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Quando nel mio paese, a quei tempi popolato di pescatori, di naviganti, si sparse la voce che io partivo per Parigi, la gente rimase attonita.
I più conoscevano il globo. Fin da ragazzi avevano bazzicato l'Egitto, la Tunisia, l'Algeria, le coste della Francia e della Spagna; da adolescenti avevano sboccato tutti gli stretti; nell'età gagliarda, facendo prua per le Americhe, avevano rasentato le estreme terre dell'Africa, e le isole di Maluccello, accampate sulle soglie dell'Oceano. I barchi a vela, sui quali si avventuravano in mare, andavano come uccelli nel cielo sterminato. Sui carabotti di prua, nei tedi delle bonacce avevano appreso dai vecchi le storie della nostra stirpe avventurosa che ha imposto i propri nomi a quante terre illumina il sole dopo il tramonto. Nelle tempeste temprarono l'anima, la morte imminente li stradò sulla via della indulgenza. I vecchi navarchi, come antichi re spodestati, dopo aver circumnavigato le Americhe, toccato l'India, la Cina e il Giappone, e per la pesca avventuratisi anche nelle deserte solitudini dei mari polari, rosi dalla salsedine, al cospetto del mare aspettavano di essere composti in una cassa di abete per fare il lungo viaggio, dove si naviga senza vele e timone. Tutta questa gente stupì quanto seppe che io partivo per Parigi, stupì perché le città dentro terra ferma destano ripugnanza al marinaio. Egli, quando si sente terra alle spalle, è preso da panico come un soldato accerchiato. La terra uggisce il marinaio per un senso di torpore e di pigrizia. Il terrazzano scaltrito, rapace, avido, malizioso è il diavolo dei marinai. Le città non risonanti del possente ànsito del mare terrorizzano il navigante come la prigione.
«E tu vai ad aberintarti a Parigi?» solevano dirmi in quei giorni.
Io abitavo, allora, nella Darsena Vecchia. La mia casetta era sotto al tumulto delle vele. Quando soffiava il vento di libeccio, il tetto suonava e dal letto si udiva lo scricchiolìo delle antenne e dei bompressi. Quando il mare in tempesta rompeva sulle calate del molo, le acque ferme delle darsene salivano, le murate dei barchi investivano le altre murate, i parabarche schiacciati fra le carene crocchiavano, i fori delle gubìe risoffiando il vento pareva si dolessero; quando in quella selva d'alberi brucati ci dava la saetta, le schiezze delle antenne schizzavan sui tegoli.
Nelle sere di chiaro di luna dalla cameretta, di tra i vasetti dei garofani, si vedevano fiorire le stelle sui cimelli degli alberi, e tante rimanevano impigliate nelle maglie delle reti, stese a imbeversi di guazza. I cantarelli delle darsene, dove si lagna l'acqua che, croccolando dalle bocchette solleva i fondali dolciastri e frange sul verde limo la luna e le stelle, erano come il nostro focolare. Lì son fiorite le prime favole della nostra vita: le prue bonarie delle tartane ci guardavano con le gubìe meste, e, spesso pareva grondassero lacrime. Anche loro, più tardi sembrava pensassero:
"E tu vai ad aberintarti a Parigi?"
I guardiani misuravano a passi lenti le calate dove eran capovolte in carena le barche; le chiglie, assommate per un nuovo battesimo di sole, avvilucchiate di limo e di alghe e il fasciame intriso di loto, dove era rimasto l'alito dell'Oceano, spianavan loro la fronte pensosa. Questi poeti taciturni mi conoscevano tutti, e, mesti, mi domandavano:
«Ma ti vai proprio ad aberintare a Parigi?»
Anche le madri, quelle che da anni avevano i figli agli sbruffi del mare e dei quali non sapevano più né nuova né novella, quelle il cui figlio aveva disertato la barca là per le Americhe ed era ritornato dopo aver girato quanto il pensier dell'uomo, quando io passavo davanti alle loro casette, mi domandavano stranite:
«Ma ti vai proprio ad aberintare a Parigi?»
«Sì» rispondevo.
«Gesù, Giuseppe e Maria!» nemmeno loro sapevano capacitarsi di questo lungo viaggio in terra ferma.
I giorni che precedettero la partenza, mia madre non faceva che piangere. Quando io rincasavo all'improvviso la trovavo in mezzo alle donnette del vicinato che la consolavano. Ella si doleva con loro della mia decisione, ed esse la consolavano: «Sarà quel che Dio vorrà» e, sospirando, ritornavano mogie mogie nelle loro casette:
«Questa è l'ultima!» mi urlava mia madre disperata.
Io, intanto, lavoravo la mia decisione, incassavo i disegni e i libri, insieme ai pochi indumenti; la cassetta dei colori e i pennelli secchi li congegnai per di fuori con un cintolone di cuoio.
Mia madre, intronata dai colpi di martello che io battevo a braccio sciolto sopra la cassa, di fondo l'orto, mi gridava:
«Ma chi te l'ha messo il diavolo addosso!»
«La Madonna!» rispondevo io con la testa mezza nella cassa.
Mentre con uno stecco scrivevo il mio nome sul coperchio, una vecchietta del vicinato, che io chiamavo nonna, mi prese per la giacchetta e mi disse:
«Ma sei proprio dato in mattìa?»
«Perché?»
La vecchietta alzò le braccia verso un Cristo di gesso attaccato al muro e urlò:
«Maledetto Parigi e chi ce l'ha messo!»
Mia madre, che chissà da quanto tempo tratteneva il pianto, le fece eco tra i singhiozzi esclamando disperata:
«Maledetto Parigi, maledetto Parigi!»
Quando uscivo di casa per salutare il mare per le ultime volte mi accadeva di incontrare qualche marinaio, il quale, consapevole della mia partenza, proverbiava:
«Meglio uccelletto in mano che aquila a volo.»
«Ho detto e quando ho detto, ho scritto.»
Anche sulla palancita del molo, nelle ore in cui il sole spariva dietro il paretaio delle nuvole, non mi davano requie: perfino le pesciaie imbaccuccate negli scialli proemiavano: «Vedrai quanti sequienzia sancti vangeli» e facevan, colle dita sul ventre, la scaramanzia della fame...
La mia testardaggine fu premiata con un banchetto. Quando tutti capirono che darmi consigli era lo stesso che pestare l'acqua nel mortaio, si trovaron d'accordo e ordinarono una cena alla trattoria di "Amedeo".
Nel salone della trattoria di Amedeo, quella sera, eravamo una tavolata. Marinai non ce n'era nemmeno uno: loro sguazzano quando son di viaggio fresco e di tasca addocciata, ma, anche allora, non si allontanano dalle bettole lungo canale, perché lì il vino schiacciarello, il baccalà col pesto e l'acqua pazza san di pesce e di mare.
Quando partono, partono taciturni, di consueto al vespero: la barca è ormeggiata all'ultima colonnetta del molo, il sole, irradiando, l'avvampa d'oro. Il commiato dalle famiglie è pacato e sereno come tra gente che segue una linea tracciata dal destino.
Invece quella sera da Amedeo ci fu, come suol dirsi, bufera. Amedeo, un bell'omaccione grande e grosso, dal cuore largo quanto le spalle, con gli occhi lucidi e chiari, pesava un quintale e mezzo. Era l'unico in tutto il paese, che non aveva fatto il passo dell'uscio: il più difficile. Artigiano della pialla e del seguretto, quando, per la sua corporatura greve, dovette da falegname trasformarsi in trattore, l'ultimo lavoro che fece fu la sua cassa da morto: la tagliò in un troncone di cipresso che, da anni, stagionava in bottega e la teneva a portata di mano sotto il suo letto. In camera di Amedeo ci sapeva dell'aroma pungente e amaro delle coccole che tonfan sotto i muri dei cimiteri dagli alti cipressi.
Amedeo, da giovane, aveva abbracciato "l'Internazionale” e, benché vestisse sempre di nero, ripeteva sovente a noi che eravamo delle frasche: «Mi son vestito di rosso a diciott'anni e ci muoio!».
Il mondo, per Amedeo, era un'espressione di dogane, nelle sue meditazioni di sedentario la sfera roteava sul pernio delle sue illusioni, la terra, circonfusa dal suo sogno, benché topponata come la giubba di Arlecchino diventava tutta rossa come un pomodoro ciclopico.
Fu lui solo che mi disse: «Vai! Parigi è il cervello del mondo!».
Nel corridoio dell'osteria c'era il mio sacco in posizione di via, lì da Amedeo si doveva aspettare l'ora del treno che era oltre la mezzanotte. Amedeo non aveva fatto a carestia di vino: ce ne fu a ritrecino. Quando la torre suonò i dodici tocchi della mezzanotte qualcuno ne contò ventiquattro. Quando uscimmo uno ruzzolò sul sacco, qualche altro si stincò sugli scalini, e chi fu varato fuori e come un parabarche, andò a catafascio sul ghiaino.
Amedeo, che era salito al mezzanino, si affacciò ad una finestrella e mi disse: «Torna presto».
Un amico, che si era caricato il mio sacco sulle spalle, mi domandò se c'era dentro del piombo. I bastimenti, al flusso e riflusso delle bocchette nelle darsene, si investivano uno contro l'altro; le vele, mosse dal vento fresco, cantavano sbatacchiando le antenne; le chiaviche rantolavano nei cantacci, il crocchio delle casette, fra le quali c'era la mia, si vedevano al di là delle vele; la facciata del mio vicinato era illuminata da una lanterna di un'osteria, dove, dopo la mezzanotte, si appisolavano i guardiani. L'unica finestra accesa in tutto il casamento era quella di mia madre.
Di sulle gobbe oscure delle montagne stupì tutti la luna che, di sulla vetta screziata del Quiesa, si apprestava a prendere il largo del cielo. Di laggiù dai campi, brontolava il treno, le cornette dei casellanti una dopo l'altra, stridevano roche come cornacchie.
Il vetturale di guardia, desto di soprassalto, schioccò la frusta sul collo della brenna, che scosse il capo intontito e ingozzò la lingua. Un vagabondo che portava i bauli, sdraiato sul marciapiede fe' a mo' dei cani: sbadigliò e stiracchiò le braccia. Il vetturale disse al vagabondo:
«E dove va lui lì a perdere la vita?»
Il vagabondo rispose: «E quello che si va ad aberintare a Parigi!».