Lorenzo Viani
Parigi

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Per varie vicende dopo qualche tempo dovetti lasciare il casamento ove abitavano i Fleury e mi portai nel quartiere di Vaugirard, uno dei più popolosi alla periferia che si congiunge al ventre di Parigi con la serpe lunga della via omonima. Vaugirard non ha come gli altri quartieri, il suo cimitero.

Nel passage Dantzing, un fondo si strada per il quale si accede alla porta Versailles, c'era allora un quadrato di terra recintato di mura: terreno aspro, in cui ai tempi dei tempi i pattumai rovesciavano le carra piene di immondizie. Su quel terreno grasso impolpato di sostanze putrescenti, vegetavano alte le malerbe: cicerbite, ingrassa-porci; ortica, gramigna e ruta selvatica. Sparpagliati ovunque c'eran pentoli fessi, brocche di smalto schiacciate, padelle dal fondo crivellato, bricchi smanicati, filtri sfondati, casseruole, barattoli, pentoli, tutta la scampanata che ruzzola dalla garetta della lordura. Nel mezzo a quella sterpaia c'era una casa rotonda, qualcosa che ricordava certe camere d'incenerimento; era invece una casa battezzata col vezzoso nome della "Ruche": l'Alveare.

Dalla parte che l'edificio crematorio guardava le scarpate delle fortificazioni, sembrava il cimitero dei protestanti in un paesetto cattolico; erbe non falciate si avvilucchiavano a plinti di pietra inverditi dall'umidità e su questi posavano le statue delle virtù teologali: Fede, Speranza, Carità.

La Ruche era stata costruita coi rottami degli edifici abbattuti dopo la grande Esposizione, e il padrone, si rese mallevadore che ivi avrebbero albergato soltanto artisti poveri. Così gli inquilini della Ruche quando erano installati dentro, non ce li levava più nemmeno l'acqua bollente; espulsi da una stanza si rintanavano in un'altra, per poi, dopo poco tempo, ritornare in quella di prima. Alcuni avevano albergato in tutti i sessantasei studi della Ruche, e questa gente poteva paragonarsi a un ago che penetra nella pelle, il quale gira per tutto il corpo come un microscopico siluro. L'odio degli inquilini contro il padrone di casa è ragionevole cosa, condito anche da imprecazioni orrende, ma i ricoverati della Ruche, per lo più banditi dalle loro terre, avevano passato il limite dell'onesto. Essi turbavano la veneranda quiete dell'inclito uomo mettendosi tutti un pezzetto di lapis rosso all'occhiello per far sì che quella rosolina di seta che il petto di Monsieur Boucher si confondesse tra quei mozziconi di lapis.

La ciurma imbarcata sulla Ruche aveva trovato una cosa che angustiava forte Monsieur Boucher: di fianco al cancello di notte tempo veniva scritto a caratteri vistosi: La Ruche, Cimitero di Vaugirard.

Il pover'uomo al mattino con l'aiuto della concierge cancellava il macabro battesimo della sua casa pia, ma l'indomani l'oltraggiosa parola rifioriva quasi che fosse stata scritta col mordente. Per tutto il quartiere la Ruche fu chiamata il Cimitero di Vaugirard. Boucher ne era tanto afflitto che quanto varcava la soglia della Ruche, vestito di nero com'era sempre, sembrava uno che andasse a visitare i suoi poveri morti. Di fianco al cancello c'era addossata una tettoia nella quale abitava la concierge, una specie di cagna incatagnata in quel covile: occhi cupi come acqua torba, bocca molle, naso in su dai cui fori si poteva veder le cervella, petto polpo, ventre conciato come una pelle di tamburo, coscie divaricate, zampe di papera, la quale urlava dietro a tutti gli inquilini improperi osceni.

Io entrai alla Ruche sul tramontar del sole in un giorno degli ultimi di novembre, mi sedetti sovra una panchina di pietra di fianco alla porta d'ingresso; il cielo al di sopra delle fortificazioni si alzava all'infinito scalpellato dagli ultimi raggi del sole, sugli alberi lontani la luce freddandosi diventava violetta. La Ruche era silenziosa, si sarebbe detta una casa disabitata.

La concierge cianciava con alcune donne, doveva sciacquarsi la bocca con dei vituperi. Lo intuivo dai colpi che si dava sulle natiche e dai gesti delle braccia; quando ebbe svuotato il sacco, fischiando rufolò in un mazzo di chiavi per pescarvi quella dell'atelier A: il mio. Mi precedé sulle scale squadrasciando le natiche. I piani della Ruche erano tre. Io fui assegnato all'ultimo. Gli studi, per ogni piano erano tanti quanti le lettere dell'alfabeto. L'atelier A rimaneva dirimpetto alle scale. La concierge schiavacciò l'uscio, con una pedata sbatacchiò la porta contro la parete e disse:

«Voilà votre atelier» e ripartì alla svelta.

Presi visione rapida della casa: le rampe delle scale erano sette come i peccati mortali; con sette salti si poteva uscire all'aperto.

Lo studio sembrava la cella di un carcere duro, il foro di presa della stufa pareva il pertugio per il quale in segregazione apparisce la ciotola della zuppa, le mura sfarinavano una tinta color pisello, mosche e burbiglioni erano rimasti seccaricci sull'invetriate, nei canti alitava la bambagia che fiorisce nelle case disabitate, dei ragni tessevano una tela sopra l'architrave, la stanza sapeva di fame. Rimasi sorpreso che il mio predecessore, il quale non doveva legare la vigna con le salsiccie perché in terra non c'era una briciola di pane, non avesse schiodato l'impiantito di legno stagionato che doveva bruciare come l'anfisca, io lo sommai subito con una scala a pioli per la quale si saliva in una piccola altana e totalizzai un mese di fuoco.

Per curiosare mi avvicinai verso l'invetriata. Com'era desolata a quell'ora la tragica sterpaia: rattristava il cuore. Invece che a Parigi ebbi la sensazione di essere in un villaggio selvaggio: verso le mura c'era delle casette piccole come stallini di maiali, fatte di lattoni rugginosi e di casse da petrolio, coperte di teloni incerati neri, uncinate a dei pioli confitti nella terra. Trombe di stufa schiacciate, tenute in bilico da piramidi di fili di ferro erano i fumaioli di quelle tane; a quell'ora da tutti i tubi filava fumo celeste, cani magri uggiolavano a catena legati fuori, uomini intrisi di loja, con le braccia impastate di polta e le scarpe marcie di fanga aggobbivano sotto dei sacchi colmi d'ossa e di stracci e di pezze imbevute d'untume e cinciagliori. Erano i cercatori che rufolavano nelle mucchia della lordura aiutati dai loro cani incimurriti. Di mezzo a un acquatrino che fumava come sotto vi ardesse un fuoco di stracci si elevavano i tetri muraglioni del cortile di una caserma. L'immenso edificio anneriva sulla luce del tramonto, dalle finestre aperte che in ordini uguali dilungavano sulla facciata e ne aumentavano la tetraggine, si udiva un vocìo sconnesso come si ode quando si passa di sotto le mura di un manicomio. La sentinella passeggiava come un dannato davanti al portone, l'ufficiale sembrava un compasso piantato sulla terra, il tricolore svaniva nel tramonto violetto. Dei soldati ramazzavano il cortile, un gruppo di prigionieri erano ad arieggiare sopra una scarpata, contornati da altri soldati con le bajonette innastate. Dei cavalli legnosi erano legati ai mozzi delle carrette celesti, altri soldati poltrivano sui muriccioli di un fosso che tagliava il cortile a metà. La tromba ogni minuto faceva il terribile lagno dei adunati, una corvé accendeva i lampioni fuori delle mura. L'acre tanfo dolciastro e acuto delle esalazioni ammoniacali, il fetore degli uomini accatastati, il bestino delle comunità appestava l'aria. I gesti insulsi, come quelli dei galeotti e dei pazzi, quell'andare e venire senza guida d'una volontà, quel trapano d'ottone, martirizzavano l'anima.

Il rancio doveva essere stato sminestrato da allora, nelle gavette; delle mucchia di pasta appoltigliata fumava in un canto. Fuori stazionava una folla di affamati. Quando alcuni soldati con dei cucchiaioni simili a crani smusati infilzati in una calocchia ebbero riempito dei secchi di quel pastone e lo dettero alla raccaglia che sbadigliava di fuori, arrivarono sino alla Ruche dei latrati orribili; la voce dell'uomo quando contende il pasto al suo simile. I soldati ne stincavano alcuni a pedate, ma i lembrugi avidi, divoravan cogli occhi le secchiella pastose e urlavano come pazzi. Quando qualcuno aveva riempito il pentolo s'accoccolava lungo il muro e colle mani lo teneva e coi piedi, di quassù sembravano dei mostruosi ruzzola merda che rodessero le fondamenta della caserma.

Quando ebbero saziato la bramosia vorace, i lembrugi forbendosi le spaventose bocche colle maniche della giubba o all'erbe alte, o alle cocche della camicia si alzarono come spettri e presero a girare intorno al muraglione: eran gobbi dal petto schiacciato ridotti a guisa di un ragno mostruoso che divorasse le loro interiora, teste tosate dal mal maligno, mascelle scardinate da cancri, orbite vuotate dalla rissa, occhi bruciati dalla sifilide, barbe impiastrate di lordura. Torsi amputati di ambo le braccia, al cui collo era accappiata una fune in fondo alla quale penzolava una pentola, orride lingue bramose leccavano labbra mézze e una serie di gambe magre, gialle, scheletriche, portavano l'orrendo carcame verso la desolazione della pianura.

Puntavo la testa alle spranghe della finestra e mi ci appesantivo con tutto il corpo; la sera era scesa, soffondendo tutto d'una nebbia gelata, le rame steccolite delle piante sembravano fiorite color del cielo, i cani incatenati alla porta dei covili umani, guattivano massacrati dalle legnate, i lembrugi si vedevano ora sparpagliati qua e come uccelli voraci nel cielo che s'era impastato con la terra.

Quella sera mi convenne sdraiarmi sull'intavolato: mi buttai sulle spalle il cappotto e mi feci guanciale delle braccia. La notte non ebbi tempo di cercar fresco nel letto, rimasi acciocchito e mi destai la mattina con tutte l'ossa rotte. Mi infilai il cappotto aggrinzito e uscii sui poggi della sterpaia per godere un po' di sole. L'ossa m'eran diventate vetrine e scricchiolavano come un armadio quando è lavorato dai tarli, la carne ci s'era marmata sopra e il sangue pareva si fosse accagliato nelle vene. Dopo una mezz'ora di sole tutto il corpo si dimojò.

Stando costì come un bianco sentii schiavacciare l'usciolo d'uno studio a terreno, i quali davano sull'orto; due figure di giovani, che non stentai a riconoscere di sotto due pittori foresti si fecero fuori, erano anche loro infreddoliti e rimbozzoliti. Uno aveva in dosso il sarrocchino di Brandano, rattoppato tanto che sembrava un tetto coperto con embrici vecchi; l'altro aveva il corpo scusso di carne, coperto con un vestito di rigatino che dava i brividi a guardarlo e al collo teneva avvoltolata una sciarpa di lana ammencita. Entrambi erano in capelli e sapevano di nido e di stabbio. Quello vestito di rigatino era di statura piccola e segaligna, aveva gli occhi di corvo e il naso adunco e la bocca tagliata in giù come l'aquila reale, i capelli, irti sulla fronte piatta sapevano di salvatico, ma il tanfo di bestia non repelleva; parevano due fiere uscite di gabbia. Il più alto aveva i capelli ricci come son sulla groppa di un becco, doveva dormire su del rusco perché la capigliatura era vilucchiata di fili e di fogliette, gli occhi aveva cilestri come il mare, limpidi e trasparenti, il naso tagliente, la bocca da fauno, il mento accartocciato tendeva disperatamente verso la punta del naso. Si fecero innanzi sui poggi più alti per godere meglio il sole. Mentre ci si spollinava facendo frullare il corpo dentro la scorza delle vesti come si fa alle vette di castagno quando sono in succhio, ci si guardava e si sorrideva, ma non si poteva ingranare discorso perché io non conoscevo una parola di francese. Ma, il sangue tira e l'acqua lava: ci sentimmo uguali. Nel frattempo era sceso giù dal piano di mezzo un altro inquilino scultore, e il suo abito era introgolato di pastelli di mota: una legnosa figura di giovane scarnificato dalle penitenze e dai digiuni, il volto era scurito dalle ciglia aperte sopra gli occhi come ali di folaghe, il viso glabro era schiacciato tra due basette che sembravano tanaglie piatte, l'uomo aveva del domenicano e del bandito. Non aspettai ch'egli dicesse il suo nome per capire che si trattava d'uno spagnuolo. Tutto il corpo aveva tagliente come una lama catalana. Lo spagnuolo arrotolò sulle ginocchia la cartina d'una sigaretta, la lambì con la lingua, l'imbottì di tabacco, la frullò fra le dita e se la mise in bocca.

«E quattro!» dissi tra me.

Lo spagnuolo il quale dimostrò una grande dimestichezza con i due selvaticotti, deve avermi chiesto se mi conoscevano.

«Franzuski?» mi chiese il piccolo.

Io rispondevo dimenando la testa come i ciuchi.

«Polone

«Eghitto

«Circasso

«Anglais

Compreso che ebbi il desiderio loro, risposi:

«Italiano

«Italianourlò lo spagnuolo.

«Sì!»

«Io parlo un pogo italiano» e, facendo un leggiero inchino, si presentò:

«Matteo Ruiz d'Alégria, spagnuolo

Il piccolo arrotò il nome:

«Laxine

«Gronoski» disse l'altro.

Sicuro di aver trovato la scarpa adatta al mio piede, l'invitai in una drogheria che avevo adocchiato la sera innanzi dirimpetto alla Ruche. Bevemmo un intruglio di sciroppi e di alcool che andò giù come i giuramenti.

Matteo Ruiz d'Alégria, al quale raccontai che avevo passato la notte sull'impiantito raggruppato come uno sterpo e che ero alla solina per sgranchirmi le membra, si offrì di indicarmi un luogo ove, con pochi soldi, avrei potuto acquistare le coltri e un aggeggio per sollevarmi dalla dura terra, nonché un sediolo per non dovermi assidere sulle calcagna come i musulmani. Mi istradò per la Rue Vaugirard, lunga quanto la fame. Dell'italiano, Matteo, che asserì conoscere un "pogo", sapeva soltanto delle eresie. Quindi la nostra conversazione fu assai singolare: egli biastimava ed io lo riprendevo per fargli chiaro che quelle eresie non erano di puro conio nostrale. Gli dicevo in italiano che la Toscana portava il vanto per le contumelie all'Eterno. Egli dimostrò subito un grande interesse per la Toscana e volle qualche sacrilego saggio...

Egli sgranava delle girandole di eresie catalane che dov'erano intese dovevano far scurire il cielo e la terra. Con il benevolo perdono di Dio giungemmo alla Rue Pasteur. mi fece scantonare, poi girare, rigirare finché si sboccò in una strada remota alberata di tigli che in quella stagione sembravano di ferro battuto. La strada era del color dell'acciaio e le case plumbee; per tutta la lunghezza dei marciapiedi erano esposti vari utensili e suppellettili le più stravaganti; sedie senza scapole, girarrosti sdentati, orologi senza lancette, lumi a petrolio col tubo spezzato come i tronchi dei cimiteri, scendi-letti come la groppa di un cane rognoso, copertoni incuoiati, pentoli trisunti, pitali vedovi del manico, trincianti mancanti di un omero, forchette sdentate, coltelli ossidati, cucchiai slabbrati, saliere a monocolo e un tritume di calìe di ogni sorta come da noi si veggono dove volta il cenciaio.

I padroni di quelle immondizie sui cui panni c'era tanto untume che avrebbe condito il caldaron d'Altopascio, stavan sugli usci col cipiglio duro di Cerbero, e osservando quei ceffi alteri e letaminati, non potei frenare un'eresia e Matteo rise in modo strepitoso, e tre o quattro di quei visi si incagnirono e ci guardarono con gli occhi della fronte e con quelli della crudeltà.

Passammo oltre ove era esposta la lingerie, non prima di aver dato un'occhiata nell'interno di cotesti fondachi: appese alle pareti c'erano delle vestimenta, specie di pelli scuoiate di sul dorso di alcuno che avesse reso l'anima a Dio. Quei taits avevano ancora l'importanza delle apofisi, stinti sulle scapole e lungo la tastiera della colonna vertebrale, slabbrati sugli orli delle tasche, i pantaloni appesi sotto avevano ancora il ginocchino, tait e pantaloni davano un'idea di uno spettro amputato del capo e dei piedi. Ferraioli, sarrocchini, cappe, giubbe e cappotti, nascondevano del tutto le pareti; in terra c'era la fila delle scarpe di tutte le forme e dimensioni, di capretto e vacchetta, pelle lustra e bazzana, brunello e antilope, coi tacchi a pero e piatti, alla polacca e all'americana, scarpini da ballo col cravattino nero sullo spunterbo e scarponi irti di chiodi. Le scarpe esposte a punta in fuori e gli abiti appesi, petto al muro, davano l'idea di gente che avesse le gambe divincolate alle nodella. I cappelli appesi più alti, tube e bombette, pioppini, morecci e funghi preti, davano il senso che i rispettivi proprietari si fossero smusati nella parete.

Essendomi fermato a curiosare su codesta roba, Matteo era andato oltre e mi si presentò di schiena. Ebbi la sensazione, vedendolo così che un vestimento completo, tait, pantaloni, scarpe e cappello, dalla bottega fosse saltato sui marciapiedi, meccanicato dai gesti irrequieti dello spagnuolo.

Le spalle di Matteo erano più strette di colui il quale apparteneva per primo il tait e questo doveva essere anche più alto di statura perché la stretta della vita a Matteo gli colava sulle anche e gli orecchi della coda a rondine gli frustavano i tendini di Achille. I pantaloni invece dovevano appartenere a taluno più basso di Matteo perché malgrado egli avesse allungato le bretelle questi gli frisavano le nodella: le scarpe di Matteo abbottonate da una parte avevano la ghetta di vitellone colorito a lacca e la rimonta di vacchetta nera; erano tanto più lunghi dei suoi piedi perché smusandosi nel trottoir alzavano tutto lo spunterbo. Dove passava, Matteo si lasciava un forte odore di petrolio.

«Dimmi Matteo, qual è il tuo sarto

«Lo sartore boi dire

«Oui

Egli rispose in catalano chiuso, ma dai gesti capii che si serviva agli spogli della Morte.

 

Sul marciapiedi più avanti c'erano dei vecchi letti presi di peso e portati belli e rifatti, dopo che chi vi aveva riposato per tanti anni l'avevano soppesato in quattro; poltrone calde, ottomane strippate, guanciali ripieni di penne che dalle sdrusciture svolazzavano sul marciapiede sparpagliandovi il pòlline dei pidocchi pollini, coperte imbottite di batuffoli di lana annodati, lenzuola impallinate e mucidite, capezzali incotti. fu scelto il mio giaciglio: un'ottomana, due lenzuola, un guanciale e una coltre rossa come il sangue.

La sera sdraiato sull'ottomana, dormii come un papa. Raccoglier potevo la gamba mancina e con agio distendere la drittagna, scatenar le giunture delle braccia e scivertare indietro la testa. L'ossa che cricchiavano da un po' su dure panche o nuda terra, si chetarono sulle spirali delle molle.

 

Un suono di violino, un lagno monotono e pertinace come quello di una zanzara che ogni tanto dava in un disperato singhiozzo finale con strappi e pizzichi di corde, si udiva nell'atelier D. Io l'ascoltavo, sdraiato sull'ottomana, le braccia incrociate sotto il capo. Spesso mi accadeva di addormentarmi pizzicato da questa specie d'insetto. Ero assai incuriosito di conoscere il coinquilino dell'atelier D; m'immaginavo dovesse avere un aspetto tombale. Un giorno stetti inorecchito al buco della chiave; quando la suonata, dopo un'agonia di strappi si spense, mi alzai e socchiusi l'uscio e stetti in agguato. Mentre aspettavo, si aprì la porta dell'atelier Z, quello che combaciava col mio: un giovane, dalla faccia rinvecchignita, una specie di quei San Severini di bardiglio che si veggono sulle cantonate dei quadrivii toscani dentro certe conchiglie di pietra, sporse la testa in fuori e si fissò anch'essa sulla porta dell'atelier D. Su quel viso stremezzito lo sperone del naso dava in fuori come il timone di un trabaccolo, la bocca tagliata a strapazza pagnotte, pareva ridesse vedendosi sopra quello scabro promontorio, la nuca rapata. Egli accortosi che io lo guardavo incuriosito, fece con la bocca molle lo squaccherìo dei pellicani: «qua... qua... qua...» e rise come sogliono ridere gli idioti: qua... qua... qua... ou qua... qua... qua...

Finalmente la porta dell'atelier D si aprì e dalla tana uscì una specie di struzzo. Il suonatore aveva le gambe tutte di un corso, infilate in un paio di calzoni a quadretti che in gergo si dice: pareva si fosse purgato con l'olio di ricino; i piedi, due fettoni lunghi una quarantina di centimetri, l'aveva allacciati in un paio di scarpe strapanate, sulle spalle incurvate ci teneva un ferraiolo che non gli oltrepassava la rotola dei ginocchi, malgrado che questo fosse più lungo di un metro e cinquanta. Questo demonio di violinista era più lungo che la Quaresima. Il violino lo teneva tanto stretto al costato che sembrava un'ala di fegato, il manico pareva un osso di prosciutto e gli oltrepassava le orecchie che aveva flosce a guisa di can bracco, del viso non si scorgeva altro che il naso giallo patito e magro; nella mano di ci teneva l'arco brandico come uno spiedo.

Andava, di certo, ad infliggere la sua malinconia a qualcuno del piano di sotto: infatti, dopo poco si riudirono giù i lagni del suo violino.

Seppi poi da Matteo esser costui un russo il quale, messo tra l'incudine e il martello, tra la scelta del letto o del violino, preferì lo strumento, e la notte dopo aver delle ore intere sviolinato le sue amaritudini, si gettava sull'impiantito dopo aver appeso il violino come un pollastro spennato a un chiodetto del muro. Dai terribili digiuni sembrava dimagrato anche lo strumento.

L'altro merlo, l'abitatore dell'atelier Z, era un ebreo di Lepoli, il quale quando non avea di che schiavare i denti nei giorni in cui i cani bigi fan paura come i lupi, si sdraiava sopra il suo strapunto dopo aver collocato al capezzale un secchiello d'acqua e una tazza, e saziava l'inestinguibile arsione che la fame con delle lunghe bevute, sicché si riduceva smagrito e polpo. Egli restava sul giaciglio fintanto che gli amici non l'andavano a rinfrescare di scapaccioni; allora gonfio d'acqua come una rana e pregno di umori, inebetito dalla fame, ridicchiava dicendo: «Merci beaucoup; ça me fait du bien», e faceva riverenze a destra e a sinistra.

Due polacchi, Brik e Dik abitavano gli ateliers L, M. Il Primo aveva la testa simile a un bricco di coccio di quelli che fanno oltr'Arno in Montelupo; larghi di fondo e stretti sulla bocca. Dik aveva una pappagorgia che gli faceva marcire le parole in bocca, gli orecchi avea brucati e sembravano due manichi di terra sbocconcellati; in capo portavano una papalina che sembrava il coperchio di un recipiente.

Per certe increspature della fronte e accartocciamento del naso che si portava dietro la bocca e una deviazione degli occhi, alla Ruche avevano messo loro il nome: mangia stecchi. I due compari portavano certe lembe che sbatacchiavano sulle lacche come velacci di tartana. Se alcuno di noi li osservava attentamente i due friggevano come due lumache in purga.

All'atelier A, a terreno vi era una di quelle famiglie incollate a posticcio. Il nome del titolare lo si poteva leggere su di una carta da visita confitta con cimici nel centro dell'uscio: Jean Cristofakis. Questo incrocio di lettere tra l'anacoreta Giovanni, Cristo e il Fakis ellenico levantino, rendeva subito curiosi di vedere chi si ascondeva sotto il connubio di queste parole.

La donna alla quale Jean Cristofakis si era incollato, la si vedeva sovente uscire per necessità domestiche: ella era magra come una canna e nodosa come una vetta di nocciolo potato; la testa aveva sottile e aguzza come quella di una serpe ranocchiaia, e a giudicare da certe pesche che la donna aveva sulla fronte e a volte sugli zigomi, Cristofakis doveva governarla con sugo di bosco. Una fanciulletta acerba dai capezzoli agri, restava in compagnia dell'anacoreta, il quale dicevano soffrisse di agrofobìa. A giudicare dal "saligaud" che la concierge ruttava quando passava davanti alla porta del suo atelier, Cristofakis si doveva dannare con il frutto acerbo.

Una mattina mi fu dato di vedere l'uomo. Egli era lardoso su tutto il corpo, obeso, sbracalato; il cranio avea pelato come una vescica di strutto umettato di una certa bozzima che sitava di sugna, gli occhi imbambolati bevuti insieme alle lagrime, l'ossa pareva le avesse tutte dilogate e inaridite di sinovia; movendosi gli scricchiolavano come un guindolo: da questo e da una barba a becco che aveva sotto il mento sfuggente e da certe contrazioni e scatti della bocca e da un sorrisetto sottile che gli rediceva la bocca e gli socchiudeva gli occhi, veniva voglia di dirgli: "Cristofakis, péntiti".

Dall'atelier A, saltiamo a piè pari allo Z. Ivi abitava lo scultore Koscialek. Appena si entrava protendeva le mani un gigante timoroso, sbiancato dai digiuni e dalla scagliola, con un paio di baffi del colore del granoturco maggese e i capelli di quello serotino, gli occhi colore dell'indaco; vi veniva fatto subito di chiedergli: «Polacco?».

«Oui, monsieur. Et vous, mounsieur

«Italiano

«Ah! Monsieur, vous êtes Italien? oh-la-la, oh-la-la. Vous savez, je rêve de l'Italie... Donatello, Mino da Fiesole, Rossellino, Desiderio da Settignano, vous savez, je rêve de l'Italie

Sentendo che lo scultore di Cracovia non nominava altro che i suoi colleghi stregati tra il 4 e il 500, lo spinsi verso la voragine:

«E Michelangiolo, monsieur Koscialek

«Oh! nonnon, Monsieur. Je n'aime pas Michelange, pas du tout... Tout à fait... Trop de muscles. C'est trop lourd. C'est pas spirituel».

«Dunque, Koscialek,» gli dicevo io in toscano «sicché Michelangelo non ti piace?!»

Egli comprendeva il senso della mia domanda e soggiungeva timido:

«Excusez moi beaucoup».

Io ossevavo i vestiti: anche Koscialek doveva servirsi agli spogli della Morte. Egli era vestito di una redingote nera dalla quale ci doveva essere uscito allora di dentro, il corpo freddo. Non potei ristare da dire, in italiano al pensionato: «Caro Koscialek, ti sei messo dei brutti panni addosso». L'uomo che vestì la redingote, doveva essere magro perché il Koscialek malgrado che fosse divorato dalla miseria ci strippava dentro.

Quel gilet, quel maledetto gilet gli faceva civetta sull'ombelico e i pantaloni gli si arrestavano sulla cresta iliaca e non c'era verso di farli salire più su nemmeno dando tre mani di terzaroli alle bretelle: quel fuffigno di camicia, che sbuzzava fuori di tra il vuoto del gilet e dei pantaloni, onestamente sudicio, era la sua disperazione.

Ma perché quella camicia non voleva starsene giù tra la tanaglia delle coscie, e per cos'era quell'eterno cruccio tra il gilet e i pantaloni? Koscialek quando questo avveniva al cospetto di un visitatore, pareva desse in mattia. Pigliava i pantaloni per gli orecchi delle fianchette e li tirava come si tirano a un cane, e prendeva una cocca del gilet accartocciata come l'orecchio di un porco e tirava per farli combaciare, ma allora i pantaloni scoprivano i nodelli nudi e il gilet metteva in luce il petto della camicia. Il povero Koscialek si dibisciava come uno a cui fossero entrati in corpo gli spiriti.

«Lascia perdere Koscialek,» gli dicevo io pacato «tanto siamo in famiglia. Tu non ami Michelangelo, ma pensa che lui ti somigliava più di Mino da Fiesole».

«Peut-être

«Il tuo Mino aveva l'aria di lavarsi tutte le mattine, mentre Michelangelo che tu detesti, temeva l'acqua come i gatti

Koscialek in quel momento lavorava al bozzetto per un monumento a Chopin che doveva essere eretto su una delle piazze di Cracovia: una specie di befanino era confinato sulla vetta di una colonna, una donna in gramaglie seduta al calcio tormentava una lira, quattro pioli si distraevano sugli angoli di una gradinata. Koscialek faceva girare su il pernio del trespolo il bozzetto, ma con la testa era sempre voltato verso di me per leggermi negli occhi l'impressione. Io lo guardavo bonariamente, tacendo.

«V'interessa?» e con la voce di un Dulcamara cominciò: «In alto, Lui» e Koscialek lasciato andare il trespolo si mise le mani sul petto e guardò il cielo come un trovatore innamorato, poi ripeté: «Lui!... l'ispirazione! in basso la Polonia» e le braccia di Koscialek si stecchirono a filo delle ginocchia. «La povera Polonia incatenata

«Basta, Koscialek» dissi io flebile. «In bocca al lupo

«C'est-à-diredisse egli stralunato.

«Vuol dire che ti auguro che tu vinca il concorso

Mentre mi accomiatavo, Koscialek mi prese per un braccio e mi disse circospetto: «Se voi salite da Valak non parlate di questo bozzetto. Io divengo quasi folle e lui è un ladro intellettuale».

«Dormi tra due guanciali, Koscialek

Santi e manigoldi si alternavano negli altri ateliers e in qualche studio c'era anche il campione del bel sesso. Alla Ruche erano rare le donne: uno stangone lungo quanto la fame, tutta anche a nodelli, bionda e rossa come ustionata, albergava in fondo l'orto in uno studio fatto di travicelli e cristalli opachi. Un'altra, una specie di uccello del Paradiso dipinta nel viso e negli abiti, s'era allogata in uno studio a terreno. Al secondo piano abitava una giovinetta contegnosa, di capelli castani e occhi verdi come le ulive e le labbra rosa, dal corpo ben partito: il seno pieno, la vita sellata; le mani di cera, sembrava presa pari pari da un fresco di Lorenzo di Credi. Ella usciva ogni giorno con la cassetta dei colori e rincasava tardi, si chiamava Anna; questo almeno era il nome scritto sopra la porta del suo studio. Dunque Anna un giorno si cominciò a notare che il viso le diventava cereo come le mani e il verde degli occhi le si inargentava, un cerchio di celeste le era venuto sotto le orbite, le labbra da rosse le divennero bianche, la carne cedé sul teschio, gli occhi le si infossarono nel viso puppato. Il bacino le sfiancò e il ventre diventava ogni giorno più rotondo: ella era incinta. Tutti le portavano un gran rispetto. Il pensiero che una creatura maturava nella Ruche faceva intenerire anche quella gente silenziosa dagli occhi sbarrati e dal passo concitato. Fu in una algida notte sbiancata dalla neve, nella quale si sprofondava fino alle ginocchia che rientrando alla Ruche udii il vagito di un bimbo. Origliai alla porta di Anna. La ragazza doveva aver partorito sola, ché non si udiva rumore veruno. Il bimbo doveva essere nato allora. Entrai nello studio e mi coricai sull'ottomana, ma, nella dormiveglia mi sentivo come trapanato il cervello da quei vagiti che mi pareva venissero di fuori; il mio pensiero non si era capacitato ancora che alla Ruche era venuta alla luce una creatura innocente. Col tempo il bimbo lo teneva sempre in braccio una vecchia, la madre di un pittore russo incanutita innanzi tempo e aggobbita dai patimenti. Lo teneva avvoltolato tra degli stracci e lo passeggiava nei corridoi i giorni di pioggia, e fuori nei giorni di sole.

Il figlio della vecchia, un pittore maniaco e taciturno, dipingeva un quadro: un vecchio e una vecchia d'innanzi a una capanna si tenevano incatenati con le braccia, intorno era la desolazione della steppa, in alto un cielo diaccio sul quale volavano due angeli con le ali celesti e rosa che tenevano sulle braccia uno spettro nero, giallo e smagrito. Lo portavano come in dono ai due vecchi desolati. Questo soggetto era dipinto ad olio, a tempera, ad acquarello, inciso e disegnato: le pareti erano piene di questo soggetto ossessionante.

Un giorno domandai alla vecchia il significato di questo tormento che straziava sempre l'anima di suo figlio. Ella mi narrò una lunga storia di tribolazioni e di amaritudini: un figlio deportato in Siberia era fuggito ed era morto assiderato lungo la via.

Un giorno la vecchia, gobboni sull'impiantito segava dei pezzi di legno con un segacchietto. La poveretta ansimava tanto che pareva fosse il suo petto che segacchiasse, si era strappata le dita in tanti posti e le sanguinavano, e ogni poco ella se le puppava. Le chiesi cosa facesse.

La cornice per inquadrare uno dei terribili dipinti.

Dopo qualche giorno lei da una parte, il figlio da un'altra tenevano il quadro coperto con una tela di bordatino celeste e lo portavano alla giuria del Salon, lontano otto o nove chilometri. Ritornarono più tardi, stanchi macinati, la vecchia per parare il freddo si era addobbata con la copertura del quadro. Dopo una settimana li vidi ritornare caricati del medesimo quadro: la vecchia piangeva e tremava.

Un giorno ero seduto desolato con l'ossa appesantite come mi fossero diventate di ferro, sopra una panchina davanti all'abattoir di Vaugirard. Le ferramenta del sedile sembravano calamitate, la carne che rimaneva tra l'ossa e la panca mi doleva, sembrava in un furore di corrompimento. Nausee e deliqui s'alternavano in me. A volte ero preda di una specie di delirio e dei conati di vomito biliosi mi rigonfiavano lo stomaco, una sete insaziabile mi bruciava da capo a piedi, gli arti erano gelati: tutti effetti delle perpetue vigilie. Mandrie di pecore mi passavano davanti, degli uomini percotendole con delle aste, le paravano nei cortili del macello: il puzzo del sangue, del concio, della frattaglia, con il tanfo dell'asfalto bollito in certi caldaioni mestati dal vento, davano l'esalazione ferigna dell'aquila, della iena e dell'avvoltoio. Le mandrie medesime tentavano deviare inorridite. Le pecore bigie, la mota bigia, il cielo bigio, il muro bigio, gli alberi bigi. Chiusi gli occhi e chinai il capo sulle mani annodate. Mi si aprì dentro una via maestra della Versilia quando d'ottobre i branchi delle pecore scendono dai piani di Solaio e dal monte Gabbari e le strade corrono come il cielo che le mandrie sembrano nuvole portate dal vento. Mentre col capo ero sulla via di Lombrici tra i canneti, mi sentii battere su una spalla. Nell'atto di alzare il capo il mio cervello precipitò da duemila chilometri, gli occhi dovevo avere dissensati. Mi aveva riscosso un giovane dai capelli neri e dalla carnagione olivastra che io vedevo giallissima:

«Modello?» mi chiese.

«Sì» risposi come quando mezzo addormentati ci chiedono qualche cosa e noi si risponde. Mi fe' cenno di alzarmi e di seguirlo. Mi condusse alla Ruche. Io camminavo a testa bassa seguendo i tacchi di lui; quando alzai il capo due Ruche saltellavano dentro il mio cervello. Mi fece passare nel suo studio che era a terreno. La miseria a questo giovanotto non gli aveva ancora stretto i panni addosso: sul tavolo aveva una mezza bottiglia di latte, delle pietrine di zucchero, del thè e del tabacco. Io avevo la barba trasandata, il viso combusto dal freddo, il quale mi aveva fatto inverdire di più gli occhi. Capii che il giovinotto, che era scultore, mi voleva plasmare la testa. Mi messi in posa ed egli cominciò a manipolare la creta e ad affettarla con le stecche. Io non potevo guardarlo, mi sembrava che il mio capo diventasse poltiglia e da un momento all'altro staccandosi dall'armatura del collo si dovesse schiacciare sull'impiantito. Girando lo sguardo attorno alle pareti vidi in un canto una pezzata di lardo appesa per uno spago a un chiodo del muro, mi sentii, allora, la lingua unta e la bocca dello stomaco lubrificata dalla saliva. Mi dovettero spuntare sul viso gli occhi voraci di un gatto.

Il giovane che per la sua speculazione mi osservava fisso, capì. Lasciò le stecche, si risciacquò le mani in una secchiella d'acqua, prese un coltellaccio e tagliò una fetta di lardo alta tre dita e lunga un palmo, la messe tra due fette di pane e me la porse. La rifransi, ché l'avevo già mangiata con gli occhi.

Egli mi osservava fisso. Gli feci capire che ero anch'io artista e che a Parigi si crepava di fame.

«Faminesk

Disse una parola presso a poco così, ma tradotta dal suo sguardo spaurito e dalla bocca aperta, intuii che doveva essere: Fame.

 

 

 

 

 


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