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Carlo Sarti (o, se volete, Ser Ciappelletto), l'arguto corrispondente della Tribuna da Parigi, è bolognese. A Parigi quel suo rumoroso dialetto è stato messo in sordina ed esce dalla bocca di Sarti come un soffio di vento dalla fessura di una finestra. Si addice così alla missione ch'egli si è imposto: ridurre al ragionamento i pazzi da catena. Sarti mi è sembrato che abbia la costanza di un missionario il quale tenti di convertire alla fede uno scismatico dannato. Benché egli abbia qualche cosa del Mefistofele: occhi scintillanti, viso pertinace con permanente dominio sul reprobo – un Mefistofele sbarbato e convertito – tentatore sulla via del bene:
La vita a sé ti vuol.
Quando più l'orso mugugna, la vocina di Sarti diventa acuta come il ronzio d'una zanzara e punge come l'aculeo di una vespa. L'orso sotto questi fori squassa l'ispida chioma e bramisce:
«Cosa hai detto?»
Sarti ripete il versetto e stringe nella tegnaglia della logica la zampa della belva.
Chi vedesse questo garbato signore affiancato a una specie di brandano emigrato, rattoppato e di chioma irsuta, al quale parlasse in un orecchio, e lo lusingasse col suo sorrisetto scettico, e vedesse l'ingrugnato ascoltatore incagnirsi col sgricciolar di denti e scalpitar di tacchi scalcagnati, sarebbe indotto a pensar che quel bel signorino suggerisse al meschino piani infernali, azioni abominevoli, tentazioni orrende, e pietà lo coglierebbe per quel tartassato dalle demonia.
Sarti invece è proprio allora che gli sussurra con la vocina più soave: Giudizio, figlio mio, quella vita è terribile, non siamo in Italia, non c'è il sole: e guarda ghiotto, se negli occhi o sulla fronte del reprobo nascono i segni del ravvedimento, una ruga, una scintilla. Ma, vedendo che il temerario è pertinace come un eresiarca, allora egli insinua: «Figlio mio, la casa mia è sempre aperta, un piatto di più non guasta il galantuomo, ma...».
«Ma vai al diavolo!» gli ha risposto qualcuno di questi bei tomi. Ma Sarti ostinato come il Mefistofele maligno e dalle granfie adunche, benché distanziato dall'orso che ha messo sul capo e sul viso le spine di un istrice, per timore di cadere in tentazione e lo scruta quasi avido della sua cuticagna, continua per prudenza in forma di soliloquio: «Quanti... mio Dio, si son perduti. Venuti qui dall'Italia pieni d'illusione, di speranze, di sogni».
Ma chi si è messa una brutta camicia addosso ha la testa più dura del macigno.
La telefonata quotidiana al giornale urge: «Vieni a cena da me?».
«Sì!» risponde l'orso, ma col tono arrogante come gli avesse risposto: No.
Una volta Sarti fu indotto in tentazione dal diavolo vero: gli prese l'idea di scrivere la storia di questi malnati internazionali. Il poveretto s'intrugliò nei laberinti delle straducole, salì nelle mansarde degringolate, dove in sé stesso putre e fermenta il novello Labre della stecca e del pennello, scese nelle cantine da petrolieri, ed ivi trovò gente che addomesticava talponi e compenetrava teste nei tubi della stufa configgendogli nelle orbite dei solidi triangolari e ricalcandogli un cono sulla service. Indugiò in ateliers dove si decomponeva un nudo con matematici squartamenti e dalle viscere uscivano numeri cabalistici, pentagoni, elissi frangiate di saette, palle da giocolieri, tubi fuligginosi, ventole sezionate da lume, la compenetrazione metafisica, il lirismo cosciente purgato d'ogni torbido affettivo:
«Misericordia di Dio» dice esclamasse in quei frangenti.
Fu in una di queste sentine che Sarti pescò il mio nome e il mio indirizzo. Seppi poi dall'amico il quale gli fece la miracolosa rivelazione, che Sarti urlava stupito: «Un italiano?».
«Qui.»
S'abbottonò il pastrano e via difilato alla Ruche.
Proprio in quel giorno era arrivata da Mosca una signora che avevo conosciuto sulla spiaggia del mio paese. Essa m'aveva avvertito del suo arrivo con un pneumatique: Sono all'Hôtel Majestic. Trascrissi sull'uscio del mio studio con matita Comté: Sono all'Hôtel Majestic. Il naso di Sarti, quando vide queste parole dice si allungò come quello di Pinocchio. Fu udito ripetere sulle scale in tono trasecolato: Sono all'Hôtel Majestic.
Sarti quando si propone di salvare un'anima dalla tragedia parigina, non la cede nemmeno a Cristo medesimo. Dopo qualche giorno fu riveduto davanti alla porta del mio studio ma la mano gli fu pietrificata per aria dalle parole: "Sono all'Hôtel Majestic". Stette un po' al buco della chiave, come il frate che confessa e poi mormorò incuriosito: «Cosa farà mai all'Hôtel Majestic?».
Io, non cancellai mai lo scritto e Sarti deve esser ritornato più volte perché un giorno ci trovai scritto: "Se lei ha preso dimora all'Hôtel Majestic, chi se ne frega?". C. Sarti. Anche i redentori perdono la pazienza, dunque?
Una mattina all'alzata del sole mentre ero intento a falciarmi la barba che avevo ispida e il viso coperto con una candida spuma di sapone come quando si forma una scultura, e i capelli parevano un nido d'arpìe, sentii bussare alla porta. Siccome ero in ginocchio che mi specchiavo in una tinozza d'acqua, tanto curvo che ne radevo quasi il filo pel timore di affettarmi il ceffo, urlai: «Chi va là?».
L'uomo che aveva bussato doveva dubitare ch'io fossi nello studio; rispose con un fil di voce: «Amici». Mi alzai che avevo mezza faccia da radermi; siccome avevo da una mano il rasoio e dall'altra un bruschino di saggina, detti una pedata tanto forte all'uscio che mancò poco non smusassi l'incauto visitatore il quale si ritrasse di tre passi. Avevo al collo un cannovaccio di ghineone color piombo. I pantaloni sbracalati scoprivan l'ombelico:
«Cosa vole?»
"Lui in carne e in ossa" pensò Sarti. «Scusi, lei è Lorenzo Viani?»
«Sì.»
«Carlo Sarti, della Tribuna. Ora le spiegherò» soggiunse. «Ma sarà prudente entrare, vedo lei che si rade.»
«Che sto svelgendomi il pelame, ella vuol dire.»
Entrammo. Sarti sembrava che camminasse sulle uova. In terra c'era di tutto un po', il sediolo era sepolto sotto una valanga di libri: «Mi duole doverle offrire per sedile il davanzale della finestra o la stufa, altrimenti può, se crede, accomodarsi sull'ottomana.» Sarti proprio in quel momento si era fissato sul mio letto.
«Io intanto continuo questa operazione» e nel dir così mi gettai sulle ginocchia e chinai il capo verso la tinozza dando di ruota al rasoio sul palmo della mano.
Sarti si decise per l'ottomana. Io lo vedevo capovolto sulla spera d'acqua. Le lenzuola erano attorcigliate all'imbottito, sbuzzato, dal quale erano uscite tante penne che sembrava ci fosse stata spennata una gallina. Il guanciale coll'impronta della testa sembrava un pane di segale. Le lenzuola avevano il giallo del lardo rancidito. Sarti fu per un po' perplesso al cospetto di certe macchiette nere come se nelle coltri ci fossero state le tarme, ma assicuratosi che queste erano immobili si alzò fin sopra le fianchette un cappottino color nocciola e si sedette come sui triboli. Alzò lievemente le mani e gli occhi al cielo: "Misericordia di Dio" avrà pensato. Si acconciò su quel sedile come sulla sedia di un cavadenti nell'angolo di una piazza, poggiò le mani linde sopra un bastoncino di bambù, e ogni tanto le batteva l'una sopra l'altra come se facesse lo scaldamano. A volte fissava quella specie di tarli sulle lenzuola come se da quegli impercettibili pertugi dovessero uscire delle belve. Osservava la stravaganza di radersi la barba e il modo di affilare il rasoio e quel pezzo di sapone che calcinava il viso e il bruschino che avrebbe scorticato la pelle d'un somaro: "Misericordia di Dio!".
Volgeva gli occhi alle mura tappezzate di disegni, losche figure di ossessi, indemoniati, allucinati, e appesi sopra a questi, pantaloni pieni di mota, cappelli schiacciati e sgrondati, e in terra calze, pentoli, pennelli secchi, piatti, cartelle di schizzi pestate, appunti di scrittura, coltelli rugginosi, pezzi di pane, patate, capi d'aglio, forcone di cipolle, scatole di thè, pietrine di zucchero, vocabolari, macchinetta a spirito e uno scendiletto fatto con la fodera d'una giacchetta:
"Misericordia di Dio!"
Sul tavolinetto che era desco e scrivania, un calamaio rovesciato, una penna innestata a un'asta, un lume a petrolio con mezzo tubo e quella mattina un piatto con un osso. Sarti scrutò ben bene che non si trattasse di un osso di cartone messo lì come per dire: "Non si frigge mica con l'acqua!". Ma quello che lo fece trasecolare fu un palloncino alla veneziana nuovo fiammante che avevo legato a un trave con uno spago e dondolava, sicché pareva una farfalla che volasse sull'arca di Noè.
«Questo è stato un regalo» gli dissi io vedendo che Sarti ci si riposava sopra.
Egli colse questa bella occasione per spiccare un salto dall'ottomana. Io mi risciacquavo nella tinozza immergendovi il capo fino alla nuca, poi riaggallavo e squassando la capigliera sgrondavo acqua da per tutto, come quando i cani escono dalle fosse della palude. Qualche schizzo deve aver percosso anche il viso di Sarti perché fece un gesto come per dire: "Troppa grazia".
Sarti tacque ma slargò una parte della bocca e un occhio. Io sapendo che avevo a che fare con il caustico Ser Ciappelletto, gli dissi:
«Lei non è del mio parere, dica la verità.»
«Senta,» esplose Sarti «piuttosto, lei si diverte a condurre questa vita?»
Ringalluzzito dal mio silenzio e dalla gioia di non essere più seduto sull'ottomana, si scosse pantaloni e il cappottino come quando ci siamo seduti in campagna sull'erba vicino a un muro rotto. Per velare tutti questi gesti disse forte:
«Guardiamo in faccia la realtà; la sua vita non è gaia, e poi...» e come per aver preso forza da questa espressione girò sul tacco di una scarpa come un guindolo con ambo le mani aperte a forchetta. Quando me lo rividi davanti, aveva un viso sconturbato: «E poi... questo non è un Eden».
«Non caschiamo nell'iperbole» dissi io grave.
«Nell'iperbole?» echeggiò Sarti inorridito. E questa volta disse forte: «Misericordia di Dio! I russi, sì... amiconi... ma la polizia tiene d'occhio questa casa... le fortificazioni a due passi. Pietà di te, Viani».
«Ma, in conclusione,» io interruppi fiero «lei avrebbe qualche idea concreta?»
«Quella d'invitarla a pranzo, per esempio.»
«L'idea non è priva d'acume» risposi io.
«Allora si vesta alla "meglio" e usciamo.»
Sulle parole alla meglio, Sarti sprofondò il tono come fa il piede quando posa sopra un terreno soffice.
«Al tempo» urlai mentre ero infilato dentro la camicia.
«Cosa dice?»
«Dico che i vecchi hanno la barba grigia» e sbucando fuori dal colletto soggiunsi «così diceva il Principe di Danimarca.»
Dal risolino di Ser Ciappelletto capii ch'egli aveva voglia di insinuarmi: "Amleto diceva pure: C'è del putrido in Danimarca..." ma l'ingozzò e si limitò a sollecitarmi: «Lasci le lettere, si vesta... si vesta...».
Staccai da un chiodo il pastrano color di cielo in tempesta con qualche strappo d'azzurro sotto le braccia e le rovescie delle pettine: il primo colore. Presi di sotto un libro, il cappello cenere conformato a filtro e mi annodai al collo una cravatta color San Giuseppe, rossagranata. L'acconciatura delle vesti, benché avessi preso l'aspetto di un fantoccio, non stupì Sarti, ma quando uscendo feci l'atto di prendere un bastone ritorto in cima come il corno di un becco e con una ghiera a punta d'acciaio, Sarti aprì la dentiera come una martinicca:
«Anche quello? Misericordia di Dio!»
«Fino a qui entra senza pagar dazio» e, bilanciando il bastone, segnai con un dito il termine dell'acciaio.
«Ma siamo a Parigi» esclamò irato Sarti. «Benedetti figlioli!»
Appena fuori in fretta mi nascose in una buca del Metropolitan. Sarti però dovette fare un figurone; egli doveva sembrare un ispettore di polizia, e io un bandito. In pochi minuti il Metropolitan ci rigettò in Piazza della Borsa, di lì Sarti con la mazzetta mi parò come un bufalo nella rue Brognart lunga una venticinquina di metri, dove era la sua casa. Le scale di legno, pulimentate a cera, rimbombavano dal mio passo come sotto un martellamento di piccole artiglierie.
«Viani, alzi il bastone» sussurrava Sarti.
Io messi il randello a bilanci'arm. Sul pianerottolo, a quel trepestio corsero la signora Sarti e il figlioletto che mi osservarono con stupore. La signora disse piano a Sarti: «Gente».
Fui introdotto nell'entratura, appesi il randello a un gancio dell'attaccapanni e il pastrano che, impolpato com'era, sarà pesato un mezzo quintale. Mi tolsi il tocco di capo e mi slargai il cappio della cravatta. Sarti entrò nel salotto dopo essersi ravviato sul cranio lucido una venticinquina di capelli che all'uopo coltivava sul parietale sinistro. Egli non era ancora del tutto sparito nel salotto che riuscì urlando: «Viani, Viani, Viani, passa!».
Entrai. Seduti al tavolo c'erano due signori; uno aveva l'aspetto di barnabita, barba di rame, folta sulle mascelle, rada intorno alla bocca, naso rotondo, occhiali a stanghetta, con dei dischi di vetro tanto spessi che gli occhi ci appannavano sotto. Il carnato aveva olivastro e terreo come un frate usato alle penitenze e alle mortificazioni: era invece Ratalanga, l'illustratore dell'Asino. L'altro era sottile e stremezzito con il viso a punta come le volpi e gli occhi di faina, bilicava le lenti sull'imponente ponte del naso: egli era Musacchio, il quale stava perdendo a Parigi una patina di giallo itterico che aveva preso nell'America del sud da dove veniva fresco fresco. Bevemmo un paio di chili di spaghetti. Allora non c'era bisogno di acqua "acertosella" per smaltirli. Mentre noi ci si intrippava di quella grazia di Dio, Sarti si vuotava di tutti i consigli che avea nel gubbio. Trovando del sodo dalla mia parte, si rivolgeva a Musacchio. Ratalanga aveva già mangiato il fuoco.
Quando uscimmo, Sarti e Ratalanga andarono alla redazione dell'Assiette au beurre. Io e Musacchio si rimase nel centro; così inzavorrati di pasta asciutta, si sarebbe potuti ritornare in America a vela. All'improvviso chiesi a Musacchio: «Dimmi un po', come te la passi a Parigi?».
Cesare alzò la mano secca e la fece bilicare per aria come gli uccelli beccapesci quando stanno per posarsi sulle onde infuriate.
«?...»
«Sarebbe a dire che è questione di mammura?»
Dopo tanti anni, ho letto sui fogli che Cesare è passato a volo nel cielo di Parigi diretto a Londra onde ritrarre l'effige dell'altro Cesare, Re d'Inghilterra e Imperator delle Indie. I consigli di Sarti l'hanno spinto in alto, sopra un meccanismo più pesante dell'aria. Quel giorno Ser Ciappelletto, a naso in sù, affacciato all'abbaino della Rue Brognart, osservando il carro alato con il peso di Cesare, disse tra sé: Beato. Ho compiuto il miracolo! Misericordia di Dio!
Quando partii dal mio paese diretto a Parigi portai meco un vecchio catalogo del "Salon d'Automne". «Potrà essere utile anche questo» dissi quando mettevo quella po' di roba che avevo, dentro un sacco di vela. Il tomo per la forma rettangolare si allogava agevolmente nelle tasche capaci del mio pastrano, ed io in Parigi lo tenevo sempre con me. I primi vocaboli francesi li appresi in quel volume pieno zeppo di nomi, date, titoli di quadri e indirizzi. La lettura di quel libro uggiva come la consultazione di un orario: un nome, un paese, un indirizzo.
Un giorno uscii dalla Ruche per non essere trovato secco sulle coltri, come al solito inzavorrato del catalogo. Era la prima volta che sentivo lo sconveniente oltre la morte: il pudore postumo. Assiderare con lo stomaco vuoto sopra una panchina dei boulevards esteriori; dopo una settimana di pubblicità sui gelidi pietroni della Morgue, cullati dal fruscìo delle acque della Senna, si avvallava per sempre nell'abisso senza fondo: Sconosciuto.
Avevo veduto la burocrazia in lutto al capezzale di un pittore, morto di stenti nel casone. Motinski era etico, ma lavorava tuttavia. Ogni volta che capitavo nel suo studio lo trovavo sempre seduto davanti al cavalletto che aveva collocato vicino al suo cuccio. Motinski era gelido e trasparente come l'avorio, la barbetta nera e i capelli lunghi fluenti cominciavano a disintegrarsi dall'orditura dell'organismo, si acciuffavano sulla pelle gelida come i capelli finti sopra una testa di cera. Motinski ricordava certe teste di Holbein, naso lungo, bocca sigillata, occhi a mandorla. L'astinenza del cibo e delle bevande gli acuiva l'acredine dei sali e rendeva più sensibili i nervi slacciati; molte volte Motinski si abbandonava spossato sulla sedia, sudando freddo.
Trovavo spesso da lui uno strano uomo: Skukisciak, il quale era stato deportato per tanti anni in Siberia. Egli era basso e grasso, rilassato, aveva certo cinquant'anni ma ne dimostrava settanta: sdentato, occhi scalpellinati, labbra mencie, barba spinosa, di colore storno. Per certi tagli recisi che affettavano i segni particolari del viso, aveva dell'indiano. Il fakirismo contratto nell'orrido tedio della prigione gli aveva reso inerti gli occhi e tutta l'espressione:
Doveva interogare Motinski il quale rispondeva:
«Noks apomkois sdrobakutis amnomoik.»
«Dobra.»
Quel tak tak sembrava che qualcuno imbullettasse coi denti una cassa da morto.
I colpi di una tosse secca, di quelle che scassano il petto e par che scoperchino le cervella, si udiva spenta nell'atelier ove giaceva Motinski, colpi duri come quelli del picchio quando aguzza il becco nella ceppa di una rovere. La notte, quando il vento ruzzolava i tegoli e i tubi delle stufe risoffiavano gli urli del vento e il piovasco tamburellava i vetri, Motinski non aveva requie. Egli era là solo, avvoltolato nel suo cappotto. Una tazza d'acqua che gli avevano colmato gli amici, era sopra una sedia da capo a letto. I panni, che si era tolto la sera che si allettò, erano afflosciti sopra una sedia. Sembravano le pelli di una serpe; la giacchetta sulla spalliera, sembrava gettata sulle spalle di un uomo decapitato. Sulle scarpe sotto il letto c'era calcinata la fanga, i calzini grigi coperti di polvere erano adeguati all'impiantito, a un chiodo era appeso il cappello di gronda larga: il coperchio delle illusioni, e sul chiucco c'era il colletto di celluloide e la serpigine della cravatta.
Una mattina lo studio di Motinski era chiuso nel silenzio. Qualcuno timoroso, si accostò alla porta e per il foro della chiave guardò dentro. Visto traverso quel breve pertugio, Motinski sembrò uno di quei santi che si veggono traverso il piccolo foro d'una piccola croce: era marmato sulle coltri diaccie e le sue ossa pareva avessero già la pesantezza della pietra sepolcrale. La cantinella macchiata di sangue che si era posta dalla parte del cuore, oltrepassava il teschio, la fronte appiattita di colore avorio, rifletteva la chiarezza del nulla. Nella continua inedia lo stomaco bisognoso di nutrimento, aveva succhiato tutto il corpo. Soltanto il teschio era rimasto solido sulle coltri, gli volavano sopra delle mosche, Motinski era allungato d'una spanna e i piedi stecchiti avevano sbuzzato le coltri. Venne la burocrazia in lutto al capezzale del morto di stenti. Gli orridi croque-morts, i secondini della morte, gli infilarono a un occhiello della giubba un talloncino di cuoio con su scritto il suo nome, come da noi si mette al collo di una damigiana di vino. Un croque-mort come un mostruoso scarabeo raccattò tutto quello che trovò nello studio, cartoline slavate, stinte, accartocciate e quei pochi indumenti che erano da tempo morti alle pareti; li messe dentro una giubba aperta e dopo gli annodò le maniche. Il corpo fu avvoltolato nel cappotto e deposto in una cassa di abete, di pielle di un centimetro, che quando c'è dentro il morto anche se esso è divorato dalla fame, fanno arcocchio e le bullette si svellono e dalle senìci si scorgono l'unghie delle mani attrappite e le costure dei pantaloni.
Lo stesero sul carro e gli tirarono addosso un cencio nero, su cui era una croce di stagnola: il giacchio delle anime perse. L'argento della stagnola, la croce d'argento, le frangie d'argento, i bottoni dei croque-morts d'argento, pareva dicessero: Ricrepa dentro la cassa, scialone!
I cavalli peluccavano le malerbe e il vetturale a gambe larghe addossato al calcio di un pioppo, urlava intontito ai croquemorts: «Allons, allons, allons».
Con questa argentea visione macchinalmente quel giorno uscii dalla Ruche, presi la Rue dell'Abbé Grouelt e tendevo al Boulevard Arago.
Era uno di quei giorni scuri, quando le mura dei giardini sembrano quelle dei cimiteri e i larici si imparentano coi cipressi e le ville là, nel fondo, sembrano camere mortuarie e i cani e le ville là, nel fondo, sembrano camere mortuarie e i cani si tramutano in iene. I nomi stessi delle strade, Abbé Grouelt ed Arago, mi mettevano una un curato al fianco e l'altra un patibolo. Il colletto di celluloide mi sembrava la lama della ghigliottina e mi pareva di sentirmi colare il sangue diaccio giù per il fil delle reni; quei giorni il delitto fa dei segni celesti dentro le cervella sbiancate. Rasentando le mura, il belletto verde m'aveva empito di morca le maniche, sulle mie membra mi pareva già scalpitasse un cavallo e la testa l'avessi sotto la ruota di una automobile con la giubba attorcigliata al collo indurita di schegge d'ossa. Quei giorni guardando gli uomini nel ceffo si veggono vuoti come le maschere di bronzo, senza occhi, a bocca spalancata e vorace che a gridargli sulla bocca: Vigliacconi! la parola gli sfiaterebbe avvelenata da tutti i fori. La strada la vedevo dentro me, più che con gli occhi. Dopo quanto non so, mi trovai sulle panchine del Boulevard Arago: ci debbono aver tagliato delle teste. Le vette degli alberi mugghiavano come anime in pena.
Lo spettacolo che avevo a poche panchine di distanza, non era dei più adatti nell'ora di morte: alcuni uomini erano sdraiati sopra un sedile; visti di scorcio non riuscivo a scorgergli altro che le nodella e gli stinchi scarniti, salvo ad uno la cui testa penzolava dal sedile come una zucca da una tettoia appiccata al gambo, la lingua penzolava quasi che egli volesse leccar la terra, il teschio dove pareva ch'egli fosse colato tutto, posava sul terriccio; la bombetta gli era ruzzolata sotto il sedile. Più in là vedevo di schiena una donna legnosa con le spalle appuntite come un tagliere e scabre come ci avessero battuto per degli anni delle cotenne, aggrumata era di loja e di lordura, ai margini del costato intravvedevo le poppe sminze e la pancia frolla gonfia di una pregnezza bugiarda, il troncone sembrava decapitato; nel mezzo alle fosse delle scapole non scorgevo altro che il dente di Atlante. La donna frucava dentro un sacco e vi traeva dei barattoli di latta, degli utensili stravaganti. Di tra quelle calìe, accese una luce violetta. La vecchia vi ronfava per suscitare delle lingue di fuoco. Dopo poco dalla bocca del recipiente traboccarono degli strosci d'acqua bollente, mi avvicinai per vedere, ella era scarnificata da un cancro, mi schizzò addosso gli occhi sgusciati, sulla fronte aveva un impiastro che gliela tamponava tutta e le impoltigliava i capelli, coi denti di cagna teneva una tazza dove c'era una bevanda gialla, man mano che mi avvicinavo, i suoi occhi bruciavano di ferocia e sembrò divenire improvvisamente itterica quando tritolando l'orlo della tazza si sbrodolò tutte le vesti.
La Morte s'era fatta un bricco di caffè ribollendo i fondi che aveva raccolto sopra una concimaia; quando le fui vicino, sgricciolò i denti e ingozzò tutto il liquido e digrumò avida i fondiglioli.
Ritornai sopra il mio sedile, trassi di tasca il catalogo e mi internai nella lettura, tormentato ogni tanto da sconnesse parole dettate a voce alta da quei mucchi d'ossa che dovevano sognare e dai grugniti della vecchia, alla quale faceva rigurgito in bocca il liquido velenoso.
Tra i molti nomi stampati su quelle pagine, lessi quello di Mary Johnson; un'eco di cose lontane percosse il mio cuore. La Johnson era una pittrice che avevo conosciuto sul canale del mio paese mentre ella dipingeva le darsene; ella abitava, ai tempi che fu stampato il catalogo, Boulevard Momparnasse, 152 bis. In quei paraggi. Andai verso il boulevard in fretta. La terra sembrava impeciata e le gambe pareva mi si impiombassero sull'asfalto. Un'acquatrella a scossoni schizzava addosso, sembrava piovesse stecche d'ombrello. Le rame svettate la moltiplicavano sulle mie spalle, dalle suole consunte entrava l'acqua, dannazione dei vagabondi, e mi diacciava i piedi. Ogni tanto sentivo i triboli del ghiaino; quella che mi scolava in bocca la bevevo, quell'acqua che sa di tetto mi placava l'arsura. Dopo ch'ebbi fatto un chilometro le scapole colavano come due embrici: pian piano mi sentivo tutto bagno. Quei tetri casamenti con trenta sporti segnati col medesimo numero mi facevano allungare il collo; sollecitato dagli scossoni d'acqua andavo in fretta, qualche spallata che davo nel calcio degli alberi mi metteva sotto un crivello di goccioloni. La mitraglia degli schizzi esplodeva dai bozzi schiacciati dagli auto, mi foravano gli stinchi; arrivai al 152, ammollato come un topo. Prima di entrare mi messi a scolare sotto le grondaie di quel casamento di lusso con quei sette piani uno sull'altro che l'ultimo par si smusi nel cielo d'acciaio. Sulle scale di marmo ebbi a stincarmi tre o quattro volte, il cuoio impolpato d'acqua mi faceva slittare sugli scalini, mi salvai tre o quattro volte apparandomi con le mani. Finalmente al quarto piano vidi sopra una porta una carta da visita.
La porta si aprì. La signora Johnson apparve sulla soglia; come trasfigurata! i capelli le erano incanutiti, il fulvo di un tempo sbiadiva sulle cime, gli occhi grigi argento erano ora ossidati, le labbra rosee eran diventate color malva, la lentiggine dorata d'una volta sembrava rugginita, la carne soda palpitava gelatinosa, tutto il viso era percosso da un tremito di paura, i capelli, appuntati sulla nuca con due forcelle di tartaruga, sgrondavano a ciocche sul viso ed essa li ravviava in su colle mani di cera filettate di vene celesti. La signora attendeva qualche altra persona perché, mentre mi spingeva sopra pensiero verso l'uscio, protese tutto il corpo verso le scale. Quand'ebbe richiuso il paravento, mi disse: «Come mai oggi... sembra di sognare, passate... di sogna ...re» e tirò un sospiro. Io tacqui, sentivo per aria odor di tragedia. Nelle stanze filtrava la luce, dalle finestre appannate, quei giorni in cui le case al nord sembravano acquari; la signora si doleva nel suo idioma: «God heaven, help, oh Lord». Intuii ch'ella invocava Iddio con disperazione.
Il salotto della piccola casa era rassettato a studio: una scatola di pastelli, gialli, rosa, neri, graduava un lene motivo di quel monotono accordo di grigi, gli faceva eco una tavolozza appesa al muro. Il cretaceo di una parete era arrivato da un coccio di terra rossa pieno di pennelli, stampe di Bonington di Constable e Whistler decoravano le pareti. Sul volto della signora schiarì un tenue sorriso quando mi accennò un cartone sopra un cavalletto: la piazza del Mercato del mio paese dipinto da me in tempi lontani.
«Vedete?»
«Sì.»
Il contegno della signora cominciò a preoccuparmi; quando oltrepassato il salotto prese a camminare in punta di piedi, io feci altrettanto. Per un corridoietto m'introdusse in cucina, sul buffett c'era pane, marmellata, burro.
E la signora protese il collo verso le stanze che avevamo traversato. Ella si agitava come se l'impiantito fosse stato rovente.
Da una camera in fondo si udì a un tratto come il bramito di una iena, io rimasi col boccone in bocca, delle stoviglie si frantumarono contro una vetrage, una porta fu sganasciata e una Erinni infernale apparve in fondo al corridoio.
«God hèaven, help» singhiozzò la signora e, raccogliendosi le vesti, andò incontro alla donna spiritata. Ell'era magra, coi capelli sciolti, che svolazzavano come la criniera di una cavalla selvaggia, gli occhi vitrei si appannavano tra le tanaglie dell'epilessia, la bocca bramendo schizzava bava, i denti martellavano a scatti; quando fu nel mezzo della sala impietrì. Su quel viso si alternava l'espressione di Tesifone con quella di Ofelia, le mani di morta mettevano l'ugne dell'arpia e la donna si lacerava le vesti e le carni, poi si stecchì a una parete e, sorridendo, a chius'occhi rispondeva alla signora Johnson, come a un rosario:
«Oh Lord! »
«Gracious me!»
La signora Johnson, cogliendo un momento in cui la donna era caduta in una specie di deliquio, mi disse piano: «È mia sorella, le hanno ucciso il marito in India! Ritornate, ritornate, vi prego».
Uscii fuori come dissensato: i globi della luce erano appannati dalla nebbia. Per ridurmi più presto a casa, tagliai dalla parte del cimitero d Montparnasse ossessionato dal vociare roco dello strillone del Paris Sport. Quando fui nella Rue Ditot, Parigi sembrava un mostruoso bugno di api, una spaventosa cornamusa dipanata dal vento. In quel silenzio godei la pace dei naviganti quando dopo tanti perigli approdano con la barca nel porto. Per poco, che quando scantonai sul Boulevard Lefèbre mi si parò davanti una vecchia mendica, la quale, tirata su le gonne, a stinchi nudi, danzava sul marciapiede. Il suo corpo squinternato ogni volta che piombava a piè pari sull'impietrato crocchiava che pareva dovesse sfasciarsi. La testa, annodata coi lacciuoli di una cuffia bianca, si contorceva con delle smorfie spettrali e cantava:
Clemenceau, Clemenceau, Charenton
Tra la la tra la la la
Paradis sempre sarà
Clemenceau, Clemenceau, Charenton
Clemenceau, Clemenceau, Charenton
e accompagnava il canto battendo insieme due copertelle di latta. Tentai di evitarla, ma la scellerata mi tagliava la strada saltando per aria. Quando le potei passare avanti, la mendica mi perseguitò da lontano, vociando sempre più forte:
Clemenceau, Clemenceau, Charenton
Quando vide ch'io filavo via, si fermò e urlò come un'ossessa:
«Monsieur!... Clemenceau va assassiner la République» e riprese a saltare come una ranocchia nel fango.