazioni di Debra Tabor.
Halévy chiedeva all’ “Alliance Israélite Universelle” di fare ricorso alla carità dei correligionari per soccorrere i Falascia, rassegnati a sopportare le persecuzioni di Teodoro, ritenute un presagio dell'imminente arrivo del Messia. Il loro più grande desiderio era il ritorno in Palestina, dove la Società per la colonizzazione della Terra Santa avrebbe potuto accoglierli a migliaia, utilizzando le loro capacità artigianali. Halévy contava di poter compiere nel viaggio di ritorno una deviazione attraverso l’Hamasien e lo Scirè, dove vivevano molti Falascia.
Al suo ritorno in Francia, Halévy comunicò sollecitamente i risultati della sua missione con un rapporto al Comitato centrale dell’“Alliance Israélite Universelle” tenuto il 30 luglio 1868.155
L'inizio del rapporto era di una biblica solennità:"L’antique terre de l’Ethiopie vous révèle enfin le secret de cette population dont on ne connaissait jusqu’ici guère que le nom, de ces Falachas, qui, fidéles aux sublimes véritès consignées dans le Code du Sinai, ont traversé les phases plus diverses de la vie sociale, et qui, malgrè leurs désastres, n’ont rien perdu de cette vigueur par la quelle les peuples deviennent capables de s’élever à la hauteur de l’esprit nouveau qui anime notre société moderne”. Erano perciò elogiati i Falascia, “peuple actif, intelligent et plein d’avenir”.156
I Falascia non avevano inviato un loro messaggio scritto di saluto e di ringraziamento avendo preferito affidarlo alla viva voce del giovane venuto con Halévy in Europa per esservi istruito, poiché in quel momento il latore di una lettera sarebbe stato sospettato in Etiopia di essere una spia ed un traditore. Per sfuggire ad ogni controllo e sospetto Halévy aveva avvicinato i Falascia con il pretesto di voler comprare un coltello da essi, abili fabbri. A causa dell’approssimarsi della guerra condotta dagli inglesi contro Teodoro, non aveva potuto avere altri contatti, ma era comunque in grado di dare alcune notizie.
I Falascia affermavano con orgoglio la loro discendenza ebraica, di cui Halévy si diceva certo, nonostante le obiezioni al riguardo: "La couleur toute africaine de leur teint semble protester contro une télle preténtion, mais la finesse merveilleuse de leurs trait set la vive intelligence qui brille sur ces physionomies impose silence à toutes les doutes et à toutes les objection”.157
Lo stesso nome Falascia secondo lo studioso dimostrava la loro diversità rispetto agli altri Abissini, poiché esso significava "emigrato". Esisteva comunque un vincolo linguistico con la restante popolazione, poiché i Falascia non parlavano l'ebraico ma un idioma agau, in cui venivano tradotte le preghiere dal ge’ez, la lingua sacra dei copti d’Abissinia. I nomi delle persone spesso derivavano dalla Bibbia, oltre che dall'amarico, dal ge’ez o dall’agau; non erano mai di origine caldea, araba o greca.
- 45 -I Falascia vestivano come gli altri Abissini, seguivano una dieta in prevalenza vegetariana e la poca carne da essi mangiata non era mai cruda. Costruivano le loro case vicino ad un corso d'acqua; curavano molto l'igiene ed isolavano quanti erano ritenuti impuri, come i lebbrosi e le donne nel periodo mestruale.
Ai loro luoghi di culto, detti "mesquid”, oltre ai sacerdoti potevano accedere anche i fedeli, prima tenuti all'esterno dell'edificio; praticavano sacrifici di carattere commemorativo. I sacerdoti svolgevano un importante compito sociale, poiché era ad essi, con l'esclusione degli eremiti, dediti soltanto alla meditazione, che veniva affidata l'educazione dei giovani. Erano ignote alcune delle feste ebraiche, come quella di Purim e di Hannuca; e per contro ne celebravano altre desunte dai Libri apocrifi della Chiesa copta abissina; erano superstiziosi, meno però dei copti e dei musulmani.
Non erano tenute in uno stato di soggezione le donne; esse aiutavano i mariti nei loro lavori; erano improntati a moralità i loro costumi; pur non essendo vietata dalla legge, la poligamia era poco praticata ed era inesistente il concubinaggio e raro il divorzio. Erano bravi agricoltori ed artigiani, non esercitavano il commercio, ritenuto causa di inganni, tanto meno quello degli schiavi.
Per il loro coraggio molti erano stati arruolati nell'esercito. Tuttavia erano vittime di angherie, specialmente nelle regioni settentrionali, dove vivevano in piccoli gruppi. I loro anziani amministravano la giustizia ed era evitato il ricorso alle autorità abissine.
Era completa l'unità religiosa, poiché non esistevano scismi o sette; sul piano politico ogni comunità era indipendente ma si coalizzavano se minacciate: questo vincolo di solidarietà aveva consentito loro di resistere alle violenze e di limitare a pochi casi le conversioni operate dai missionari.
I Falascia ricordavano le loro origini mescolando leggende e dati storici; affermavano la loro discendenza dalla regina di Saba chiamata Maqueda. Vivevano in attesa di un Messia e di un futuro re detto "figlio del Leone", con una chiara allusione alla tribù di Giuda, il cui simbolo era il leone, altro nome dato al re Teodoro.
I Falascia erano desiderosi di istruzione ed essendo molto più attivi ed intraprendenti degli altri Abissini si dimostravano capaci di un progresso civile.
Secondo un calcolo statistico di Halévy i Falascia dovevano essere 50 o 60.000, divisi in 160 località abitate da 11.000 famiglie. Calcolando però anche i Falascia disseminati nei villaggi amara si arrivava ad un totale di 30-40.000 famiglie, pari a 150-200.000 persone, cioè il 10% della popolazione totale.
La sicurezza dei Falascia era assicurata dalle loro capacità artigianali, per cui erano tollerati essendo ricercata la loro esperienza professionale; ispiravano inoltre un certo timore per la loro supposta stregoneria. Teodoro aveva cercato di farli convertire al Cristianesimo con minacce rimaste realizzate, poiché ammirava il loro coraggio dimostrato nel restare legati alla fede ebraica.
Per sfuggire a quelle minacce ed agli insistenti tentativi di conversione operati dai missionari europei, i Falascia avevano cercato rifugio in località remote e poco accessibili.
- 46 -Halévy esaltava il coraggio dei Falascia e criticava i metodi dei missionari, scrivendo: "L’Europe ignore jusqu’à ce jour les torrents de larmes et de sang que les apôtres du salut ont fait couler dans ces contrées lointaines”;158 ricordava poi la loro marcia verso Gerusalemme, la meta tanto agognata, durata tre anni e conclusasi disastrosamente con la morte di tanti, a causa degli stenti patiti. Essi vivevano poveramente; in mancanza di animali da soma, toccava ad uomini e donne tirare l'aratro; i soldati non meno dei briganti li attaccavano per derubarli quando si spingevano fin nel Sudan per vendere i loro prodotti.
A conclusione del suo rapporto Halévy rivolgeva un appello all’Alliance perché soccorresse i Falascia in nome della fede comune: "Ils sont juifs pour leur foi ardente, pour l’étude de la loi et des prophétes. Si leur teint se distingue de nous qui sommes nés sous un ciel plus clement, leurs beaux sentiments et leurs vertus doivent nous rendre fiers de notre parentè avec eux”.
Essi non conoscevano la lingua ebraica, ma era indubbio il loro Ebraismo. Avevano un lodevole desiderio di istruirsi: un Falascia "...donne sa dernière vache pour recouvrer son livre..”, sosteneva con enfasi Halévy, affermando che essi avevano appreso con gioia l'esistenza dell’Alliance, da cui non si attendevano oro o argento, ma un bene più prezioso l'istruzione, dimostrandosi tanto fiduciosi da affidargli il giovane con lui venuto a Parigi per essere istruito nell’Ebraismo.159
In questo rapporto Halévy indulgeva ad una rappresentazione enfaticamente idealizzata dei Falascia; vi fece seguire un'altra relazione priva dei toni in precedenza usati per accattivare la simpatia dell’Alliance Israélite Universelle per i Falascia. Questa relazione era ancora diretta all'Alliance ed andò perduta, distrutta forse da un incendio scoppiato durante i disordini verificatisi nel periodo della Comune di Parigi, come ipotizzò successivamente lo stesso autore;160 ne siamo comunque venuti in possesso perché Halévy l'aveva fatta pubblicare sulla rivista della Società francese di geografia.161
Sulle origini dell'Ebraismo in Etiopia e sulla sua persistenza presso i Falascia, Halévy faceva sua l'ipotesi della loro discendenza dagli Himiariti dello Yemen, sconfitti dal re abissino Kaleb. I prigionieri fatti dagli Abissini vincitori erano stati portati in Etiopia, dove elementi della locale popolazione agau si erano convertiti alla fede ebraica e mescolati a quei prigionieri; da quella fusione erano derivati i Falascia, la cui affinità etnica con gli Agau era fuor di dubbio.
Erano poi messi in risalto le particolarità fisiche dei Falascia, a prima vista del tutto simili agli altri Abissini, ma in realtà dotati di proprie caratteristiche per cui si differenziavano: "Au premier abord, rien ne distingue les Falachas des Abyssiniens chrétiens. Ils s’habillent comme eux, leurs prêtres portent des turbans comme les prêtres chrétiens, ils batissent leurs maisons de la même manière, ils emploient les mêmes utensils et parlent l’amharique avec autant de pureté et de facilité qu’eux; mais un examen attentif nous persuade qu’ils différent beaucoup entre eux. Les Falachas sont, en général, plus corpulents et plus foncés que les Amharas; leur cheveux sont plus courts, et souvent plus crépus; leurs yeux sont moins dilatés, leur visage moins long”.162
Notava Halévy una certa somiglianza dei Falascia con i Bogo ed in particolare con i Kemanti, pure essi di origine agau, la cui religione consisteva in un deismo intriso di elementi al tempo stesso pagani e giudaizzanti, e con i quali presentavano affinità linguistiche oltre che fisiche.
- 47 -La situazione linguistica dei Falascia era caratterizzata da una diglossia, in quanto essi all'interno del loro gruppo usavano un proprio idioma del gruppo agau, ma nei loro contatti con gli altri facevano ricorso all'amarico; situazione così definita da Halévy:"...les Falachas parlent en famille un dialect de l’idiome agau: il leur est si particulier, qu’on le dénote par le nom de falachina ou kaïlina; le langage usité en Kuara a une prononciation particulière”.163
La versione ufficiale della Bibbia era in ge’ez, ma per gli usi familiari veniva tradotta nel dialetto agau proprio dei Falascia, adoperato anche per le preghiere; pertanto - supponeva Halévy - "... il est à présumer que cette langue, si elle n’est pas leur langue primitive, leur est plus anciennement connue que l’amharique.164
Testo base della religione dei Falascia era il Pentateuco, adattato alle esigenze locali; pertanto i Falascia "...forment une secte particuliére de judaisme...", da non confondersi con i Rabbiniti, i Caraiti o Samaritani...".165
I Falascia erano monogami, pur non essendo vietata per legge la poligamia e si sposavano fra di loro; erano rari i divorzi, decisi con accordi privati, senza pratiche ufficiali come avveniva invece per gli altri Ebrei; lo sposo non era tenuto a fare regali alla famiglia della sua consorte, al momento del matrimonio.
L'escissione femminile, non raccomandata dal Pentateuco, era probabilmente un'usanza abissina ereditata dal periodo precedente la conversione.
I nomi imposti ai neonati erano di preferenza quelli biblici; seguivano quelli derivati dal ge'ez e dall'amarico; non esistevano nomi di angeli o di santi, praticando i Falascia solo il culto di Dio; l'assenza di nomi di origine caldea, greca o araba attestava l'isolamento storico dei Falascia.
Erano rigide le regole sulla purezza; in ogni villaggio vi erano luoghi di culto, detti "mesguid”; le preghiere, tra le più belle della tradizione ebraica, erano recitate in ge'ez e poi ripetute nel dialetto proprio dei Falascia; erano piene di citazioni bibliche, ricordavano le dolorose prove sopportate dal popolo ebraico, ma erano illuminate dalla speranza di un futuro migliore. Gerusalemme era considerato il luogo più sacro e si anelava a raggiungerlo; si nutriva fede nell'arrivo di un Messia, la cui venuta avrebbe fatto trionfare la giustizia.
Era ignota ai Falascia la lingua ebraica e, oltre al Pentateuco, erano diffusi testi sacri apocrifi opera di cristiani giudaizzanti; Dio era però conosciuto con tutti i nomi attribuitigli dalla tradizione ebraica.
I Falascia curavano scrupolosamente l'igiene personale, si lavavano sempre le mani prima di mangiare e venivano risparmiati da molte malattie comuni in Abissinia.
I sacrifici offerti a Dio erano fatti anche come suffragi per i defunti.
Tra la religione copta abissina e l'Ebraismo dei Falascia intercorrevano numerosi scambi; i Falascia recitavano pure preghiere cristiane, omettendo nomi e particolari contrastanti con la loro fede.
Una conseguenza delle persecuzioni subite dai Falascia era stata la loro dispersione nel territorio, con una particolare cura nel cercare rifugio in località impervie e quindi poco accessibili.
- 48 -Nonostante l'impegno messo nel compimento della sua missione, Halévy trovò poco credito presso l’Alliance Israélite Universelle; si arrivò a dubitare che lo studioso si fosse veramente recato in Abissinia e venne pure insinuato che Daniele, il giovane venuto con lui a Parigi, non fosse un Falascia, ma uno schiavo comperato in Sudan; solo la testimonianza del console francese Munziger e di altri europei incontrati in Abissinia ristabilirono la verità Ma un'ombra di dubbio continuò a serpeggiare intorno allo studioso e si chiedeva allo stesso Halévy, con una nota pubblicata nel 1872 sul bollettino dell'Alliance, come ottenere notizie sicure sui Falascia attraverso i membri della spedizione contro l’Abissinia organizzata dal viceré d'Egitto.
A tale richiesta Halévy aveva obiettato facendo presente l'inopportunità di cercare attraverso gli invasori un contatto con i Falascia, ferventi patrioti che non si sarebbero prestati a quell'operazione.166
Ancora molti anni dopo, nel 1906, Halévy ricordava con amarezza la diffidenza nei suoi confronti e l'attribuiva all'ostilità di un autorevole esponente dell'Alliance, Charles Netter. Nella nota ad una lettera dei Falascia tradotta da Faitlovitch e pubblicata sulla "Revue Sémitique”, lo studioso asseriva di aver dovuto affrontare, oltre alle difficoltà dovute allo stato di guerra esistente in Abissinia, anche "... une contradiction insurmontable de la part d’un des membres les plus influents de l’Alliance, qui résidait souvent en Orient, M. Charles Netter”. Non sapeva capacitarsi, affermava Halévy, “...par quelle aberration momentanée, M. Netter, homme excellent et de grand mérite d’ailleurs…” gli avesse rivolto accuse tanto gravi.167
Al di là dell'amarezza personale causata ad Halévy, quella diffidenza comportò soprattutto il mancato impegno dell’Alliance a favore dei Falascia.
Impegno venuto meno soprattutto a causa del perbenismo proprio degli ambienti dell'Ebraismo europeo, cui riusciva ostico ritenere che una popolazione negra africana, giudicata rozza e primitiva, fosse formata da confratelli praticanti una fede comune ai colti ed evoluti ebrei occidentali: negando l'appartenenza dei Falascia alla fede ed alla tradizione ebraica ci si poteva ritenere sciolti dall'obbligo di venire in loro aiuto.
Dubbi e preconcetti duri a morire, tanto da ritardare, a distanza di un secolo, il riconoscimento dell'autenticità ebraica dei Falascia da parte dello Stato di Israele.
Chiarire quali fossero le origini dei Falascia era quindi di capitale importanza per definire la loro reale natura e su tale tema si era difatti concentrata e continuò a manifestarsi l'attenzione degli studiosi, divisi tra varie ipotesi.
Fra gli studiosi italiani Ignazio Guidi riteneva alcuni particolari culti dei Falascia collegati al "Libro dei Giubilei", per cui la loro religione differiva dall'Ebraismo proprio dell'Arabia meridionale; giudicava quindi più attendibile la loro provenienza dalla comunità ebraica di Elefantina, in Egitto, piuttosto che dallo Yemen.
Per sfuggire alle persecuzioni degli Egiziani, gruppi di Ebrei si sarebbero rifugiati sull'altopiano abissino, popolato da una popolazione primitiva, dedita ad un rozzo culto pagano, gli Agau, presto convertito ad un Ebraismo "... ancora semplice e non complicato da minuti precetti".168
A queste conclusioni lo studioso arrivava dopo lunghe ricerche, cui si è fatto più volte riferimento, condotte a partire dal 1887 con l'articolo "I popoli e le lingue d’Abissinia" sulla Nuova Antologia.
- 49 -Ma dissentì da tale posizione il più illustre dei suoi allievi, Carlo Conti Rossini, autore a sua volta di numerose pubblicazioni sui Falascia, distribuite lungo l'arco dell'intera sua vita, e che ebbe modo di maturare, oltre a quella di studioso, un’esperienza sul campo acquistata nella sua qualità di alto funzionario dell'amministrazione coloniale italiana.
Conti Rossini così si esprimeva nell'articolo "Appunti di storia e letteratura Falascia" sulla Rivista di Studi Orientali nel 1920: "... troppo lungo, troppo intimo, troppo fecondo di conseguenze fu il contatto fra Ebrei di Abissinia e Abissini cristiani; in troppi casi permarrà il dubbio sulla provenienza, sul carattere primo d'un determinato fatto, d'un determinato atteggiamento del pensiero".
Era comunque da ritenersi indubbia l'origine etnica agau dei Falascia (p. 598).
L'autore venne precisando la sua posizione sull'origine dei Falascia con una lunga opera di ricerca, partendo dalle ipotesi sulla provenienza egiziana, attestata dai racconti degli stessi Falascia oltre che dalle affermazioni di alcuni studiosi, primo fra tutti Ignazio Guidi. Conti Rossini riportava l'emigrazione dei Falascia ai tempi di Geremia o forse in epoca ancora più remota; citava la scoperta dei papiri aramaici di Elefantina, attestanti una presenza ebraica ai tempi della dinastia neo-babilonese (625-538 a.C).
Questa teoria della provenienza egiziana dei Falascia era ancora ricordata nella recensione all'opera del Rathiens “Die juden in Abessinien – Hamburg 1921"169, confermando trattarsi "d'una popolazione puramente cuscitica, di razza agau, convertita al giudaismo"; si escludeva che fossero "... discendenti di colonie di razza ebrea” ed era giudicata probabile la diffusione dell'ebraismo in Abissinia ad opera di mercanti ebrei venuti dall’Arabia,in particolare dallo Yemen e dallo Higiaz, dove già da secoli esistevano comunità ebraiche.
Ancora anni dopo, nel 1929,170 Conti Rossini riteneva incerta l'origine della diffusione dell'ebraismo in Etiopia, ricordando l'esistenza dell'ipotesi della provenienza dall’ Arabia ad opera di mercanti ebrei, senza più far cenno all'altra teoria sulla provenienza egiziana. Entrambe le possibilità erano invece ricordate in una conferenza tenuta nel 1935 al Congresso di Studi Ebraici: Conti Rossini non prendeva una posizione a favore di una delle due, considerando certo un solo dato storico, quello che stabiliva essersi diffusa la religione ebraica in Etiopia prima del Cristianesimo. 171
Per dirla con l’Aešcoly, "...sans traditions ferme set sans point de départ sûr pour leur histoire, toutes les opinions émises à leur sujet ne sont que des hypothèses plus ou moins fondées”. In definitiva l’Aešcoly propendeva a ritenere esserci stata più immigrazioni di Ebrei in Etiopia: la prima sarebbe avvenuta dall'Egitto, lasciandone indefinita la data, da riportarsi al tempo di Mosé, ovvero successivamente dalla colonia militare ebraica di Elefantina, o dopo la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme, sotto la guida di Geremia; ci sarebbe stata successivamente l'immigrazione dalla penisola arabica.
L'occasione per precisare le sue idee definitive sulla provenienza dei Falascia fu data al Conti Rossini dalla relazione di Lindo Cipriani sulle popolazioni insediate intorno al lago Tana, da lui recensita nella "Rassegna sociale dell'Africa italiana" del novembre 1942.172
- 50 -Conti Rossini metteva in rilievo la composizione mista di quelle popolazioni, essendosi mescolati agli originari abitanti, gli Agau, elementi affini come i Tigrini (pur essi di origine agau, ma semitizzati), o appartenenti ad un'altra etnia, come gli Scioani, aventi un substrato Sidama. Negava decisamente che i Falascia fossero venuti dall'Egitto, sottolineando la grande distanza intercorrente fra Elefantina e l'Etiopia; inoltre neanche ai tempi delle più importanti dinastie faraoniche, la XVII e la XVIII, c'erano stati rapporti continui ed importanti fra l'Egitto e l'Etiopia, ma soltanto contatti sporadici mantenuti da carovane formate in maggioranza da nubiani: forse soltanto i capi di quelle carovane erano stati egiziani.
Si poteva quindi affermare - era la conclusione di Conti Rossini - che l'ebraismo si era diffuso in Etiopia dallo Yemen, dove si erano formate importanti comunità ebraiche dopo la caduta di Gerusalemme; dallo Yemen arrivarono in Etiopia mercanti ebrei, con un seguito di amici, clienti e servi. Furono convertiti gruppi di Agau, che finirono per assorbire gli Ebrei il cui scarso numero non si accrebbe perché non ne giunsero successivamente altri.
Dopo questa conclusione di Conti Rossini altri studiosi aderirono alla teoria della provenienza sud-arabica dell'Ebraismo in Etiopia.
Wolf Leslau ha ricordato la leggenda di Salomone, della regina di Saba e del loro figlio Menelik; ma ha negato decisamente l'arrivo di Ebrei dall'Egitto in Etiopia, oltre che la discendenza dei Falascia da coloni ebrei; erano Agau, convertiti all'ebraismo dagli Ebrei venuti dalla Arabia, regione che aveva sempre avuto frequenti ed importanti contatti con l'Etiopia.173
L'arrivo dall'Egitto è stato pure negato da Daniel Friedmann; l'autore ha osservato infatti come le affinità esistenti tra la religione dei Falascia e quella degli Ebrei d'Egitto fossero meno strette di quanto aveva affermato Filosseno Luzzatto nel suo "Mémoire” pubblicato sugli “Archives Israélites”: gli Ebrei di Elefantina infatti non erano stati rigidamente monoteisti ed osservavano il sabato con un rigore attenuato rispetto a quello dei Falascia.174
Dell'origine delle popolazioni del Corno d'Africa in generale e di quella dei Falascia in particolare si sono occupati gli antropologi, oltre che gli storici ed i linguisti, giungendo già negli ultimi anni del secolo XIX ad affermare la provenienza dalla Arabia del sud. Valga come significativa sintesi della soluzione del problema quest'affermazione di Eduard Glaser: “Alles für die Richtung dieser Völkerwanderungen von Arabia nach Afrika spricht, und nichts für die ungekehrte Richtung”.175
Lo stesso Glaser in una nota sul "Bollettino della Società geografica italiana" aveva già visto l'origine degli Abissini nell’Arabia meridionale, dove era attestata la presenza di un popolo detto "Habesh” o “Habashia”; il nome di un loro re, Gadarat o Godarot, seppur deformato figurava tra i re abissini, aggiungeva lo studioso.
La migrazione degli Habascia in Etiopia era pure confermata dal "Periplus Maris Erythraei”, testo risalente al I secolo d.C. Glaser infine ricordava le guerre degli Abissini contro i Sabei in Arabia, dove era esistito un regno giudaico fino al 525 d.C., anno in cui il re abissino Kaleb aveva sconfitto il re ebreo degli Himiariti, Dhu Nuwâs, privato del regno e della vita.176
Le ricerche del Glaser erano state precedute da quelle di Robert Hartmann, autore di uno studio complessivo sulla “negritudine”: “Die nigritie – Eine Antropologisch –Ethnologische
- 51 -Monographie” (Berlin 1876), cui seguì "Les peuples de l’Afrique” (Paris, 1880).
Hartmann si era soffermato sulle particolarità etniche di una popolazione africana, i Begia, sui loro legami con i popoli della Arabia meridionale, negando però una loro totale identificazione; aveva difatti respinto l'opinione di quanti consideravano i Begia “…la fidèle image des habitants de la presqu’île arabique avec tous les traits de leur physionomie..”.177
Secondo lo studioso tedesco erano invece spiccate le somiglianze tra i Begia ed i montanari dell’Abissinia, Falascia compresi: “Les montagnards de l’Abyssinie ressemblent beaucoup aux Bedjas; certaines tribuj, telles que les Agaus, les Kemiantes, les Falachas, les Scohos, les Bogos, sont parents des Bedjas et paraissent être des peuplades fort anciennes. D’autres ne se sont formées que dans le cours des siècles, des indigènes mélangés avec des Bedjas, des Gallas, des Afers et des émigrés arabes…”. Da questi emigrati erano derivati l'idioma ed analogie con il tipo semitico e siro-arabico: "On trouve plus fréquemment chez les Abyssiniens orientaux que chez les Bedjas arabes des figures du type juif et arabe”.178
Rapporti e fusioni di popolazioni abissine con quelle dell’Arabia del sud erano ulteriormente descritte così da Hartmann: “Les Abyssiniens ressemblent beaucoup aux Bedjas. Ceci est vrai des Agaus ainsi que de leurs ramifications, les Mensas, les Bogos, les Falachas, les Koemants etc. Plusieures tribus abyssiniennes, telles que les Amharas, les Shoaenes, les habitants de Lasta, sont fortement mélanges de Gallas, et elles ont les caractères de cette peuplade…Les habitants du Semien et du Tigrie,au contraire, trahissent des mélanges frèquents avec les Syro-Arabes. On remarque parmi eux des physionomies bien dessinées, rappellant le type syrien et juif. On attribute les mélanges aux expeditions des Abyssiniens en Arabie, au V et au VI siècle après Jesus Christ, et aux relations commercials des Arabes avec les habitants de la côte abyssinienne”. 179
Per Hartmann quindi erano indubbi i legami etnici tra l'Abissinia e l’Arabia meridionale.
Ma considerava erroneo parlare "tout court” di un carattere schiettamente ebraico di una parte almeno delle popolazioni dell’Abissinia. Era ricordata così la tradizione salomonica della monarchia etiopica ed i successivi sviluppi storici: "La dynastie de Salomon, qui se perd dans la nuit mythologique, a fait place à une autre qui descendait des Falachas, celle des Agaus, proches parents des Bedjas. On a coutume d’appeller cette dynastie juive, ce qui nous semble une absurdité ethnologique”.180
Bando quindi ad identificazioni frettolose, frutto secondo Hartmann della tendenza a sopravvalutare l'apporto dell'elemento caucasico nella popolazione africana, conseguenza del giudizio dei linguisti e degli etnologi sulla pretesa superiorità civile di quell'elemento: "Comme on prétend que les Somalis, les Gallas, les Abyssiniens, les Egyptiens et les Berbères sont des “Caucasiens,” des “Sémites” ou des “Hamites”, qu’on spécule même sur l’origine sémitique des Falachas et des Fulbés, on veut faire entrer de force dans le lit de Procuste ces opinions dominantes toute la science linguistique de l’Afrique. On ne songe qu’à établir partout des contrastes entre les nègres africains et les Caucasiens africains, et, soit par ignorance, soit par paresse ou par chicanes, on ne prend pas la peine de rechercher les liens qui les unissent”. Per contro, alcuni eminenti linguisti, come Steinthal, negavano ogni rapporto fra gli idiomi semiti e quelli africani.181
- 52 -Un etnografo britannico, sir H.H. Johnston, ancora nel 1913 riconosceva l'esistenza di questo pregiudizio razziale della superiorità civile dei "Caucasici", cioè dei "Bianchi": "...one seems to see in the white man, the Caucasian, the primum mobile, the chief causer and inspirer of racial migrations, disturbances, remoulding of people , uprise of religious beliefs, creation of new languages, new arts, especially of agriculture and the domestication of animals.
The white man has been the cause of all good progress as well of all the annectant misery and strife which hang on the flanks of upward evolution. And so potent has been the Caucasian in the history of Africa, as of Asia and Oceania – perhaps even of the prehistoric North-America – that is has needed but the slightest admisture of his blood with that of the Negro to effect these far reaching results”.182
Lo studioso non negava comunque i contatti e l'insediamento in Etiopia di popolazioni semitiche dell’Arabia meridionale, avvenuti in varie epoche: "From various indications one is entitled to believe that the East African coast was brought by Arab-sea trade into touch with India, and even China and the Malaysia, as much as 2000 years ago, if not earlier”.183 E proseguiva così: “On the eastern side of Africa, Jews and Idumoeans had evidently settled in Abyssinia several centuries before the Christian era, and many of the Jews of Arabia migrated to Abyssinia after the establishment of Islam”.184
Collegandosi a queste ricerche di studiosi stranieri l’italiano Giuffrida Ruggeri a sua volta confermava i rapporti delle popolazioni semitiche, dette Leucodermi per il loro colorito più chiaro, con le antiche popolazioni etiopiche: nelle regioni asiatiche - scriveva questo studioso - i Proto-Etiopici avevano "... potuto scambiare influenze linguistiche, somatiche e culturali coi Semito-Camitici Leucodermi”.185
Giuffrida-Ruggeri si occupava poi in particolare dei Falascia, detti "Ebrei d’Abissinia", sparsi sul territorio compreso tra Adua ed il lago Tana, la cui religione ebraica era mista a pratiche cristiane. Essi parlavano veri idiomi agau o nord cuscitici; il loro tipo antropologico differiva poco o nulla da quello degli altri Abissini; la loro prima origine non era da presumersi asiatica, ma erano piuttosto discendenti degli antichi Abissini convertiti all'ebraismo prima dell'avvento del Cristianesimo; ma probabilmente vi era stato in seguito un'altra emigrazione di Ebrei dall’Arabia per unirsi a quei compagni di fede. 186
Giuffrida-Ruggeri si occupò ancora della civiltà proto-etiopica, ritenendo errato definirla "proto-caucasica"; a suo giudizio poteva trovarsi una residua testimonianza di quella fase storica nei Boria-Cunama, come avevano sostenuto Keane e Conti Rossini. Quella popolazione era di colorito scuro e la loro fisionomia, pur non presentando lineamenti mediterranei o caucasici, non era comunque negroide. Seguivano una religione monoteista ed il loro Dio era chiamato Annã, praticavano la circoncisione e sacrificavano gli animali tenendone il capo rivolto verso Oriente.
Erano quelle pratiche seguite pure dei Falascia, aggiungeva lo studioso e ribadiva le precedenti affermazioni sulla loro ubicazione compresa tra Adua ed il lago Tana, sul linguaggio agau da essi parlato, sulla natura ebraica della loro religione con alcune contaminazioni cristiane e, soprattutto,
- 53 -sulla loro diversità rispetto al ceppo semitico. I Falascia esercitavano attività artigianali essendo vasai e fabbri. Erano mestieri disprezzati dagli altri Abissini, "... mentre i Falascia - osservava Giuffrida Ruggeri - essendo già ridotti alla condizione di iloti, non avevano più nulla da perdere".187
Ma protagonista delle ricerche sui Falascia nell'ultima parte del secolo XIX ed all'inizio del XX restava sempre Halévy, che continuò ad occuparsene per tutta la sua vita.188
Tardarono - è vero - a realizzarsi le concrete iniziative a favore dei Falascia,che si era sperato potessero seguire alla sua missione in Etiopia nel 1867, ma si era comunque ravvivato l'interesse per quella popolazione, in particolare in Italia,dove restava vivo il ricordo di Filosseno Luzzatto e della sua opera.
Già agli inizi della spedizione di Halévy, l’ "Educatore Israelita"189 pubblicava la lettera inviata dallo studioso alla Alliance Israélie Universelle nell'ottobre 1867 da Massaua.
Negli anni successivi i giornali ebraici italiani dedicarono ai Falascia altri articoli. Il "Corriere Israelitico" ancora nel 1877 ricordava l'opera di Halévy, attribuendogli il merito di averne chiarito le origini. Era citato il suo volume "Preghiere dei Falascia" pubblicato quello stesso anno a Parigi e si tornava sulle particolarità della fede ebraica dei Falascia, poco note fino ad allora per la diffidenza suscitata dagli stranieri,con con i quali quindi essi difficilmente si confidavano; si erano invece aperti con Halévy in quanto loro correligionario e capace di intendersi direttamente grazie alle sue conoscenze linguistiche.
A titolo di curiosità era ricordato il capitolo XII, v. 1, del "Libro dei Numeri" che asseriva esserci stato il matrimonio di Mosé con una donna etiopica. Ma secondo il "Corriere Israelitico" i Falascia non traevano origine da quel matrimonio; essi erano discendenti dei servi negri al servizio degli Ebrei venuti in Etiopia per sfuggire ai musulmani divenuti padroni dell’Arabia con Maometto. Lo stesso evento storico secondo il giornale poteva spiegare pure la presenza ebraica nell'India.190
Anche il "Vessillo Israelitico" citava la pubblicazione delle preghiere Falascia curata da Halévy, facendone la recensione, in cui si affermava essere stata così confermato l'Ebraismo dei Falascia, già sostenuto da Filosseno Luzzatto. Curiosamente il nome di Halévy era deformato in "Levy”, e si ricordava la missione da lui compiuta in Abissinia per conto dell’ Alliance Israélite Universelle "or son due lustri". L'estensore della nota si esprimeva così a proposito di quella recente pubblicazione di Halévy: "Questo libro è ora una parte dei risultmentii di quel viaggio e per questo ci sono meglio svelate le attinenze direm così dogmatiche che ai Falascia ci legano, come l'unità di Dio, la rivelazione, i sacrifici secondo la legge Mosaica, le aspirazioni messianiche".191
Ma non tutti gli Ebrei italiani concordavano in tale giudizio.
Difatti, circa 10 anni dopo, nel 1888, lo stesso "Vessillo Israelitico" pubblicò una serie di articoli di Leonello Modona sulla religiosità in Abissinia.192
Modona esaminava il caso dei Falascia nel quadro della generale situazione religiosa in Abissinia, giungendo a negare decisamente il loro Ebraismo. In conclusione - scriveva il Modona - “in Abissinia vi potranno essere tribù più o meno giudaizzanti ma non vi sono Ebrei; e il loro giudaismo di seconda mano, deturpato da pratiche cristiane e pagane non si discosta dal Cristianesimo del rimanente degli Abissini se non per un maggiore attaccamento alla fede più antica. Si chiamino pure
- 54 -i Falâsyân ed i Kemant «ebrei d’Abissinia» per distinguerli dagli altri etiopi, ma si diano pace coloro che in essi vollero vedere i discendenti di colonie ebraiche trapiantate o immigrate colà di Palestina".
Ma seppure non provenienti direttamente dalla Palestina, elementi ebraici significativi erano innegabilmente presenti in Etiopia. Modona stesso non poteva esimersi dal ricordare come il negus, pur dichiarandosi cristiano e intestando i suoi atti "in nome di Gesù Cristo, per grazia di Dio re dei re d'Etiopia", si proclamasse al contempo "re di Sion, profeta ed eletto di Dio, Leone di Giuda, spada di Salomone".
Questo cumulo di titoli regali induceva Modona ad "... affermare che le credenze religiose in Abissinia sono altrettanto confuse e mischiate quanto le razze".193
Ma non era quella la linea del giornale, si trattava di una posizione personale di Modona. E difatti, nello stesso anno 1888 Flaminio Servi, direttore de "Il Vessillo Israelitico" pubblicò un articolo in cui rivendicava ai Falascia la legittimità del loro Ebraismo194, pur ammettendo, come già aveva fatto Filosseno Luzzatto, la diversità della loro fisionomia rispetto a quella degli altri Ebrei. Quale che fosse la loro origine ( dalla Palestina, dall'Egitto o dall'Africa stessa) i Falascia - sosteneva Servi - erano "una delle sette più interessanti del Giudaismo", e gli studiosi italiani avrebbero dovuto interessarsi a chiarirne "il carattere, gli usi, la lingua, la letteratura", dal momento che l'Italia "... tosto o tardi sarà padrona del Abissinia...".
Luzzatto, stroncato da una morte precoce, non aveva potuto condurre a termine il suo studio; si chiedeva quindi Servi:" ora non spetterebbe a qualche israelita italiano il fare ricerca di quegli sventurati nostri fratelli? Essi, ne siamo certi, diverrebbero tosto nostri alleati quando sapessero con quale affetto paterno sono trattati gli Ebrei dalla Casa di Savoia". 195
Lo stesso slancio patriottico Servi lo dimostrava in un successivo articolo sul suo giornale, esprimendo solidarietà a "... quei poveri Ebrei Falashas, che tornerebbero alla civiltà, agli studi, al progresso, ove l'Italia - come speriamo - porterà la sua bandiera vittoriosa ove dimorano avviliti e negletti". Quale prova dell'ebraismo dei Falascia si citava l'opera di Halévy "Prières des Falashas ou Juifs d’Abyssinie”.196
Ancora motivi patriottici si intrecciavano a quelli religiosi qualche anno dopo, nel 1890, esaltando una presunta missione civilizzatrice dell'Italia in Abissinia, a tutto vantaggio dei Falascia. “Sulle spiagge d'Africa, scriveva il giornale, là dove pochi anni or sono, tutto era inciviltà, e barbarie, già comincia ad aleggiare benefico lo spirito della libertà italiana. Noi ne dobbiamo andar lieti per quei numerosi Falascia che trovano nel governo italiano un governo protettore ed amico".
La natura liberale della colonizzazione italiana - concludeva l'autore -era dimostrata dalla garanzia del rispetto di tutti i culti e di tutte le tradizioni assicurata nel programma del governatore dell'Eritrea, il generale Gandolfi.197
Messa la sordina ai motivi patriottici, "Il Vessillo Israelitico", tornò pochi mesi dopo, alla fine dello stesso anno 1890, ad occuparsi dei Falascia e delle loro origini con un articolo di Gustavo Sacerdote. Venivano ricordate le loro vicende storiche, incorrendo pure in qualche grave inesattezza, come l’affermazione dell’esistenza di un regno indipendente dei Falascia fino al 1800, cessato con l'estinzione della dinastia reale e con la sottomissione all'autorità del negus.
- 55 -
Sacerdote riferiva che il numero dei Falascia secondo le stime fatte oscillava da 10 a 250.000 (per Bruce erano 50.000) e trovava esagerato il numero di 250.000, ma troppo ridotto quello di 10.000, insufficiente per fondare un regno indipendente durato tanto a lungo L'autore riferiva varie ipotesi sulle origini dei Falascia, senza prender posizione per una di esse: al tempo di Geremia ci sarebbe stata forse una ondata migratoria ebraica, ma si poteva farla risalire ad un'altra epoca imprecisata più antica o più recente, addirittura successiva al Cristianesimo. Era riconosciuta l'affinità dell'idioma dei Falascia con quello degli agau, essendo totalmente ignorato l'ebraico; per l'aspetto fisico non poteva escludersi la loro appartenenza ad un'etnia africana.198
Quale fosse la reale consistenza dell'interesse per i Falascia in Italia, anche da parte della stessa comunità ebraica, era dimostrato da una sfortunata iniziativa di cui lo stesso " Vessillo Israelitico" diede notizia nel luglio 1896, proprio all'epoca della guerra contro Menelik.
Era stata indetta una sottoscrizione per finanziare l'invio di un rabbino in Eritrea lamentando l'abbandono in cui erano stati lasciati in Etiopia 300.000 ebrei, dei quali lo stesso Menelik aveva riconosciuto l'esistenza. Su di essi così si interrogava l'anonimo autore della nota: "Chi li conosce? Sono i Falascia di cui fu tanto scritto? O non piuttosto sono sette non cristiane, che vanno man mano convertendosi per opera dei missionari al Cattolicesimo?". Privi di un'organizzazione comunitaria e di un ministro del culto, quegli israeliti erano stati abbandonati da tutti. L’Alliance Israélite Universelle rifiutava di intervenire in Etiopia ed in Eritrea, "... dove l'Italia - nazione civile e che ha scritto nei suoi statuti e l'uguaglianza dei cittadini - ha il suo dominio. Dunque ci pensi l'Italia".
Per evitare che quei 300.000 ebrei perdessero la loro fede convertendosi al Cattolicesimo, urgeva l'invio di un rabbino a Massaua, contribuendo alla sottoscrizione che alla data del luglio 1896 aveva fruttato 90 lire.
Da notare la confusione tra Etiopia ed Eritrea, la nessuna attendibilità di un numero tanto elevato di Ebrei (addirittura 300.000), l'inesattezza nel riferire la mancanza di sacerdoti Falascia, l'abissale sproporzione fra il compito grandioso prefisso e l'irrisoria esiguità della somma raccolta: 90 lire!
Oltretutto, come un rabbino avrebbe potuto da Massaua intervenire sull'altopiano etiopico, distante migliaia di chilometri?
Appariva inevitabile un fallimento; in una nota del successivo agosto 1896 si comunicava l'aumento dei fondi raccolti, passati da 90 a 95 lire, annunciando una lettera del Cavaliere V.L. Lattes, promotore della sottoscrizione.
Sul numero di settembre si ammetteva: "La sottoscrizione per mandare un Rabbino nella Colonia eritrea non ha trovato eco nel cuore degli israeliti. Lo stesso proponente Lattes ha scritto il 2 agosto che la sottoscrizione era stata lanciata a causa della guerra in Abissinia e della necessità di mandare al campo un rabbino, non crede quindi opportuno insistere...", perché "... le offerte d'altra parte ci provenivano in proporzioni così minuscole che sarebbe stata follia insistere di più...".
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Si ridimensionava così l'iniziativa: non si trattava più di un intervento a favore dei 300.000 fantomatici Ebrei presenti in Etiopia, ma più modestamente dell'invio di un cappellano militare per i soldati ebrei partecipanti alla guerra.
Anche questo scopo molto più realistico si era però dimostrato irrealizzabile; restava da decidere quale uso fare della somma raccolta e si pensò ad inviare libri sacri agli Ebrei di Massaua, che ne erano privi, costretti anche a tenere le loro riunioni in una casa privata, in mancanza di una sede per la loro comunità. Non erano però finite le difficoltà, anche per queste iniziative tanto ridotte rispetto a quella originaria. Le 95 lire raccolte si erano ridotte a 55: visto il fallimento, Lattes aveva ridotto a 10 le 50 lire promesse e quindi con quella cifra non si sarebbero potute coprire le spese per l'acquisto e la spedizione dei libri. In extremis la difficoltà fu superata perché i fratelli Giuseppe e Leonetto Ottolenghi di Asti diedero altre 50 lire ed il totale di 105 così raggiunto bastò per i libri destinati agli Ebrei di Massaua.199
Questa infelice vicenda, pur nella sua modestia di un episodio tutto sommato secondario,testimonia in quelle angustie e ristrettezze si dibattessero in quell'epoca le comunità ebraiche d'Italia e quale sproporzione esistesse fra le loro ambiziose finalità e la realtà.
Ma, seppure in ritardo, il seme gettato da Halévy era destinato a dare proprio in Italia i suoi primi frutti. Fu difatti a Firenze, all'inizio del secolo XX, all'epoca della prima spedizione di Jacques Faitlovich in Etiopia, che sorse la prima organizzazione destinata espressamente a venire in aiuto dei Falascia, quel "Comitato pro Falascia", di cui il rabbino maggiore della città, Margulies, fu il primo presidente.
J. Desomogyi “A short history of Oriental Trade” Hildeshein 1968, p.78; secondo l’autore fra gli antichi viaggiatori solo Marco Polo risultava credibile nel dare notizie sui Falascia.
Salvatore Tedeschi "L’Abissinia nel libro di Marco Polo"- Africa, n. 3-4 (settembre-dicembre) 1981, pp. 361-389.
1) Historia de Ethiopia, scritta intorno al 1620, di Pietro Paez
2) Da attribuirsi sicuramente al padre Emanuele Barradas; opere scritte nel 1633-34 durante la sua prigionia in Aden
a) Do estado de Santa Fé romana em Ethiopia, quando se lançon o pregao contra ella
b) Do reino do Tigré e ses mandas em Ethiopia
3) Historia de Ethiopia o alta ou Abassia, impero do Alexim, cuyo Rey vulgamente hé chemado Preste Ioam, composto pelo padre Manoel d’Almeira de la Companhia de Jesus, natural de Visen; opera scritta sicuramente prima del 1660.
4) Expeditiones aethiopicae patriarchiae Alfonsi Mendesii e Soc. lusitani. Libri tres et Auctuarii liber quartus. Opera composta intorno al 1650.
" I padri della Società non si curarono di accertare quanto o in quale occasione costoro giunsero in Etiopia? Se essi aderirono alla setta degli abitanti di Cheran o di altri Ebrei? Quali testi sacri con o senza vocali essi adoperino? Si abbiamo altri libri, soprattutto storici, o soltanto tradizioni intorno al loro popolo o agli Abissini; saperlo sarebbe stato indubbiamente molto gradito a molti dotti, poiché non è contrario alla verità che essi abbiano posseduto antichi libri avendoli a lungo custoditi in tutta sicurezza in luoghi tanto fortificati".
L'edizione integrale dell'opera è stata consultata nella traduzione francese " Voyage en Nubie et Abyssinie entrepris pour decouvrir les sources du Nil, pendant les années 1768, 1769, 1770, 1771, 1772 et 1773 par James Bruce. Traduit de l’Anglais par M. Castera. Paris 1790 Tome premier, livre second.
"La superstizione più diffusa è quella dei lupi mannari, o Buda. Come in Bretagna, i fabbri ed i conciatori hanno fama di ospitare spiriti maligni e hanno per intero la responsabilità dei malefici. Soltanto essi sono capaci di fare il malocchio alle greggi, di trasformare gli uomini in bestie di farli ammalare ecc. ecc". Gli antropologi hanno posto in relazione la trasformazione notturna dei Falascia in iene con i casi di antropofagia diffusi in Africa al di fuori dell'area camitica. Per Vinigi L. Grattanelli (“ Antropofagia reale ed immaginaria nel mondo camitico" - Istituto Orientale di Napoli - Annali, nuova serie, volume 3°, 1949, pp. 187-202) quella superstizione non riguardava solo i Falascia, ma anche gli Amhara, i Tigrini, i Soho, gli Afar, assumendo varie denominazioni: bòuda per i Bogos, boudà o bauda per i Galla, buda o koro per gli abitanti del Caffa, bida per i Somali.
Erano considerati una conferma alcuni particolari, come le orme di iena dirette verso le capanne degli individui sospetti o i loro denti aguzzi come quelli delle iene. I sospetti appartenevano per lo più alle classi inferiori; al riguardo Grattanelli ricordava gli esempi presenti anche in paesi posti al di fuori dell'Africa, come l'India, la Birmania, la Malesia, citando E. B. Tylor ("Primitive culture", Boston 1874, volume I , p. 113: "...in any country an isolated or outlying race, the lingering survivor of an old nationality, is liable to the reputation of sorcery”. (“… in ogni paese una razza isolata o diversa, il sopravvissuto ritardatario di un'antica nazionalità, può essere collegato alla fama di stregoneria".). Secondo il Grattanelli la credenza negli uomini-iena può collegarsi a quella degli uomini-leopardo, setta segreta diffusa nel Congo settentrionale e nel Kenya, ritenuti capaci di sbranare le loro vittime con artigli artificiali simili a quelli dei leopardi per poi berne il sangue e divorarle. Bisogna però osservare che presso i Kikuyu del Kenya gli uomini-leopardo non erano dei reietti, avendo acquistato una valenza politica, simbolo di resistenza al colonialismo britannico, al di là del cannibalismo ad essi attribuito: il primo presidente del Kenya indipendente fu Yomo Keniatta, un Kikuyu appartenente a quella setta. Nel caso degli uomini-leopardo si trattava quindi di una realtà, al di là del loro preteso cannibalismo, mentre per i Falascia si trattava solo di una fantasia, derivante dai mestieri di fabbro e di vasaio, da essi esercitati e ritenuti degradanti. Tale considerazione è apparsa contraddittoria a Conti-Rossini (Notes sur l’Abyssinie avant les Sémites”, in “Florilegium M de Vogué, Paris 1909, p. 145 e seguenti) in quanto l'arte del fabbro fu introdotta in Abissinia dalla Arabia del sud: occorre quindi chiarire come e perché quell'attività diffusa dall'aristocrazia semita sia poi stata considerata spregevole. La superstizione degli uomini belva è stata pure analizzata da Raffaele Corso ("La questione della licantropia in Africa" in "Studi Africani", Napoli 1950, pp. 157-165).
La trasformazione degli uomini in belve era ottenuta, si credeva, lavandosi con decotti ottenuti da erbe magiche: gli esseri mostruosi così formatisi erano ritenuti più pericolosi delle belve autentiche. Gli stessi sospettati subivano quella suggestione, per cui si avevano confessioni dei supposti uomini-iena. In alcuni casi si trattava però di omicidi commessi da uomini camuffati da belva, responsabili pure di atti di cannibalismo, messi in atto forse per fugare i sospetti; ovvero, osservava Corso, per adottare un rituale di natura magica: nelle pantomime africane spesso gli attori si travestivano da animali. Non si interveniva per sventare gli attacchi degli uomini-belva non solo per il timore da essi suscitato, ma anche per la dignità religiosa attribuita ai loro crimini (L. Tauxier “ La religion des Bambara”, Paris 1927, pp. 72-86).
Ma queste considerazioni poi scomparvero e pertanto gli uomini-iena furono considerati criminali da perseguire.
Padre P. Borello, IMC, “Proverbi Galla (seconda serie),” in “Studi etiopici raccolti da C. Conti Rossini”. Roma, Istituto per l’Oriente 1945, p. 121
Louis Rapoport “Les Falashas d’Ethiopie. Une communauté en perdition”. Paris 1983, pp. 79 – 81.
"... un po' più dell'aiuto dello Spirito e le ombre orribili della superstizione e dell'idolatria sarebbero svanite di fronte ai luminosi raggi provenienti dalle sacre Scritture. Sfortunatamente si verificarono eventi che posero fine alla nostra missione ed alle speranze sorte intorno ad essa".
The Story of the British captives in Abyssinia, 1863-64. By the Rev. G. Percy Badger – pp. 267-268.
p. 200 "... a forza d'orgoglio, di azioni maldestre e di follie sanguinose..."
La lettera del cardinale era in data 16 febbraio 1791.
La lettera era stata scritta dal Cecchi durante la sua prigionia a Ghera ed era pervenuta alla Società geografica italiana, cui era indirizzata, soltanto nel 1881.
"Venuto in Africa per predicarvi il Cattolicesimo nel momento stesso in cui era stata appena congedata la missione protestante, aveva saputo, malgrado quella sfavorevole circostanza, accattivarsi l'affetto del popolo e dei capi.
In quell'occasione non potei astenermi da una specie d'affetto e d'ammirazione per lo zelo e il coraggio di quel sacerdote che di sua volontà si era sottoposto alle più dure privazioni".
L'opera fu tradotta quando si veniva affermando il sogno africano dell'Italia umbertina; veniva fondata la Società geografica italiana, fra i cui principali animatori era Orazio Antinori, organizzatore di spedizioni sul litorale eritreo assieme al Beccari ed all’Issel, creatore in Abissinia di una stazione scientifica a Let Marafiă, su di un terreno avuto da Menelik II, avamposto italiano in terra d'Etiopia.
Giuseppe Sapeto aveva trattato l'acquisto di Assab per conto della Società di navigazione Rubattino. A Napoli nel 1882 il club africano diveniva la Società Africana d'Italia, editrice di un suo bollettino di informazione ed a Milano la Società d’esplorazione commerciale in Africa iniziò nel 1881 la pubblicazione de "L'Esploratore - giornale di viaggi e geografia commerciale", diretto dal capitano Manfredi Camperio (titolo poi mutato in “L’Esplorazione commerciale e l’Esploratore”, divenuto successivamente “L’Esplorazione commerciale (già L’Esploratore) – Giornale di Viaggi e di Geografia Commerciale.)”
Con "sacra cena "Ludolf indicava la messa.
(Ludolf "Historia Aethiopiae”, volume 3°, capitolo 1°).
E. Ullendorf, articolo citato p. 253 “Dai tempi più remoti fino ad oggi i viaggiatori hanno sempre trovato nell’Etiopia e negli Etiopi un autentico sapore Vecchio Testamentario ed ebraico-giudaico, e pertanto - a seconda delle loro opinioni – essi li hanno condannati o lodati”.
Ullendorf, articolo citato p. 255: “…può in larga misura riflettere bene il sincretismo religioso del regno Axumita pre-cristiano”; “..la loro riabilitazione come una tribù di Israele perduta per lungo tempo, il che è storicamente del tutto non dimostrato”; p. 256 “…sono ostinati seguaci delle fossilizzate credenze, delle pratiche e dei costumi ebraici, trapiantati dall’Arabia del Sud nel Corno d’Africa”.
P. 12: “… dirette influenze siriache o ebraiche, si intende da posizioni diverse, possono spiegarsi facilmente nel periodo dal quarto fino a forse il settimo secolo, esse non possono essere credibili nel XIV o nel XV secolo”.
“… una parte integrante del patrimonio nazionale abissino molto prima dell'introduzione del Cristianesimo".
Carlo Conti Rossini "Note di agiografia etiopica"-Rivista di Studi Orientali, anno XVII, p. 446.
E’ per la verità poco convincente questo passaggio dalla natura geografica e geologica alle "accertate vicende di popoli", quasi che le analogie geologiche, geografiche, faunistiche e botaniche possano considerarsi opera di uno stesso intervento umano.
Carlo Conti Rossini "Piccole note Falascia" - Annuario Studi Ebraici 1935-37, pp. 107-111. È qui citato il rapporto del patriarca Alfonso Mendez, compreso nelle lettere annue dall'Etiopia, dell'anno 1626 al marzo 1627, pubblicate a Roma nel 1629 "appresso l'erede di Barb. Zannetti”, pp. 8-9. Il rapporto è stato ristampato nell'opera "Expeditionis aethiopicae libri I e II, Roma 1908, nella serie "Rerum aethiopicarum scripta occidentalia”, volume VIII. Il curatore dell'opera, il padre Camillo Beccari (con il quale concordava Conti Rossini) riteneva però che la confutazione di Salomone fosse stata in realtà l'orazione pronunciata in Portogallo dal patriarca Mendez contro un altro ebreo.
p. 86: “…popolo attivo, intelligente e con un grande avvenire…”.
Lindo Cipriani-Quinto volume dei rapporti della missione di studi al lago Tana "Ricerche antropologiche sulle genti "-Roma, Reale Accademia d'Italia, 1940.
Carlo Conti Rossini "La situazione etnica del nord-ovest dell’Abissinia veduta da uno storico”. Rassegna sociale dell'Africa italiana, novembre 1942, pp. 643-651.
"... l'immagine fedele degli abitanti della penisola arabica con tutti i lineamenti della loro fisionomia...".
"Presso gli Abissini orientali più che presso i Begia di origine araba si trovano molti del tipo ebraico e arabo".
"... qualcuno pretende di vedere nell'uomo bianco il caucasico, il "primum mobile", il principale artefice ed ispiratore delle migrazioni razziali, degli sconvolgimenti, delle trasformazioni dei popoli, del sorgere di fedi religiose, della creazione di nuovi linguaggi, di nuove tecnologie, specialmente nel campo dell'agricoltura e dell'addomesticamento degli animali. L'uomo bianco è stato considerato causa di ogni progresso positivo come di ogni relativa infelicità e contesa unita alla suddetta evoluzione. È stato così potente l'uomo caucasico nella storia dell'Africa, come dell'Asia e dell'Oceania - e forse perfino del Nord America preistorico - che è bastata la più piccola mescolanza del suo sangue con quello dell'uomo negro per ottenere risultati tanto importanti".
Per i riferimenti fatti dal Giuffrida Ruggeri a Keane ed a Conti Rossini, vedere rispettivamente "Ethnology of Egyptian – Sudan” Journal of R. Anthropological Institute, 1885, p. 107 e “ Studi su popolazioni dell'Etiopia"-Rivista di Studi Orientali, volume IV - p. 403.
“Commandements du Sabbat, accompagnés de six autres écrits pseudo-épigraphiques admis par les Falachas ou juifs d’Abyssinie” Paris 1902.
“La guerre de Saursa Denghel, Roi d’Ethiopie, contre les Falachas” – Revue Semitique 1906, pp.393-427; anno 1907, pp.119-163; 263-287.
“Nouvelle Prières des Falachas” – Revue Sémitique 1911, pp. 96-104; 215-218; 344-364.