Lorenzo Viani
Parigi

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Fleury mi ha stradato per le vie di Parigi. La ragione di Monsieur Fleury era prossima ad abissarsi nell'orrore delle tenebre. Sugli occhi plumbei lampeggiavano gli ultimi chiarori crepuscolari del discernimento. La voragine della follia risucchiava quella povera testa scialba. Dalle gelide labbra e dal naso trasparente come lo spermaceto delle torce, gli colava una bavarella liquida. Il cervello, che scialiva nella tazza del cranio, doveva essere come polta avvinata.

La camicia di Fleury era una di quelle tuffate mille volte nella pila, la cui orditura è sgrumata e lisa dal cloro, quelle camicie che aderiscono al corpo come una seconda pelle addiacciata; di quelle che si veggono soltanto addosso agli uomini impegolati nelle città di pietra: quella specie di cappe sulle quali s'innesta il colletto di celluloide, memento homo della miseria. Sul teschio spolpato, Fleury, teneva a sghimbescio, ricalcato fino alle ciocche degli orecchi un chapeau Melon.

Fleury non portava le bretelle. Oh! terrore di quegli strappi a demente ch'egli dava al cintolone di cuoio che gli recingeva in vita: la carne infrollita nella stretta del cappio si attorcigliava intorno alla colonna vertebrale, tra le pieghe dei pantaloni di bordatino, che monsierur Fleury si doveva esser fatti al tempo ch'egli era obeso. Ora, divorato dall'àlcole e dalla pazzia, colava dentro il vestito: le maniche della giubba, non più sostenute dagli omeri scardinati, gli pendevano giù oltre le mani. Dalla nuca all'osso sacro, Fleury, sembrava un uomo morto. I pantaloni sbracalati gli cascavano ad organino sulle scarpe che ridevano di sotto le ghette strippate.

Fleury fu il mio Virgilio. Nella marea torba, che trasporta uomini e veicoli, col rumore sordo di una fiumara in piena, Fleury andava come un albero divelto sbatacchiando contro gli argini delle mura, gli uomini, le teste dei cavalli, i parafanghi delle vetture, i fusti degli ippocastani.

Fleury, in casa, accudiva alle faccende domestiche: s'alzava, come tutti i pazzi, all'alba; lo vedevo uscire di sotto una tenda di broccato verde, la testa gialla sbucava da quella specie di alcova e si dibisciava come una tartaruga. Nelle mani di cera teneva, in una il colletto che, logorato dall'uso, di tra le screpolature sfilacciava l'imbastitura patinata di grasso, gli occhielli gli davano l'idea di un collare da cane di poveri, nell'altra mano teneva un cintolone: Fleury sembrava un cacciatore di talpe, di scorpioni, di cimici. Lo si sentiva, infatti, percuotere l'impiantito di tutta la casa con il fibbione di ferro, e ogni tanto ruggire:

«Non des noms, je l'ai tué

Madame Fleury russava fino a verso mezzogiorno, a volte tanto forte che sembrava qualcuno la soffocasse.

Fleury sventolava nei fornelli, dove metteva a bollire il bricco del latte e a rosolare delle fettuccie di pane che poi spalmava di burro:

«Tout pour Madame... la pauvre

Madame Fleury, benché sulla cinquantina suonata, la sera si sgolava chez Montheur, un café-chantant del quartiere di Saint-Denis, nel ruolo di romanziera, sotto il nome di "Mimì Concetta". Quando essa si alzava dal letto faceva pena a vederla: quelle membra slegate, quel petto frollo, con quel ventre incuoiato, costretto nella tazza di una panciera sgualcita e la carne grassellosa, slavata, filettata di vene celesti, ribollita nelle coltri. Sul viso grinzoso, sugli zigomi gonfi, sulla fronte piatta ci aveva ancora la cipria alta, qua e scortecciata come un vaso di smalto accoccato. Le labbra aveva insanguinate con della lacca, le ciglia le si allungavano un po' sulla cresta orbitale; sotto, gli occhi, gialli come lupini, indolciavano nella salamoia delle lacrime. I capelli di Madame Fleury, bianchi al calcio, ingiallivano sulle cime: una santità che si convertiva in lordura. Camminando sui trampani dei tacchi scalcagnati e sui topponi cascati delle sue scarpe, Madame, avvoltolato il corpo in un corsè smanicato, si andava a sedere ad un tavolinetto in cucina dove Monsieur Fleury le aveva ammannita la colazione ch'ella diluviava allupata. Prima di schiavare i denti Madame alzava il viso insonnolito e porgeva le labbra a Fleury: quel bacio schioccava nella casa come uno sputo. Quando, dopo aver fatto colazione, Madame si forbiva la bocca con la salvietta e la riponeva acciuccignata sul tavolo, questa, striata di rosso, dava l'idea di una pezza intrisa di sangue.

Fleury apparteneva a quella razza chiusa di rurali che, ai suoi tempi, sbuzzava i tedeschi e li sotterrava ancor vivi sotto il concio o li inchiodava sulla terra come rospi; razza di maniaci sedentari, stupratori, suicidi, quelle macabre figure che, passeggiando sui cigli della Senna o della Loira, si veggono all'ombra di un pioppo a dar da mangiare ai pesci mentre i ranocchi cantano giù per i fossati. Fleury doveva essere rimasto all'amo di carne calda e vermiglia di Madame e portato nel bottaccio di Parigi; gli occhi di lei avevano precedenti d'irragionevoli bramosie, la bocca, benché slabbrata, aveva ancora attortigliamenti di ventosa, quella carne accapponita, quel groviglio di sensazioni funeree, era ancora stregato da palpiti di senile lussuria; la testa scarnita e gli occhi bevuti di Fleury lo testimoniavano. La prima sera del mio soggiorno a Parigi. Madame, dopo che si fu abbigliata, patinata e unta di grassi volle che la conducessi chez Montheur: quel puzzo di serpe morta, che esalava dal suo corpo, mi rimase nel naso per tutta la notte. Quando ritornammo a casa, Fleury ci venne ad aprire nudo come Dio l'aveva fatto.

 

Il casamento, ove abitavano i Fleury, rispetto a Parigi, poteva rappresentare un chicco di grano. Il concierge, un tipo sornione dinoccolato, con in testa uno zucchetto da sacrestano, stava quasi sempre seduto entro il suo sgabuzzino e, da spione losco che era, spulciava la corrispondenza degli inquilini. Chi gli ammollava un discreto pourboir aveva recapitata sotto l'uscio la sua corrispondenza: il satrapo obeso, ronfando lento e cadenzato come un motore ad olio, saliva fino ai piani che rasentavano il cielo, ricalando giù occhieggiava sinistro le porte degli inquilini indietro col pagamento e gorgogliava come un acquaio intasato. Quando qualche inquilino squattrinato, timoroso quasi, si affacciava al finestrino della conciergerie per domandare «Niente di posta per me?» con quale impeto ebbro di gioia e di ferocia il satrapo abbaiava:

«Pas du tout, pas du tout, pas du tout» e continuava a sparare alle spalle sporgendo in fuori il capo bastardo, poi, come il mastino sdentato, si ritraeva grugolando il pas du tout tra la dentiera sconnessa.

La moglie intanto spazzava il cortile, guardinga quando passavano i clienti buoni; smanierata, triviale, insolente con quelli cattivi. La bile le aveva arrapinato gli occhi usati alla malfidanza i quali avevano preso la tetraggine insulsa di quelli di una civetta imbalsamata; quando voleva sorridere era grottesca e oscena, la dentiera falsa allentata le penzolava sulle labbra e scopriva le gengive piene di fosse, e ridevan solo quei denti di bestia morta. In testa, che aveva pelata e qua e trapuntata di pel gattino, ci teneva una parrucca e su questa una ciuccia di ghinea. Le spalle aveva avvoltolate in un sarrocchino di lana e le anche in una gonna di ghineone celeste. All'ora dei pasti compariva alla loro tavola un tanghero grande e grosso di spalla tonda e dallo sguardo infingardo: il figlio.

Il cortile dell'immenso casamento sembrava la stiva di un transatlantico, tanto i muraglioni erano alti e neri; per tutto il pozzo non ci batteva mai una spera di sole, il cielo lassù sembrava un tendone bigio agganciato ai comignoli, delle spalliere di edere salivano dal cortile ai primi piani, da molte finestre pendevano gabbie di canarini, i gatti facevano le fusa sui davanzali delle finestre, la nebbia filtrata dal setaccio del cielo colava lenta e densa come bambagia, l'impietrato era continuamente fradicio.

Questo guazzo era la dannazione di un inquilino a terreno: Monsieur Jouta, un italiano rimbozzolito e imbastardito a Parigi. Egli era editore di musica. Jouta per immedesimarsi a Parigi e per esserne convenientemente assimilato aveva barattato il bel g italiano con quella specie di gancio da pizzicagnolo, e il sonoro o, lo storico, il rotondo e giocando o di Giotto nel dittongo ou che per pronunziarlo bisogna fischiare come le serpi, perché, anche vedendolo a prima vista quella specie di spaesato si diceva subito: Tu non ti puoi chiamare altro che Gota.

Dunque Gota aveva un diavolo per capello a cagione di questa umidità, egli era imbolsito come una brenna, malgrado si tamponasse gli orecchi con batuffoli di ovatta e si calafatasse i fori del naso con del cotone intriso di mentolo e si imbottisse il petto con un cuscinetto di termogene, rivoltolava sempre per la bocca delle pastiglie di catrame ma, tuttavia, quando doveva accennare l'aria di certe canzonette, che da sé stesso s'accordava al piano sembrava un ranocchio incarnato. Disperato per questa permanente raucedine si alzava dal sediolo e, melenso melenso, s'accostava alla vetrata, ne ripuliva un pezzetto dalla panna nebbiosa e s'industriava di vedere il cielo contro il quale in italiano sferrava delle sacrileghe imprecazioni; e sua moglie, un'ebrea francese, insospettita da questo grugolare, alzava gli orecchi come una cagna.

Allora Gota, risedeva sul sediolo e ripesticciava i tasti e ritentava di cavar fuori dalla gola qualche flebile nota, ma eccoti uno starnuto fra capo e collo che gli faceva schizzare i tamponi del naso sulla partitura che aveva a quattro dita; che, tra le molte sciagure, Gota era anche orbo.

Ci giocherei la pelle che Gota in Italia aveva dato fiato tutt'al più ad un corno o suonato le campane ma, a Parigi, gli prese l'uzzolo della composizione. Eran tempi prosperosi per le illusioni; l'italiano Scotti, randagio suonator di chitarra, aveva imbroccato la Tonquinoise, la celebrità, i denari. E allora, Gota, malgrado la freddura che lo affliggeva e il cimurro che gl'impastava le cervella, a giornate sane martirizzava quel piano e lo faceva gemere, lamenti che ronzavano come mosche intorno all'arietta della Tonquinoise.

«Mais ça... c'est la Tonquinoise? Voyons

Goto mortificato abbassava gli orecchi e dondolando il capo annuiva:

«C'est vrai, ma petite... c'est vrai

Ma Gota aveva la testardaggine del somaro, e scalpitava sulla tastiera del piano a giornate intiere, e non dava mai un minuto di requie. Quando si convinceva della sua indiscutibile bestialità, allora, con il lento giro del collo, roteava anche l'occhio imbambolato e la mascella equina in supplichevole gesto verso madama che di certo ella qualche volta doveva avergli randolato fra capo e collo il calamio. Dopo l'assoluzione, il bestione riprendeva quella specie di lagno sincopato con il quale affliggeva il casamento e non cessava finché il cielo non era del tutto imbrunito, non perché l'uzzolo gli fosse svariato, ma perché in quell'ora la maison Gota era il rendez-vouz degli artisti di café-chantant: Dranem, Montehus, Le Diable boiteux, les Bossus parisiens, le Petit Coco, la mitraglia dei tzigani dei cabarè, i rauchi menestrelli cascanti e svenevoli, quei dai cervelli rattrappiti e monchi che accennavano, zufolavano, strillavano seguendo Gota che con le dita martellava il piano. Quelle facce glabre, quelle chiome impomatate, quella peste di bergamotta che avevano addosso davano alla comitiva l'aria di una radunata di frati lembrugi o di camerieri di prelati o di eunuchi.

«Édouard, comment ça va? Ou la la.»

 

Al primo étage abitava la famiglia chabalau, cocchiere, egli, di una nobile casata, fino all'età di settant'anni che Monsieur Chabalau portava agevolmente sulle spalle capaci. Monsieur godeva l'onesto ozio della pensione in compagnia di Madame Marie alla quale, il peso degli anni che frange la vita non aveva pur anco distrutto l'avvenenza del corpo e della figlia Fanny la quale, su di un pianoforte a coda, faceva eco alle malinconie di Gota.

Monsieur Chabalau, rotondo come un bambolotto di gomma, con due basettoni uguali a due spazzole di saggina, incedeva grave lungo i corridoi della sua casa, come se dovessero apparire d'incanto dall'ammattonato le ombre dei Conti de l'Assuenne, suoi vecchi signori.

Nel pomeriggio, Monsieur appinzava una catenella al collare di una cagnetta idropica, una specie di porcellino in miniatura, muso schiacciato e codino arricciato. La bestiola vestita di un cappottino coi sonagli per bottoni, per allentare le sue deiezioni aveva bisogno dello stimolo del verde e Monsieur, paziente, forando una moltitudine convulsa si riduceva al rezzo delle alte piante del Lussemburgo. Nel frattempo che la cagnetta annusava l'erba delle aiuole e sfregava la schiena alla scorza scabra degli alberi, o schizzava sul ghiaino come una palla, Chabalau conversava con alcuni suoi colleghi, i quali sitavano di pece volterriana lontani un mezzo miglio. I cagnolini di quella brava gente si rivoltolavano fra l'erba, si inseguivano e frullavano sul ghiaino, le ghiarelle schizzavano come veccioni. I colleghi di Monsieur Chabalau erano dei ferventi partigiani della separazione.

«Mais oui

«Mais oui

«Mais oui

E quei vecchietti sembravano tanti porcellini indiani.

«Mais oui

Monsieur Chabalau, a quei ghiri setolosi che lo sollecitavano a parlare rispondeva invariabilmente con una formula che gli s'era stampata nella gelatina cerebrale avendola udita tutte le domeniche, all'ora che Monsieur le curé dall'altar maggior della cappella dei Conti de l'Assuenne commentava il Vangelo: «Tout ce qui existe est un attribut de Dieu, une partie de Dieu, une seule chose avec Dieu» e riaccompagnava sulle vie del cielo questa massima con un pio gesto delle mani e delle basette: riabbassando umiliato gli occhi verso la terra, come s'accorgeva che tra il ghiaino c'erano delle ulive verdi e che la cagnetta sfregava la groppa alla punta delle sue scarpe, le riappinzava la catenella e riedeva taciturno alla casa.

 

Al deuxième étage, centrata nella porta nera come il catrame c'era una lastra d'ottone, lucente come oro fine e sopra, in rosso vivo: Adrienne Chantilly: Sage-femme. Un cordone a tre capi color di lacca penzolava lungo l'uscio, e terminava con una nappa sfrangiata come un aspersorio d'acqua santa.

Quand'io non conoscevo affatto il francese m'industriavo di apprenderne qualche parola meditando sulle insegne dei negozi; la prima che mi colpì fu: Boulanger, scritta a lettere di scatola sopra un vetro largo un paio di metri. Preso così alla sprovvista, pensai che ivi abitasse il cospiratore realista il quale di fronte ai temerari repubblicani avesse opposto il suo nome gigantesco come una sfida. Su taccuino di fianco a questa parola vi segnai poi una pagnotta. Cordonnier: e vi segnai a lato un calzolaio allampanato, ma pensai subito che ivi si fabbricassero delle corde. Il mio taccuino era irto di disegni; soltanto così potei difendermi in qualche modo i primi giorni.

Malgrado facessi degli sforzi inauditi per convincere me stesso che le parole, le quali risuonavano presso a poco come alcune del nostro idioma, pure significavano un'altra cosa, tuttavia l'istinto mi portava verso una arbitraria interpretazione. Quella che mi conficcò una spilla nel cervello fu: Sage-femme. Era così frequente questa parola che mi saltava subito agli occhi: sage-femme nei gran boulevards, sage-femme nei sobborghi e sulle piazze, donne sagge ovunque in quest'orto di Dio.

La sage-femme io la pensavo una donna casalinga, raccolta in continue meditazioni, assorta in preghiere, obliosa delle umane cure, genuflessa davanti alla immagine di San Luigi con un mazzo di casti gigli tra le mani, e si mortificasse il corpo reo di essere caduto in tentazioni lascive, e di si portasse carponi come una bestia al cospetto di Gesù Bambino plasmato di cera, che custodisse sotto la campana di vetro tra vaghi fioretti di carta colorata e si segnasse la fronte, la bocca, i capelli e tutte la parti più sensibili del corpo; e baciasse con fervore mistico gli abitini che le penzolavano al collo, che si cospargesse i capelli con le ceneri di San Severino e leccasse reliquie e baciasse iconi miracolose. E così, tra baci, mortificazioni, penitenze, preghiere e fioretti, aspettasse mondani traviati, luterani, eresiarchi, temerari e li istradasse sulla via di Damasco verso la verità e la luce negli orti fioriti di stelle.

Ero indotto a questo pensiero discreto, del resto, dai tipi che vedevo aggrapparsi al cordone del campanello con la disperazione dell'affogato. Eran donne dai visi spolpati, dagli occhi cerchiati di celeste, dalle clavicole arcuate sulle quali era ricalcato lo sterno su cui si appigliavano le cartilagini che sorreggevano un ventre sfiancato e pulsante, imbullettato all'asse delle vertebre con la testa dell'ombelico; ventriere dalle stecche di balena e di acciaio che sbuzzavan fuori dall'imbastitura; pinze di molle che facevano divaricare le coscie e costringevano le meschine a un'andatura di anitre sciancate; uomini, mezzi uomini, nanerottoli e gobbi dagli occhi sbirbiti. Molti di costoro tenevano per il collo, come un uccello salvatico, delle bottiglie di forme stravaganti, alcune a guisa di caraffe col becco lungo e sottile come quello di una beccaccia: prima di tirare il cordone sbirciavano circospetti la tromba delle scale e appena l'uscio si apriva filavan dentro svelti.

Nelle ore quiete subito dopo mezzogiorno e sull'imbrunire, allo strano portone facevan fila virago dipinte di colori stravaganti, dai capelli verdi come aguglioni di pino, irti sopra il viso giallo e gli occhi inaspiriti, le quali conducevan seco ragazzette dal seno acerbo e dal ventre maturo.

Adrienne Chantilly era il tipo più stravagante e più grottesco che io abbia visto in mia vita: grassa e lardosa come un sibarita a cui fosse stata messa una vestaglia a fiorami stampati e accalappiata alla vita da un cordone di rosso granato. Sul capo aveva un parrucchino lisciato da cerette e profumato di benzuino; le mani e i piedi aveva come le cinesine, mentre parlava con le visitatrici le manine le si accartocciavano come sanguisughe avide e le ditina sparivano nei buccellatini cicciosi, e le si riducevano a guisa di tamponi vellutati. Adrienne installata in una poltrona nella quale le affondavano le natiche cicciose, teneva abitualmente le gomita sui braccioli e le mani accoppiate e mentre ascoltava, gesticolava coi pollici come il prete all'altare quando il chierico gli versa sulle dita l'acqua dell'ampolla.

Quando le si presentava davanti qualche consueta visitatrice, Adrienne abbassava il capo onde scrutar soltanto il ventre, poi, con le mani polpose glielo palpeggiava fin sotto l'arcata. Mentre faceva questi assaggi, gli occhi le sparivano sotto l'increspatura del viso e la bocca le si accartocciava e sfioriva, poi, gli occhi, sgusciavano scaltri sul viso e Adrienne esclamava: oui!

«Merde, alors...» scattava la visitatrice.

A coloro che avevano ampolle le quali erano colme di liquidi gialli, le toglieva loro di mano e le scrutava contro la luce d'una lampadina, le sciambrottava, le intorbava, e analizzava anche i fondiglioli.

San Luigi il casto era bandito dalla casa di Adrienne; la signora aveva una venerazione soltanto per San Rocco, il venerato protettore della peste; infatti il Mistico Pellegrino plasmato in cere colorate, era custodito sotto una campana di vetro, di fronte alla quale ardeva sempre una lampadina rossa che gli invermigliava le ferite. In questo singolare tempietto c'erano ampolle e siringhe e perette, barattoli color fragola, fialette gialle come il veleno; sugli scaffali ordini di bottiglie con tibie incrociate e teschi. Nei canti, tinozze colme di batuffoli d'ovatta e più in alto sopra uno scaffalone, ampi vasi di vetro colmi di spirito; dei fiori impaludavano dentro un enteroclisma smanicato; la stanza era tagliata in diagonale da un capace tubo di ghisa che scendeva a precipizio nelle chiaviche del cortile. Amen, Deo gratias.

Verso la mansarda, coperte dal solaio dove ballavano le nidiate dei talponi, degli scarafaggi, dei burbiglioni e delle tarantole, era accompata una di quelle tribù di slave in perenne corruccio con la morale borghese e il sapone, catafratte di loia e di superiore alterigia; quelle bertucce, dal naso camuso e dal viso appiattito, coi cernecchi della zazzera tagliati all'altezza della nuca, specie di paretai per le lendini, alcune di conio e di sito ebreo. Larghi cappelli da guascone sgrondavano sugli orecchi tamponati di cera, o tócchi a pan di carbone ascondevano loro la nuca e i baruffi dei capelli. Quella progenie di disessate che braccano i marciapiedi della Rue des Écoles o le adiacenze della Sorbona con quei bustoni di cuoio pieni strippati di carte bisunte, gonfi come cagne pregne, sulle quali tartassavano la loro miopia.

Le divoratrici di tomi su cui sono stampate massime che a batterle di costa schiaccierebbero le nòcciole di pesca, la genìa delle linguacciute dalle mille favelle che escono all'ora delle nottole e si orientano verso i sinedri dell'alta cultura e portare ivi il perpetuo lutto delle loro unghie. Alcune calarono a far guasto in Italia, sdottoreggiarono a Firenze e a Roma, finché l'eterno dissidio con l'acqua e la sopravveniente calura non le risospinse, qualcuna col suo uomo, verso il loro naturale vivaio.

Un giorno ambulavo con una di queste prove che la sporcizia non uccide; i pori della sua pelle saturati di panucioli d'unto la costringevano a tirare il fiato a bocca aperta come una stordea di nido affamata, e così a smoralizzare. La linguacciuta fu presa all'improvviso da un'insana foja e su questo prurigo tagliava delle formule di licenziosa morale.

Che se della mia stizza io scaldo 'l ranno,

Ti leverò d'in sul ceffo la loja

volevo urlarle, ma per agghiacciare la caduta della bella mi abbandonai a delle dissertazioni sulla morale casta così per misura di prudenza. La bella arrapinata slargò le froge e mi urlò:

«Italiano pregiudizioso e cinico, quando sento il desiderio di un maschio me lo prendo;» e con gli unghioni dipanava la nebbia vertiginosamente «oui, oui, oui

«Questo poi no» e con la forca delle braccia tenevo lontano l'indemoniata.

A un amico italiano gli s'attaccò addosso, come un di quei fiori aridi tutti aghi che nascono sulla sabbia, una di queste cerebrali che similmente a quei triboli di mare non si posson più staccare da dosso. Io rimanevo di sasso nel vedere costui stregato a tal segno: ma si vide mai serpenti in caldo combattere? Essa si chiamava col vezzoso nome di Marie: il solito viso piatto, gli occhi di gazza, il naso avvincato all'in su, la fronte gelida.

«Voglia Iddio, iniqua cagna, ch'io non mi pacifichi teco.»

Quest'angelo riuscì a piantar l'ugna sul dosso di questo italiano il quale, spesse volte nauseato le urlava: «Levati di torno, tribolo!».

Ella fischiava come una vipera: «Mais oui, mais oui, mais oui».

Il disprezzo per cotesta progenie è pegola; l'angelo fece tanto e poi tanto che si fe' doppia; dopo, armata di questa generazione premeditata spadroneggiava su di lui e sgonnellava nella sua casa e si era messa i suoi calzoni e gli pestava i piedi talché il bue infuriato le dette una cornata e la rigettò con un mensile alla campagna. Apriti cielo! si splancarono le cateratte dell'inferno: telegrammi, pneumatiques, espressi, lettere urgenti, raccomandate con ricevute di ritorno, lettere usuali, corrieri. Svenimenti, deliqui, malattie, stregonerie: epilessìa, mal caduco, ballo di San Vito, agrofobìa, mal maligno. Dottori, levatrici, streghe. Nel fondo saltavano bare, becchini e cimiteri. Raggomitolato sulla sedia l'amico ruggiva: «Cambio paese, nome e connotati». Infine le fece capire: il figlio sì, ma te no.

Maledizioni, imprecazioni e le carte entrarono in ballo; strolaghe, sonnambole e negromanti. E lui, testardo: «Il figlio sì, ma te no».

Confessioni, riti, altari.

«Il figlio sì, ma te no.»

Pugnali, veleni, corda.

«Il figlio sì, ma te no.»

Suicidio.

«I1 figlio sì, ma te no.»

Un giorno con l'ausilio di qualche Adrienne Chantilly, la bella gli mandò a casa il figlio coperto di gigli.

«Me sì, ma il figlio no.»

 

Compressi tra il piano della sage-femme e quello delle belle c'erano alcuni piani zeppi di sartine, le divote di santa Cathérinette. Ogni piano sembrava un'enorme gabbia di cincine, quella razza d'uccelli le cui femmine prima di morire si mordono la lingua; quando qualcuno apriva un uscio il forbicìo delle lingue tagliuzzava il cielo di piombo. Sull'imbrunire, quando le finestre illuminate fiorivano come di tappeti di seta gialla il pozzo fondo del cortile, giù sull'impietrato un cieco intirizzito dal freddo accompagnandosi cogli strappi rochi di un violino cantava una di quelle canzoni d'amore, di quei canti che sembrano inni dell'esercito della salvezza per i quali vanno in estasi gli italiani spaesati. Un ragazzo puppato dal freddo fissava gli occhi bianchi al cielo. Molte finestre si aprivano e molte teste col collare bianco si sporgevano fuori come uccelli in gabbie. Una sera che il cieco udì sulle pietre tanta dovizia di elemosine, lasciò stupito il violino e chinando il capo verso la terra, chiese al fanciullo:

«Ma gettano denari, o sputano

 

 

 

 

 


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