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Il pane lo portava agli stabbioli della Ruche un vecchietto polacco, un ebreetto emigrato. Era un pane aromato di granelli d'anice, giusto di cottura, del colore e del sapore delle nocciuole, lucido e croccante.
L'ebreetto trainava una carrettella a cassettone con la lentezza di un somarello. Egli era umile come la gente povera della sua razza randagia. Tutte le volte che doveva varcare la soglia della Ruche domandava cento volte permesso alla faccia ingrugnata della concierge. La megera riteneva il vecchietto complice necessario del nostro prolungato soggiorno nella casa, mentr'essa agognava di infilarci sopra una forca, e di sul muro farci veder Parigi.
Se qualcuno della ciurma non ha eroicamente stirato le cuoia alla Ruche, lo deve al cuore del vecchietto. Il fornaretto era puntuale: sapeva, egli, che la vita degli abitanti della Ruche era data volta alla sua pagnotta, si acconciava quindi con pazienza alla quotidiana mortificazione della concierge, la quale ogni volta che sentiva il rotolìo della carretta pareva dovesse ingoiare delle ghiaie, gonfiava come un boddone e stralunava gli occhi. Molti inquilini della Ruche erano ebrei, ciò rendeva vieppiù sollecito il fornaretto. Il vecchietto era taciturno, portava la pagnotta sopra la sua mano nodosa come un magliolo, la porgeva traverso l'uscio socchiuso e spariva. Soltanto la prima mattina mi domandò se ero ebreo, poi tacque sempre.
Il vecchietto aveva sul viso il marchio stampato dalla vita errabonda condotta di terra in terra. La sua statura piccola si era anche incurvata, il capo pendeva in avanti e l'espressione del viso aveva come chi passa sotto a un palco dove c'è chi traffica con caldaie di pece. Gli occhi piccoli come due grani di pepe lucidati dagli occhiali stessi paravano due boddini sotto l'acqua. Vi calava sopra la gronda di un cappello duro come un tubo di stufa. L'omettino sembrava un Rabbino intristito, ché il viso aveva coperto di barba intonsa disseccata coi peli a forcella. Un tanfo d'acquavite che dava risalto al profumo dell'anice intriso nelle pagnotte usciva dalla bocca dell'omino; ciò spiega la sua larghezza di credito e quel fare trasognato. L'uomo che vive tra cielo e terra, sospeso non importa se nei fiumi dell'incenso o dell'alcool, è più vicino a dio, del presente a se stesso, bevitore d'acqua, uomo normale, che se è fornaio stampa sopra gli scaffali: Non si fa credenza sul pane. Il vecchietto aveva del santo e sparpagliava le pagnotte come San Francesco i chicchi di grano agli uccelli, sulle dorate aie del Signore.
Una mattina, aspetta aspetta, ma il vecchietto non si vide. Suonarono le nove, le dieci, le undici, i dodici tocchi del mezzogiorno. Ricominciò il tocco a morto, poi le due, le tre. Dalle finestrelle che davano sulla tromba delle scale si protendevano teste scarduffate di poeti e di pazzi, di asceti e di manigoldi: chi, con negli occhi l'oblio delle cose terrene come la giovinetta che si accosta all'altare per comunicarsi, chi, con la brama vorace della fiera, che bramendo agugna il pasto e si forbisce la lingua calda, le labbra sitibonde, e chi, con la balordaggine del porco che grugola nel truogolo vuoto. Occhiate interrogative, ordivano una rete fitta da una finestrella all'altra; suonarono le quattro, le cinque, le sei. Quando sulle fortificazioni si accesero i primi lumi, alla Ruche si spensero le speranze della "pagnotta".
L'indomani di buon mattino il vecchietto mortificato mortificato lasciò per ogni uscio doppia pagnotta. Gli uggiolii, gli sbadigli, i bramiti tacquero negli studi.
Tutti eravamo incuriositi di sapere perché il vecchietto ci aveva costretti all'incauto salto di un mezzogiorno, ma con quella filza di conto chi avrebbe osato domandarglielo? Ce lo narrò la sera Kuett mentre eravamo seduti intorno alla stufa di Matteo. L'ebreetto la sera innanzi aveva alzato il gomito più dell'usato, talché si ridusse a casa verso l'ore piccole, ridotto come un cencio e con la vista doppia. I lumi lungo i boulevards sui quali camminava per ridursi al forno si sfaccettavano, luci poliedriche giostravano una girandola vertiginosa. Gli uomini avevano messo una raggiera di teste che si apriva a ventaglio e repentinamente si conglobavano in una sfera, a volte folgoravano il fornaretto con centomila occhi, a volte lo trafiggevano con uno solo che aveva la terribilità d'un ciclope. Camminando, questi esseri roteavano le braccia che eran tante quanti i razzi di una ruota confitti nel mozzo. Guardandoli, le gambe sembravano i "mille-piedi" all'assalto del cielo. La via si era puntata verso il firmamento con tagli rettilinei lucenti come spade. Il povero Cristo ebreo, pareva dannato a camminare sopra una lastra di vetro ed era inebbriato come una marmotta. Il cielo a spirali trapanava la terra, le stelle di su i trivelli dello spirale gigantesco, si sparpagliavano per il cielo, le case ridevano con cento bocche aperte sdraiate sulle porche degli orti. L'ebreetto voleva poggiare la schiena al muro, ma questo precipitava nel vuoto e lui andava ruzzoloni sul marciapiedi il quale pareva pollino. Il fornaretto aveva la terribile illusione d'esserne inghiottito. Carpone, razzolava lungo i cunicoli, poi, quasi che la terra si ribaltasse all'indietro egli si trovava di nuovo debout «Nom des noms» esclamava. Così, a pezzi e a bocconi poté avvicinarsi alla tettia ove sfavillava il forno.
Ferma d'innanzi al forno c'era la carretta del mugnaio il quale scaricava l'ultima balla di fiore. Quand'ebbe vuotato il piano, il vetturale schioccò la frusta e messe al passo i cavalli sulla via del ritorno. La lanterna che penzolava dalla sala fu presa dal fornaretto allucinto per quella che era appesa fuori alla sua bottega. L'ebreetto, come le novelle, prese a camminare, camminare, camminare dietro al lumicino. La terra gli sembrò un gigantesco rullo ch'egli dovesse spingere al suo destino con la forza delle sue gambette. Rassegnato, si passò le braccia dietro la schiena, incatenò le mani una con l'altra, e via, via, via. La carretta raggiunse le mura della città, oltrepassò la porta di Versailles, prese una strada maestra che pareva conducesse a qualche stalla aperta nel cielo che quella sera era color lattiginoso e fiorito di stelle. L'ebreetto rattrappito da cader della guazza, era stato distanziato di un cinquecento metri: quand'ebbe fatto tre o quattro chilometri, egli sgranchì le membra, si snebbiò gli occhi, sbadigliò, stiracchiò le giunture. La terra che prima precipitava sotto l'esile peso del suo corpo si era assodata come l'acciaio e giaceva sonnolenta coperta di un rorido mantellaccio a toppe, il rotolìo del carro pareva la rodesse come un tarlo alacre. Il lume che da un pezzo alitava pigro, si era spento. L'ebreetto si sentì come smarrito: «Nom des noms» esclamò.
Fece pernio sulle gambe e girò intorno: a levante, Parigi avvampava il cielo con l'esplosione dei centomila lumi. Mortificato, l'ebreetto ritornò passo passo verso quella fornace che arroventava il cielo.
Il pane stralevato, sgrondava giù dalle tavole; nel forno crepitavano l'ultime faville. Quando vi entrò l'ebreetto, dai vetri rotti della finestra si scorgeva il celeste dell'alba. L'omettino spossato si addormentò sulla mastra, e noi saltammo a piè pari il mezzogiorno.